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Romolo
Nicolis, pittore e musicista. a cura di Anna Solati
Romolo Nicolis - autoscatto.
Romolo Nicolis apparteneva ad un’antica famiglia di San Martino Buon Albergo, una famiglia abbiente e generosa. In una lapide del 1662 che si trovava nella parrocchiale, murata sopra la porta -da dove entravano gli uomini-, si leggeva: “Questa comunità è successa all’Oratorio di S. Antonio nell’obbligo di far celebrare una messa in perpetuo in tutti i giorni festivi per quondam Nicola de Nicoli. Atti di Vincenzo Ferro anno 1622”.
Si
trattava di un lascito di un antenato Nicolis. Poi in uno dei tanti lavori di
sistemazione della chiesa, l’iscrizione, ricordata anche dallo storico locale
G.B. Stegagno nella sua “Guida di San Martino Buon Albergo e Marcellise”,
sparì e con lei anche le messe.
Un
altro antico Nicolis aveva stanziato diversi zecchini d’oro veneziani per
costituire la dote: “per le ragazze onorate che si sposavano o monacavano.”
I Nicolis sono speziali, da qualche secolo, e si dice che un quadro che si trova appeso nella farmacia in cui attualmente esercita un nipote, ritragga un antenato, che dovrebbe essere un gentiluomo del settecento. Risale più o meno a quell’epoca anche l’insegna in ferro, ora all’interno della farmacia, che riproduce da un lato San Martino soldato e dall’altro San Martino Vescovo.
Durante
il risorgimento in famiglia ci furono dei simpatizzanti per le idee carbonare e,
in generale, gente aperta di idee, come vuole la tradizione per cui nei nostri
paesi una volta le autorità intellettuali erano il medico, il farmacista e il
parroco, spesso i primi due in contrasto con il terzo.
A
raccontarci con una certa modesta reticenza qualcosa del protagonista di questa
breve biografia è la figlia Lucia, anch’essa donna di talento e violinista di
valore.
“Di
mio padre mi sembra di aver poco da dire, ha condotto una vita abbastanza
semplice, andando fuori dal paese poche volte perché il suo tempo era limitato:
qualche concerto, l’opera in Arena, qualche mostra, qualche visita ai musei
d’arte italiani. Ma andiamo con ordine.
Romolo Nicolis
Mio nonno Sisto, aveva quarantuno anni quando, ai primi di gennaio del 1880, morì in modo violento. Lasciava sette figli, i più piccoli erano mio padre, nato nel 1876 e mio zio Aleardo nato nel 1878. Questo avvenimento tragico colpì profondamente mio padre che più tardi ideò il monumento funebre, straordinario per la sintetica bellezza, e dettò la poetica ed ermetica lapide.
Benedetto da mille voci dormi in pace Sisto Nicolis unanimi i poverelli ti piansero padre gli sventurati conforto la patria onore.
La
nonna si trovò ad allevare tutti quei figli, e ci riuscì benissimo, visto che
ognuno di essi riuscì a farsi strada nella vita. La farmacia andò a mio zio Epifanio, era il maggiore, si era laureato in chimica, e insegnò anche in una scuola superiore di Verona. Più tardi lo affiancò mio padre che ottenne di esercitare la professione grazie ad un decreto prefettizio. Egli amò sempre il lavoro di “speziale” ma mostrava un interesse molto forte anche per la pittura e la musica. Tutti i suoi fratelli avevano inclinazione per l’arte, però il più dotato di talento era lui che, in un certo senso, può essere considerato un autodidatta di entrambe le discipline, anche se per la musica fece tesoro delle lezioni che il famoso organista di quell’epoca, Dionigio Canestrari, veniva ad impartire a un altro mio zio. Riuscì a diventare un ottimo suonatore di organo, violino e violoncello, ma lo strumento preferito era il pianoforte e quando la sera, dopo una giornata di intenso lavoro, si metteva a suonare era come trascinato in un altro mondo, poteva andare avanti per ore senza accorgersene o stancarsi.
In
famiglia, come ho detto, un po’ tutti sapevano suonare e si era formato un
piccolo complesso strumentale. Con il suo orecchio musicale straordinario mio
padre riusciva a trascrivere i pezzi che ascoltava nei concerti (visto che a
quei tempi i dischi erano una cosa rara) e li adattava agli “orchestrali”
che aveva a disposizione. Ricordo che ero piccolissima, 4 o 5 anni, e mancando
chi faceva la parte del violino, ne misero uno minuscolo in mano a me e mi
fecero suonare assieme ai grandi: il mio futuro era, in un certo senso, già
tracciato.
