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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

 

Fumane

Breonio

 

Breonio - San Marziale

 

Breonio è paese (una volta era comune) dell’alta Valpolicella appena al di là del territorio di influenza cimbra, nella zona di Sant’Anna d’Alfaedo, con la quale per secoli si identificò. Una prima notizia sicura sull’esistenza della comunità di Breonio la troviamo nel 920 d.C.

Si tratta di un diploma dell’imperatore Berengario I che donò al fedele Bertelo, figlio di Teutelmo, la corte di Breonio, detta Senevella, della quale facevano parte, già da parecchio tempo, le comunità di Vaona e Zivelongo. È questo il primo esempio di una vera azienda fondiaria organizzata. Quasi un secolo più tardi la curtis di Breonio passò al monastero di San Zeno di Verona. Nel Duecento, poi, il monastero di San Zeno si liberò dei beni che aveva in Breonio e li cedette alla comunità del luogo, mantenendo però il controllo dei pascoli alti (Corno d’Aquilio e zone contermini). Queste, in sintesi, le notizie storiche più notevoli sull’esistenza di Breonio in alta Valpolicella nei primi secoli.

 

Nel Trecento i diritti acquisiti dalla comunità, chissà mai come, passarono nelle mani degli Scaligeri, con Federico della Scala, e poi, una volta caduto Cangrande II, di uomini eminenti della dinastia. La presenza, fin dal Duecento, di un monastero dedicato a San Leonardo, complicò i rapporti tra i frati e la gente del paese: corsero anche delle bastonate contro di essi perché pretendevano di pascolare il bestiame, oltre che nelle proprie, anche nelle terre della comunità. Nel Quattrocento il monastero di San Leonardo era diventato frattanto proprietario di oltre 70 terre, tra le quali spiccano, per le loro qualità storiche e architettoniche, la chiesa di San Marziale a Breonio, la Pieve di San Floriano e le proprietà di Antonio Maffei, uomo d’armi e figlio del giudice Francesco, nonché nipote di Rolandino, stimato e potente  banchiere.

 

Ai tempi della visita pastorale di Ermolao Barbaro (metà del Quattrocento) probabilmente a Breonio si parlava, se non proprio il cimbro, quantomeno l’alemanno, tant’è che in quel periodo era rettore il sacerdote Giovanni de Alemanja, succeduto a un conterraneo Enrico. Il fatto non deve sorprendere, afferma Silvio Tonolli che ha trascritto le verbalizzazioni, «…perché in quegli stessi anni li troviamo anche a Cona e in molte altre località montane poste lungo la direttrice del fiume Adige che costituiva una importante via di transito». Carlo Cipolla, però, ipotizza anche l’esistenza di nuclei di popolazione di origine tedesca.

 

Più tardi, dal 1520 e fino al 1535 circa, la parrocchia passò nelle mani di don Paolo Maffei, figlio del conte Guido Antonio che si farà seppellire nella chiesetta di San Giovanni in Loffa. Poi a reggere Breonio tra il Cinque e il Seicento si succederanno parroci di origine veronese.

La chiesa di San Marziale era purtroppo inadeguata alla capienza della popolazione e alle esigenze dei fedeli, per cui fu inoltrata alla curia un’istanza popolare che diceva: «…bisognaria sgrandar la gesia per che ale feste il popolo non pol chapirvi».       

                                                                   

Così il Vescovo di Verona diede il permesso di costruire un’altra chiesa con il risultato che chi andrà per la prima volta a Breonio senza aver avuto qualche notizia sulla storia di questo paese, si troverà sbalordito e disorientato nel vedere all’entrata della contrada le rovine, non ancora totali peraltro, di una chiesa in disfacimento. Si tratta della nuova parrocchiale costruita alla fine del Settecento per “andar incontro alle esigenze dei fedeli!”. Probabilmente non si tennero nel dovuto conto le condizioni precarie del sottosuolo, le falde acquifere che di lì passavano e, in men che non si dica, prima le crepe, poi gli squarci e nel giro di pochi anni il crollo. Un vero disastro.

 

La chiesa di San Marziale, quella vecchia, invece, tenne e tiene ancora, anche se le sono passati sopra quasi dieci secoli, e adesso è adibita a pinacoteca. È lì, l’antica chiesa romanica, appoggiata a un rustico, accoccolata su se stessa, quasi invisibile, in mezzo alle case, proprio come volevano le disposizioni di allora, con la facciata volta a settentrione, contro la montagna, col suo piccolo campanile a vela quasi inavvertibile.

Ho scritto “quasi dieci secoli”; la chiesa che vediamo è del Quattrocento, ma San Marziale, è documentata fin dal secolo XIII ed era, come del resto tutte le chiese e cappelle dell’alta Valpolicella, una chiesa dipendente da San Floriano. Chi ci entra una volta — il giorno del santo protettore, la aprono a tutti e poi in casi eccezionali — resterà sbalordito. Lo spazio che abbiamo a disposizione in questa pagina non è sufficiente a enumerare le opere d’arte che vi si possono ammirare dentro.

 

Vi dipinse Francesco Morone, le figure dei santi Rocco, Cristoforo, Sebastiano, Marziale, Giovanni Battista, Silvestro e Gregorio, Agapito. Nel presbiterio c’è un polittico in cui ci sono i santi Giovanni Battista, Marziale, Antonio Abate, l’Incontro di Gioachino con Anna, l’Adorazione dei Magi, l’Annuncio ai pastori, una Madonna con Bambino, Santa Scolastica, Sant’Antonio e San Francesco, il Miracolo di San Marziano e molti altri dipinti. Poi vi sono le tele di Francesco Badile,  Simone Brentana, di Paolo Pannelli, di Ludovico Dorigny, di Angelo Trevisani,  e di altri ancora.