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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Ciclo dell'Anno

 

Usanze e tradizioni

 

 Premessa

 

I miti e le credenze profondamente radicati in ogni cultura popolare rappresentano un tentativo di motivare fenomeni ed avvenimenti altrimenti inspiegabili, legati allo svolgersi delle stagioni. Essi sono in qualche modo la misura del gran senso di mistero e della creatività della fantasia che portavano l’uomo a ricorrere a cerimonie e riti di eliminazione e di appropriazione, divenuti poi usanze tramandate di generazione in generazione. Il costume di buttare dalla finestra il primo dell’anno robe vecie o di bruciare alcuni mobili ormai inservibili, ricrea antichi rituali pagani di purificazione e di eliminazione del male. Su queste celebrazioni di origine pagana se ne innestarono, in un secondo tempo, altre proprie del Cristianesimo e delle ricorrenze dei suoi santi patroni.

 

Oggi tutto questo patrimonio di feste e di usanze si è sfaldato al contatto con il modo di pensare spregiudicato, razionale e tecnologico dei nostri giorni e quello che abbiamo potuto sapere è stato raccolto ascoltando i montanari più vecchi i quali, per restare in argomento, ci hanno parlato dei momenti più importanti e caratteristici dell’anno.

 

 

Riproponiamo, dunque, nelle pagine che seguiranno, nella loro veste più genuina ed autentica, un florilegio di tradizioni e di consuetudini che un tempo costituivano il costante e commovente substrato di una piccola società umana accantonata lassù tra i monti della Lessinia, a diretto contatto soltanto con le sue bellezze naturali. Sono appunti, in certo qual modo, che riflettono usanze e consuetudini di tutta l’area cimbra dei XIII Comuni Veronesi, con qualche variante da un distretto all’altro; non hanno che l’intento di trasferire, a chi legge e a chi capiterà dopo di noi sulla scena del nostro piccolo mondo veronese, situazioni umane e spirituali, modi di essere, di vivere, difficoltà e limiti socio-economici che, molto spesso, devono essere ricercati nelle coscienze, nelle credenze, nelle usanze, oggi giudicate, spesso non a torto, assurde e inconcepibili. 

 

El Brujèl

 

Nella notte di S. Silvestro i riti trovavano la loro giustificazione nella duplice necessità di allontanare definitivamente tutte le disgrazie e le malattie sopportate, ma anche di scongiurarle per il nuovo anno. Per questo, a mezzanotte, si accendevano grandi fuochi in cui ardeva legna d’abete o d’altre piante, coperta di paglia e fieno, accatastata intorno ad un palo. Allora tutti, dopo essersi radunati intorno al brujèl (falò), lanciavano in aria rami infuocati in segno propiziatorio.

 

Primo dell’anno

 

Decisivi per il futuro erano considerati gli incontri del primo giorno dell’anno: quelli di una vecchia, di un prete o di un frate e anche di una donna qualsiasi erano segnali di una sicura sorte sfavorevole.

Recitava a tal proposito un proverbio: «Se el primo che se incontra l’è un omo, l’è fortuna; se l’è ‘na dona, la porta scalogna; se s’incontra ‘n prete, more uno de casa». Anche il lancio di una scarpa (sgàlmara) o di uno zoccolo (grapèla) lungo le scale di casa svelava le sorti degli eventi futuri: sarebbero stati giorni fortunati se la scarpa fosse caduta diritta, a volte spiacevoli, se fosse rimasta piegata su di un lato, decisamente negativi se si fosse rovesciata.

 

Per scaramanzia, dunque, quella mattina uscivano di casa solo uomini e bambini, i quali ultimi, di buon’ora, recavano offerte in chiesa e andavano a cantare davanti alle case ricevendo qualche soldino o una manciata di castagne: Bon dì, bon ano, bone feste, bone minestre, bona pifania, dème carcossa che mi vago via. In ogni modo, tutti i primi giorni dell’anno, generalmente, erano molto significativi e per questo qualsiasi avvenimento, anche di natura meteorologica che accadeva, era osservato con particolare attenzione. Infatti il famoso proverbio neve a genàr, pieno el granàr era nato per salutare le copiose nevicate foriere di un sicuro e abbondante raccolto estivo.