Componeva anche operette che venivano eseguite nel teatro del paese e ne disegnava anche le scene. Ne abbiamo le immagini nelle famose fotografie dei fratelli Belli: attori e fotografi. Iniziò anche a scrivere le musiche per l’opera Nerone, su libretto del fratello Sisto. Suoi spartiti erano pubblicati sui giornali, eccone uno del 1906.
Romolo Nicolis, spartito pubblicato nel 1906.
Anche per noi bambine preparava dei quaderni di esercitazioni come questo per mia sorella Marta che più tardi si diplomò in pianoforte.
Romolo Nicolis, quaderno di esercitazioni musicali.
Mio nipote Nicola ne ha un grosso fascio riguardante musica “leggera”: mazurche e valzer, così in voga negli anni ‘20/’30. I testi erano traduzioni di poesie di autori famosi come Victor Hugo: era un cantautore ante litteram. Nelle grandi feste suonava l’organo e dirigeva il coro della chiesa. La sua casa era il luogo di incontro dei musicisti e pittori veronesi e di altre città. Durante la prima guerra mondiale, eravamo poco lontani dal fronte, si radunavano presso di lui gli ufficiali melomani, anche il futuro direttore dell’Opera di Roma e si facevano dei piccoli concerti. In quel periodo, anche se ormai aveva quasi quarant’anni, non si tirò indietro, ma ottenne di guidare le autoambulanze che portavano i feriti dal fronte agli ospedali della riviera. Un contributo generoso come era nel suo carattere. Come ho detto, le arti figurative erano un altro campo in cui eccelleva, anche se si rammaricava di non aver potuto avere un maestro vero per acquisire una tecnica. Come artista italiano che era maturato alla fine dell’ottocento, era particolarmente affascinato dai macchiaioli, lo stile a cui si richiamano specialmente molti suoi ritratti. Ma un uomo così libero da schemi mentali si espresse anche seguendo altre correnti pittoriche. Partecipò con un’opera anche alla prima biennale di Venezia.
Romolo Nicolis, quadro che ha partecipato alla prima biennale di Venezia.
Molti i quadri che dipinse e regalò ad amici e conoscenti, e siccome amava
fare tutto nel suo laboratorio, nel cortile della vecchia farmacia in Via XX
settembre, costruiva anche le cornici. . A disposizione del pubblico ci sono i grandi dipinti della nostra Parrocchiale. In sacrestia si trovano i ritratti dei parroci da lui conosciuti e la Madonna di Pompei a cui è legata una storia un po’ buffa.
I
modelli dei due devoti erano mia cugina Idelma, una biondina con gli occhi
azzurri, ed un fruttivendolo del luogo. Appena esposto il dipinto, la gente che
partecipava alle funzioni era continuamente distratta a guardare le somiglianze
e a far chiacchiere, per questo il parroco di allora, don Ambrosini, per riportare la serietà dovuta, decise di rimuovere la tela
e metterla dove si trova adesso.
Nel
periodo bellico e post bellico dipinse i quadri che si trovano in chiesa:
l’Annunciazione, del 1942, le 13
stazioni della Via Crucis, i dodici apostoli ( l’angelo accanto a Matteo è
mio nipote Marco da piccolo). Per queste opere, però, pur prendendo i modelli
dalla vita comune, riuscì, in qualche modo, a non renderli riconoscibili. Tutti
questi lavori sono stati mirabilmente restaurati negli anni ’90 su incarico di
Don Giovanni Giusti dal concittadino benemerito Giovanni Lovisetto (vedi: Protagonisti -
biografia) che ha riportato alla luce le luminose tinte originali.
Naturalmente mio padre si faceva anche i colori.
Delle altre sue opere mi piace ricordare il ritratto di don Calabria che si trova conservato presso l’Opera omonima ed era stato commissionato da un nostro devoto concittadino, Arturo Bussinelli, conosciuto con il soprannome di Pelàme (tante sarebbero le storie da raccontare su questo sant’uomo). Molti quadri sono rimasti in famiglia e mi sono particolarmente cari. Uno mostra mia madre agli inizi del loro matrimonio (la moglie).
