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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

 

 

Cerro

 

Cerro

 

Lo studioso e paletnòlogo Giovanni Solinas, in una sua pregevole monografia su Cerro Veronese, a proposito di Foldruna, attribuisce la zona a probabili origini pre-romane; e ciò in base agli scavi e ai ritrovamenti di Monte Crubbio, alle numerose cavità del vajo di Cavazze e di altre località, sicuramente abitate in periodi preistorici, ma in particolar modo alla cosiddetta “Coale (grotta) del Mondo”,  che è una delle più importanti  stazioni preistoriche del Veronese.  

 

Ma la storia vera e propria di Cerro, detto anche Sylva Alferia dovrebbe risalire, secondo quanto affermano gli studiosi, a qualche decennio prima del Mille, quando Ottone I concesse ad alcuni lavoratori della Valpantena, detti Arimanni o Waldemanni (boscaioli), il diritto di tagliar legna e di pascolare nella selva detta “Frizzolana” o anche Sylva hermanorum.

 

Un altro documento che riguarda proprio Cerro è il diploma imperiale di Enrico II di Sassonia in cui vengono confermate, alla presenza del vescovo Ildebrando: Omnia privilegia et praecepta ipsius monasterii…di San Zeno, tra cui il “monte” di Alferia. Successivamente nel 1014, tra le località citate figura precisamente il …monte qui dicitur Alferia.

 

Per questa località i Canonici di Verona, che ne erano stati ufficialmente investiti, avevano dettato nel 1218 uno statuto per regolamentarne l’uso. Più tardi, nel 1287, come abbiamo scritto più sopra, Bartolomeo della Scala accoglieva a Roveré e in Lessinia i famosi “Cimbri”.

 

I coloni in breve si diffusero in tutto l’altopiano dando vita ad amministrazioni autonome che furono conglobate nel già citato Vicariatus Montanearum Thutonicorum organismo che fu confermato più tardi, nel 1403 anche da Caterina, duchessa di Milano, vedova di Giangaleazzo Visconti.

 

Il “Vicariato”, nei secoli successivi, assunse la denominazione di “XIII Comuni Veronesi” ed abbracciò le seguenti comunità: Velo, Roverè, Azzarino, Camposilvano, Selva di Progno, Sprea con Progno, San Bartolomeo delle Montagne, Saline, Tavernole, Valdiporro, Chiesanuova, Erbezzo, Cerro o Alferia.

 

Cerro entrò nel novero dei XIII Comuni solo nel 1405 e vi rimase fino al 1797 quando, per decreto,  Napoleone  abolì gli antichi  privilegi. In seguito l’Austria non ritenne di restaurare gli ordini giuridici e sociali di un’epoca ormai tramontata.

 

Nel 1928 il comune di Cerro venne assorbito da quello di Grezzana, ma, a guerra ultimata, nel 1948 ritornò ad essere autonomo.

 

È difficile far capire al lettore e, spesso anche alla persona colta, perché anticamente il paese di chiamava Alferia e adesso invece — e ciò dal Cinquecento in avanti — abbia preso il nome con cui lo conosciamo.  Dalle denominazioni più  antiche (Silva Alferia, Monte qui dicitur Alferia, Alferia, Alfera, de Alfere, Alfere), si arriva a « Cerro di Alfaria» nel 1523.

L’Olivieri lo spiega come derivato da un nome di persona germanico Alfheri, cioè «Alfiero». Allora il significato, sarebbe stato quello di «foresta di Alfiero».  Per Rapelli, sarebbe un nome di radice latina, come Roveré «rovere», Sant’Anna d’al faedo «Sant’Anna dal faggeto», Cerèa «cerreta», Cerédo «cerreto».

 

Il nome del paese, rispettando le interpretazioni dei vari studiosi di onomastica e di toponomastica, è probabilmente più di origine cimbra che d’altra derivazione che, del resto, non conosciamo. Può darsi che la zona, col passar del tempo, si sia data una sua denominazione italiana, perché quella cimbra era di difficile pronuncia, oppure che il nome originario cimbro sia stato tradotto in veronese e, infine, che il nome originario sia stato via via abbandonato; sono valutazioni di Rapelli. A Cerro, scrive sempre Rapelli, i cognomi attuali dimostrano che i Cimbri non furono mai in maggioranza: i toponimi, appunto, in maggioranza sono italiani. Infatti, Bertoldi, Brunelli, Brutti, Busato, Canteri, Carcereri, Conti, Cornioli, Dal Corso, Guglielmini, Lughezzani, Lugo, Masenelli, Morandini, Perini, Prati, Scala, Scandola, Scardoni, Squaranti, Zanella sono italiani; quelli cimbri, invece, sono Càmpara, Cùnego, Èderle, Èrbisti, Frùstoli, Garónzi, Gónzi, Grobberio, Pezzo, Rùbele, Tomelleri, Vinco.  Gli elenchi sono incompleti.

 

Lo stesso toponimo “Cerro” rispecchia il nome di una qualità di quercia, la “quercus cerri”, il cerro. In dialetto veronese il nome di questa località darebbe el Zero se lo sentiamo pronunciare da un cittadino; el Sèro, invece, se lo ascoltiamo da un montanaro, per via della pronuncia più dura, quella della Lessinia. Anche i vescovi veronesi quando, nel Cinquecento e Seicento, venivano in visita pastorale alle parrocchie della Lessinia, intitolavano i loro verbali con la dicitura “Al  Sero”.

 

A Cerro abbiamo una vera moltitudine di toponimi che ricordano particolarità del suolo, oppure nominativi di possidenti, oppure località di vario interesse, non possediamo, almeno da quanto possiamo saperne noi, un toponimo che indichi il luogo più interessante dove la gente andava ad estrarre le folénde. Perché citiamo questo vocabolo? Perché gli abitanti di Cerro una volta erano detti batisalìni oppure folendàri. E al Cerro folendàri lo furono un po’ tutti i contadini della zona che si dedicavano a cavare e a sagomare pezzetti di selce (folénda) in modo da trasformarli in acciarini che sprigionavano scintille con le quali si  accendeva la polvere da sparo. L’industria dei batisalìni o dei folendari, se si può chiamare così, ebbe il suo momento di grande sviluppo in seguito alla scoperta e all’utilizzazione della polvere da sparo, ma già nel paleolitico e nei periodi seguenti gli uomini usavano la selce per fabbricarsi armi e utensili per vivere.