 

“Brusar la vècia”

 

Qui da noi, nel Veronese, ma anche nel Veneto in genere, le cataste di legna e sterpaglie che si accendono la sera dell’Epifania, sono chiamate con il termine brujèl, dialettale tipico nostrano, cimbro in altre parole, che M. Bondardo fa derivare dal medio alto tedesco brüeje col significato di «scottare». Il bruièlo è detto anche briòlo, brugél, brugnèlo, brugnòlo, brujol, burièl, buriólo, a seconda del territorio in cui si compiono questi riti del falò che riflettono antichi cerimoniali popolari di “purificazione” della terra; anticamente si concludevano  tra il primo dell’anno e l’Epifania con la cosiddetta “liturgia del fuoco”, el brujèl appunto.

 

Dal modo in cui bruciava la vècia i contadini veneti traevano auspici per l’annata agricola; dalla direzione che prendeva il fumo: “Fumo de brugnèlo, tempo bruto o tempo belo?”si chiedevano; oppure dicevano: “Quando el fumo va al sol levà, tote su la manza e va al marcà”; o anche “Quando el fumo va a sera, bon anno se spera”. I Veronesi della Bassa, ma anche i vicini Vicentini, l’occasione del falò dell’Epifania la chiamavano con un altro nome: Pan e vin. Perché? Probabilmente, nel passato, questa era la festa contadina più autentica che introduceva l’anno agricolo; intorno al falò, che aveva il compito importante di illuminare la strada ai Re Magi, si ballava e si cantava una canzone che cominciava con questi versi: «Che Dio ne daga la sanità e panevin. / El panevin / la vecia nel camin / la magna i pomi coti / e la ne lassa i rosegoti…».

 

El panevin era un dolce, simile ad un pane scuro, la pinsa, un po’ come la pizza, fatta con sette diversi tipi di farina. Il significato del cerimoniale, però, era quello di propiziarsi un futuro favorevole e di consumare in compagnia una serata nella dimensione dello stare insieme: esprimeva cioè lo scambio, la relazione col prossimo, l’atmosfera del sociale. Più anticamente el brujel era coronato da un manichino in cui si identificava una strega, per cui è rimasto il detto di brusar la stria, diventato poi brusar la vècia, perché di norma la stria viene presentata come una vecchia. Il manichino veniva legato al palo del brujèl e poi ucciso simbolicamente; tutt’intorno, intanto, si svolgeva un girotondo di spettatori che portavano campanacci, tamburi, cioche da bestiame e altri strumenti rumorosi.

 

In talune località della Bassa Veronese, durante il cerimoniale del falò si mangiavano le ciopéte, cioè grani di frumento arrostiti, oppure frittelle, fave e crostoli , dolci caserecci tipici del carnevale. All’esterno della cerimonia si vedevano ragazze travestite da vecchie streghe che correvano tutt’intorno trascinando le catene del camino, così tanto per far rumore, ma anche per sbarrare il passo alla stria. In altre località, del Veronese come, per esempio, a Gorgusello, in Valpolicella, si facevano gli incanti. Gruppi di ragazzi e di giovani giravano per le case a raccogliere cibi, vino, castagne e poi a sera la raccolta era posta all’asta e il ricavato donato alla parrocchia per celebrare uffici per i morti. Gli incanti sono ancora oggi una tradizione viva in quasi tutta la Valpolicella.

 

Nei rituali popolari che mantengono l’usanza a metà Quaresima del brusàr la vècia, si preparava un fantoccio pieno di fieno e di cartocci, ma anche di cose buone da mangiare; esso veniva poi portato processionalmente verso un bruJèlo e sistematovi sopra per essere bruciato. Prima, però, veniva sottoposto a un processo popolare e condannato al rogo non prima di essere segato a metà (da cui è rimasto il detto: segàr la vecia) e di aver distribuito il contenuto ai circostanti.          

 

San Martino Buon Albergo Gennaio 2005 La vècia

 

  

Epifania

 

Il giorno dell’Epifania (6 gennaio) si bruciava un fantoccio di paglia e di sterpi per tenere lontane le malefiche strìe, che si credeva si aggirassero numerose per tutte le contrade. Il rituale era accompagnato da schiamazzi e giochi, alimentati da vino e castagne a volontà, ma per i bambini era il giorno della “befana’’, quello più atteso. La tradizione raccontava che una vecchia, durante la notte, passava nelle case per riempire di doni le calze che i piccoli avevano già preparato fiduciosi vicino al fuoco. Ma da noi, in Lessinia, la “befana” portava solo corbèle (sorbo rosso) e caròbole (carrube), e straordinariamente qualche arancia; povere e semplici cose che rendevano ugualmente felici quei bambini che avevano la fortuna di avere un padre un po’ più abbiente e più sensibile. Per le corbèle ricorreva un indovinello: «Vao  su par on vajéto, cato on vecéto, ghe pelo la barba e che ciucio el culeto».