La moglie.
Un altro rappresenta un momento tragico della loro
vita: la morte,
a pochi mesi, del mio fratellino. In un terzo ci siamo mia
sorella Marta e io. Ma mi commuovono particolarmente quelli che dipinse
negli ultimi anni quando non usciva più di casa e la sua visione era ormai solo
il cortile dove c’era stato il suo laboratorio. Anche se ormai la sensibilità
delle dita stava andandosene, motivo di grosso cruccio perché non poteva più
suonare, il suo amore positivo per la vita non lo aveva abbandonato per cui la
tavolozza era diventata ancora più solare, lo stile era cambiato, moderno. Quadro
del cortile.
Una passione privata di mio padre era la fotografia. In casa avevamo svariati album dove erano riprodotte tutte le possibili occasioni della vita famigliare, ma aveva anche lastre d’argento con immagini del paese che mostrava alla sera con una macchina da lui costruita. Le riproduzioni che vedete sono tutte dell’inizio del secolo scorso:
la piazza della Chiesa ancora senza gli alberi.
l’interno della medesima (parato a festa)
la costruzione dello stabilimento Crespi.
il fiume Fibbio e i suoi “frequentatori”.
una scena di vita quotidiana nella strada principale del paese.
Hanno tutte un taglio originale e, considerati i mezzi tecnici di allora, straordinaria chiarezza e luminosità. Naturalmente la stampa la curava lui. Un lato poco conosciuto della sua attività artistica è stato il disegno a china in cui ha ottenuto risultati notevoli e questa facilità del tratto lo ha portato al disegno satirico. I personaggi delle sue vignette, a quei tempi erano riconoscibili da tutti. Naturalmente le pubblicò prima degli anni ’20, poi non fu più possibile.
Disegno a china.
La battaglia tra borghesia e popolo.
La giostra del paese.
Per
farvi capire quanto era sottile nella sua ironia vi faccio osservare il
personaggio che fa muovere sulla giostra tutti i contendenti, è il parroco, gli
altri si affannano a spronare i cavalli,
ma in realtà la loro azione è inutile. Notate, poi, la scarpa rivolta verso di
voi del primo cavaliere a sinistra? Essa identifica l’avv. Giambattista
Stegagno che portava una calzatura speciale perché, particolare poco
conosciuto, un giorno tentando di prendere al volo il trenino per Verona si era
mozzato le dita del piede. Sullo sfondo è riconoscibile palazzo Ferruzzi, sede
anche allora dell’amministrazione comunale di San Martino.
Arriviamo all’argomento “Politica”. Mio padre era un uomo troppo libero per farsi ingabbiare da una qualsiasi dottrina, pensava con la sua testa e non prese mai la tessera del partito fascista. Quindi, pur essendo stato nominato vice-giudice conciliatore, che allora era una carica importante, non poté svolgere il mandato. Questa sua scelta, però, non gli procurò difficoltà perché ognuno lo rispettava e accettava la sua posizione. Era amico di tutti, dal federale ai pochi socialisti superstiti che si concentravano nella zona del paese chiamata Camilion.
In una celebre foto degli anni '20, scattata nei giardini del vecchio Buon Albergo in occasione dell'inaugurazione del monumento ai caduti, si vedono al centro lo scultore Eugenio Prati e la moglie, a sinistra mio padre, dietro alla signora si scorge il nipote Bruno, a destra il direttore del cotonificio Crespi Flaminio Cazzani, al cui fianco siede l'Avvocato Stegagno.
Banchetto, foto arch. Primillo Bonetti.
L’ultimo in fondo a destra è Antonio Bussinelli, fratello del già nominato Arturo, che era medaglia d’oro della grande guerra. Intorno ci sono i maggiorenti del paese. Come vedete, pur non essendo politicamente integrato, era così apprezzato da avere il posto d’onore.
Ma
all’indomani del 25 Aprile la sua vena satirica si sfrenò in
questa poesia sarcastica e verso il dittatore, e verso chi lo aveva
appoggiato o si era vilmente adeguato.
I dise che sia sta la Providenza.