 

Di altri riti dell’Epifania o che in qualche modo si possono ricondurre a questo simbolismo abbiamo scritto più a lungo in altra parte.

 

Sant’Antonio Abate

 

Il giorno 17 gennaio era dedicato a S. Antonio Abate, protettore degli animali domestici. Un vecchio indovinello che si recitava ai ragazzini diceva: Sant’Antonio de Recoaro, ai disisète de genaro, coando vegnaràlo? I montanari portavano in chiesa un cartoccio di sale da cucina che veniva benedetto durante la Messa e serviva poi per insaporire i cibi di casa. Il parroco si recava nelle stalle a benedire il bestiame che, per l’occasione, si godeva straordinariamente una manciata di sale, di quello rosso, detto “pastorizio”, mentre il parroco riceveva un compenso in burro o uova.

 

San Paolo dei Segni

 

Per trarre pronostici, quello di S. Paolo dei Segni (25 gennaio) era il giorno più indicato. Infatti, servendosi del ghiaccio … indovino —niente di speciale; il ghiaccio era ghiaccio e nient’altro —, ogni mamma era in grado di leggere il futuro del figliolo o del marito. La sera sistemava nell’orto una scodella piena d’acqua e ve la lasciava per tutta la notte. All’indomani mattina, i segni che il ghiaccio aveva configurato al suo interno durante la notte, per effetto del congelamento, segnalavano le future vicende.

 

La piovosità o la siccità, il bello e il brutto tempo dei mesi dell’anno che si sarebbero succeduti, invece, erano ricavati da un curioso e originale procedimento. Si tagliava una cipolla in dodici spicchi, rappresentanti ciascuno un mese dell’anno. Gli spicchi venivano disposti in un piatto, in bell’ordine, da gennaio a dicembre; in ogni spicchio veniva introdotto un pizzico di sale grosso da cucina e vicino un biglietto portava scritto il nome del mese cui si riferiva lo spicchio. Al mattino seguente, dallo stato di umidità del sale di ogni spicchio, si potevano ipotizzare i mesi più o meno piovosi e quelli asciutti dell’anno.

 

La Seriola

 

Altrimenti conosciuta anche come Candelora. Il 2 febbraio ricorreva il giorno della Candelòra e, come in ogni ricorrenza religiosa, tutti partecipavano alla Messa in chiesa e si portavano a casa le candeline benedette che poi appendevano ai lati del letto e dovevano servire per accogliere il prete con il viatico ai malati e durante le Rogazioni.

 

In qualche chiesa di montagna vigeva la consuetudine di distribuire quella mattina, dopo la messa, un pane benedetto, frutto di un antico lascito, a tutti coloro che avessero assistito alla cerimonia religiosa. E tutte le famiglie, quel giorno, compresi i bambini che la mamma si portava in braccio, si preoccupavano di non mancare per non perdere il panéto. Il pane allora era una prerogativa del buon mangiare e un antidoto alla fame.

 

Cantar marso

 

Era un saluto speciale, di stampo popolare, alla primavera vicina, lanciato da ragazzi e giovani con un’esplosione di suoni e canti attorno ad un falò e con l’accompagnamento sonoro dei campanacci (le ciòche).

 

Durante le prime sere del mese i ragazzi del paese martellavano tutta la comunità con il suono di secchi e contenitori di latta (i bandòti) e di campanacci (le ciòche), scandendo mordaci filastrocche. Oggetto di queste burle erano i personaggi più strani: povere zitelle delle contrade venivano accoppiate (nel canto) a curiosi cavalieri; spesso erano resi pubblici, senza alcun ritegno, i futuri matrimoni o le liti tra coniugi e tra morósi; o si denunciavano pubblicamente le fughe da casa di qualche moglie o di qualche ragazza. Divisi in due gruppi distinti, su due dossi opposti, i gruppi si davano botta e risposta, pressappoco nella maniera che segue e che veniva detta “canta”. La “canta” che conosco io, perché l’hanno cantata proprio a me, è questa:  «Entra marso in questa sera / par maridar ‘na puta bela -  Ci ela, ci non ela? – L’è la Roseta che l’è maridaréla – Ci ghe dénti par moroso? – Quel de la Piassa che l’è on bel toso – Cossa ghe dénti par dota? – ‘Na pegora morta ligà co ‘na stropa – Cossa ghe dénti par stima? – On fero rosso e ‘na lima».

 

La chiassosa sarabanda andava avanti di questo passo fino alle ore piccole della notte.