…Ghera ‘na volta in ‘te sto vecio mondo un popolo spianta, ma in fondo in fondo
no se trovava mal. Pitoco ma contento, parchè ‘l tirava avanti ma senza el suplemento Ma in mezo a tanta gente gh’e sempre i brontoloni. “Che a continuar così se vive da cojoni”. La podaria pensarghe anca la Providenza, e mandar zò qualcuno che sia de gran sapienza! -Zà che no iè contenti- (el pensa el Padreterno) -un omo ghe mando magari da l’inferno-. “Atenti, atenti, fioi” ghe ziga da lassù, gò quel che fa par voi, mi ve lo mando giù. Ve' l dago a bon marcà che tanto, el m’è de intrigo, e averlo qua tra i piè l’è proprio un gran castigo. Intanto ve lo impresto par un ventin al mese, ghe pensare vualtri a farghe bone spese. Infati vien zo un omo che ‘l cambia tuto quanto omeni, done e puti i lo ritien un santo. El zapa da una parte, lu el dise che ghe l’oro. (Ma intanto ne la cinghia el popolo fa un foro.) El zapa da quel’altra par via de la benzina. (Strenzemo un altro buso che forsi el ghe indovina.) Scavando soto tera sicuro ghe el carbon, (E zò un altro buso più in là nel pantalon.) Un cul de goto el trova: “Eco che gh’è i diamanti. Adesso son sicuro si siori tuti quanti.” El popolo pasiente la cinghia el se strenzea, parchè se no le braghe poareto, el le perdea. E sguerra da na parte parché iè massa siori. Sbataglia da quel’altra parchè i vol tuto lori. “Duri, butei”! Sbraiava; “mi venzo da partuto no steve mai stufar che gavarè de tuto. Basta che i scampa via…. E in man gh’è la partia!” Ma a forza de dir bale El popolo se sveia. Basta, pardì de Dio! par ti è finia la teja! E sì che ‘sto gran omo el ciel l’avea mandà. Ma el ciel con la so scienza Sta volta l’à sbaglià. Sicome el pato l’era che ‘l ghe l’avria imprestà, no l’era miga giusta tegnerlo sempre quà.
E su la gran pelada l’indrizzo i scrive a Dio, e a l’ultimo del mese i ghe lo manda in drio. No, no! che no la torna ‘na facia così bruta, pero…dal Padreterno ….i vol la ricevuta. Lotrago, 30 april 45
Subito
dopo fu pronto per rendere un altro servizio alla nostra Comunità, infatti
proprio usando i suoi disegni si riuscì a riprodurre esattamente
il
monumento ai caduti,
opera dello scultore Eugenio Prati, inaugurato nel 1922 e rimosso nel ’43 per usarne il bronzo per usi bellici.
Tempo
per annoiarsi non ne ebbe mai perché, fuori dal lavoro e dalle sue passioni
personali, era sempre richiesto per le cose più svariate: dipingere lo
stendardo della Banda del paese e di altre istituzioni, suonare nelle cerimonie
importanti, ideare scenografie…disegnare le cifre per il corredo delle
spose… poi c’erano da tenere i contatti con gli intellettuali di Verona:
Barbarani, Dall’Oca Bianca, Viviani, e i loro amici, e le personalità
culturali di passaggio.
Negli anni ’50 fu più libero dagli impegni della Farmacia dove aveva esercitato, al suo solito, in modo disinteressato, infatti capitava di sentirlo consigliare di lasciar stare le medicine perché il male, come era venuto, così se ne sarebbe andato. Purtroppo aveva più tempo a disposizione ma minori occasioni di usarlo perché la guerra aveva cambiato tutto, anche lo spirito del paese, gli intellettuali amici in gran parte erano morti, anche la musica e l’arte che conosceva erano morte.
Avrebbe potuto considerarsi un sopravvissuto, ma non si lasciò scoraggiare da questi fatti e continuò a tenersi aggiornato sulle varie correnti pittoriche e musicali e, prendendosi come compagni i nipoti, che amava molto, divenne un frequentatore ancora più assiduo di mostre.
Loro ricordano che restavano incantati ad ascoltarlo commentare un’opera d’arte. Invecchiò bene, sempre positivo e ottimista verso la vita, e, come ho detto, quando non fu più in grado di andare in giro, usò come soggetto da dipingere, quello che vedeva dalla sua finestra o che ricordava del vecchio paese. Morì a novant’anni nel maggio del 1966.”
Ricordi del paese.
Sulla finestra.
Le case di campagna.
Madonna.
Davanti al camino.
Marta.
Quadro della via Crucis.
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