 

Carnevale

 

Un’atmosfera di gioia e di ilarità caratterizzava il periodo del carnevale quando i giovani si vestivano in maschera divertendo gli abitanti del paese e andando nelle stalle dove la gente si riuniva di sera a far filò. A volte le mascherate si trasformavano in vere e proprie recite, le parlate. Si trattava di rappresentazioni tragicomiche, di invenzione o di imitazione popolare. Gli attori erano sempre uomini e ragazzi che, opportunamente travestiti, interpretavano anche ruoli femminili; li precedeva sempre una maschera con la scopa per far spazio nelle stalle e per far anche un po’ di pulizia sull’improvvisato palcoscenico; la ‘‘maschera’’ poi raccoglieva le mance (vino o soldi spiccioli). Negli ultimi giorni di festa si mangiavano anche le tradizionali frìtole.

 

Settimana santa

 

In aprile, dopo il lungo periodo di Quaresima, la vita delle contrade si animava. Innanzi tutto le donne si dedicavano alle tradizionali pulizie pasquali, anche per riflettere il motivo della purificazione che ricorreva in occasione della Pasqua. Si riassestavano a fondo le dimore lustrando muri, madie e camini. Con il sabión mescolato a sale e aceto si lucidavano i rami (pentole usate sul focolare), mentre la catena, posta nel camino per reggerli, veniva trascinata lungo le strade dai bambini per scrostarla dalla fuliggine, ma anche per tener lontane strìe e anguane che scendevano dai camini. In quest’occasione si faceva anche la tradizionale lìssia, bucato con acqua e cenere, molto efficace per lenzuola e biancheria. La vecchia acqua santa, che s’era conservata in casa dal sabato santo dell’anno precedente fino a quel giorno, finiva sul fuoco.

 

La settimana santa era celebrata con riti particolari. Nelle tre serate del martedì, mercoledì e giovedì, si cantavano in chiesa i Matutini. Quando terminava la recita dei salmi dei Matutini, il parroco percuoteva il messale sull’inginocchiatoio; era il segnale per i ragazzi che davano il via a un tremendo strepito con le loro racole. Durante i giorni che andavano dal giovedì santo al sabato mattina le campane tacevano e al loro posto suonavano le ràcole, dal suono mesto e triste. Il giorno seguente, al Gloria del sabato santo, appunto, si entrava già in atmosfera di festa, sottolineata dallo sparo di trombini e mortaretti e allietata dal suono delle campane a stormo.

 

Le donne, solitamente affaccendate in casa con i bambini, uscivano, li accompagnavano per la contrada per far loro attraversare la strada. Gli uomini slegavano gli animali dalle canàole, collari in legno che li tenevano legati alle mangiatoie (grépie). Il Venerdì Santo qualche macellaio improvvisato uccideva una mucca. Le parti migliori le vendeva a un macellaio della vallata; il resto, a chili e a mezzi chili, veniva ceduto a buon mercato alle famiglie del luogo per fare il brodo della domenica per la tradizionale minestra con le taiadèle. Il giorno di Pasqua, poi, veniva festeggiato con un pranzo particolarmente ricco a base di carne (agnello) e dolci, le tipiche brassadèle, focacce molto leggere che avevano la forma del sole, simbolo appunto della bella stagione, e ne costituivano un’invitante manifestazione.

 

Le Rogazioni

 

Durante i mesi primaverili si svolgevano le Rogassioni: si trattava di processioni di carattere religioso-propiziatorio per una buona stagione di raccolto. Queste cerimonie si articolavano in tre giornate  durante le quali un corteo percorreva determinati itinerari lungo i quali erano collocati vari capitelli, colonéte o croci votive. La prima rogassion si teneva la mattina della ricorrenza di San Marco. La seconda qualche settimana dopo e transitava su un itinerario diverso; terminava presso una chiesetta, dove, dopo la messa, all’uscita si distribuiva del pane benedetto che le famiglie conservavano scrupolosamente in serbo per gli ammalati. La frequenza alla messa, in quel giorno, diveniva se non altro un’occasione buona per procacciarsi il prezioso alimento che, di norma, durante il resto dell’anno era rimpiazzato dalla polenta o dalle semplici fugàsse cotte soto el forno (coperchio di grossa lamiera di zinco su cui si accumulavano brace ardenti riparate da cenere caldissima). Una parte di quei panéti de la rogassion — e l’usanza, come si vedrà in altra parte di queste pagine risale al 1600 — veniva adoperata il giorno dell’Assénsa (Ascensione) per cucinare la caratteristica pearà, accompagnata, quando era possibile, dalla léngua salmistrà.

 

Assensa

 

Un altro giorno singolare era quello dell’Ascensione, perché i soliti burloni del paese inventavano satire e filastrocche burlesche indirizzate alle ragazze da maritare; ma di satire (siàtire) era piena la vita di quei tempi. Nascevano per mano di qualche buontempone che aveva un po’ d’estro poetico e poi, imparatele a memoria durante i filò, venivano diffuse da altri cantastorie.

      

San Giovanni

 

Il 24 giugno, festa di S. Giovanni, solstizio d’estate, era ritenuto il giorno migliore per raccogliere le erbe medicinali, perché la rugiada, formatasi proprio quella mattina, aveva la proprietà di mantenerne intatte le virtù delle piante. Le donne si alzavano di buon’ora per raccogliere dall’erba bagnata la rugiada adoperando degli stracci puliti che poi spremevano dentro un pentolino: quell’acqua così raccolta era gelosamente conservata per facilitare la lievitazione del pane. In talune contrade della Lessinia Orientale si adoperava quell’acqua  per impastare i cosiddetti “rufioi” il giorno dell’Assensa.

 Quella mattina c’era l’usanza anche di lavarsi gli occhi con la rugiada. Addirittura si racconta che qualche giovanotto si ritirava in un prato appartato, si spogliava e si ruzzolava nudo nell’erba bagnata: si diceva che quella rugiada teneva lontane le malattie.

 

La barca de San Piero

 

La sera precedente la ricorrenza di S. Pietro (29 giugno) era qualificata da un particolare avvenimento che sembrava avere del prodigioso. Infatti, versando di colpo in un vaso largo e trasparente un albume di uovo e lasciatolo riposare per tutta la notte, all’esterno, sul davanzale della finestra, al mattino vi si scorgeva la forma di una barca, quella appunto di San Pietro.

 

La sagra

 

D’estate il lavoro era particolarmente gravoso e di conseguenza, per un certo periodo, venivano banditi gli allegri passatempi invernali. Unica eccezione era la tradizionale sagra del paese che, a Campofontana, si teneva la domenica che succedeva al 16 di agosto, festa di San Rocco (ricorrenza tuttora festeggiata) e durante la quale venivano esplosi colpi con i famosi trombini di S. Bortolo.

 

La sagra era anche l’occasione ‘‘storica’’ del ripetersi di gesti vicendevoli di fedeltà tra fidanzati: il moroso, per far un esempio, faceva alla morósa l’omaggio di un cartoccio (scartòsso) di dolci. La festa era allietata da canti e danze accompagnati dalla fisarmonica. È interessante ricordare come i suonatori, fino ai primi del Novecento, noti anche come “campanari del diaolo”, erano considerati dai parroci degli esseri indemoniati e per questo i loro convegni musicali si svolgevano in località lontane dalla canonica, in contrade e in luoghi appartati. 

 

I Morti

 

Con l’avvicinarsi della stagione autunnale e della commemorazione dei defunti le occasioni di divertimento divenivano sempre meno frequenti ma anche questa festività aveva le sue vecchie consuetudini. La sera precedente il sacrestano (o il campanaro) passava di casa in casa per raccogliere una modesta offerta di polenta e formaggio, in cambio della quale si impegnavano i campanari a suonare le campane fino alla mezzanotte in memoria delle anime dei defunti. Dopo la mezzanotte, i suonatori si ritiravano a consumare all’osteria, in tutta calma, i doni ricevuti.

 

All’indomani si celebravano funzioni religiose solenni in cimitero con le orazioni speciali per i morti. Si credeva che, la sera della vigilia, le loro anime uscissero dalle tombe per ritornare a visitare le loro case, rimaste illuminate di proposito per tutta la notte e riscaldate dal fuoco del focolare. Ancora più addietro nel tempo s’usava lasciar la tavola imbandita perché i defunti si potessero rifocillare.

 

I “Patar nostri

 

A cominciare dal giorno del 2 novembre e fino alla 2ª domenica d’Avvento, subito dopo le due messe festive e nel pomeriggio, durante le funzioni dei vespri, in talune parrocchie di montagna di matrice cimbra, s’usava recitare un Pater Noster per ogni defunto della parrocchia. Per ricompensare il parroco di queste preghiere speciali gli si raccoglieva un’offerta straordinaria.

 

L’anno terminava con la grande festa del Natale. In tale occasione veniva rinnovata una tradizione assai diffusa in tutta la provincia di Verona: el sòco. La sera della vigilia il camino veniva acceso con un ceppo di faggio o di altro albero, el sòco, appunto. A mezzanotte tutti si recavano a Messa, mentre il sòco continuava a bruciare per asciugare il Bambino Gesù o i pannolini che lo dovevano avvolgere.