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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie" Piero Piazzola, Bepi Falezza a cura di Anna Solati
fotografie di A. Scolari |
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Ciclo della vita
Il corteggiamento che precedeva il matrimonio era subito aperto quando un giovane iniziava a frequentare di sera, “a filò”, come si diceva, la casa di una ragazza e diventava manifesto non appena il giovane dichiarava al padre della ragazza che era seriamente interessato a far sul serio.
Gli incontri avvenivano, come si è detto, solo in casa, ed era soprattutto durante il “filò” che i giovani potevano rendersi conto delle doti della ragazza prescelta, osservandone gli atteggiamenti e la laboriosità. Quando un ragazzo desiderava parlare seriamente con la ragazza (andar a filò) poteva farlo solo con il consenso del padre (di lei), oppure in presenza di altri contraenti.
In alcuni casi la famiglia opponeva un secco rifiuto al pretendente, se non altro per evitare l’acquisto della ‘‘dote’’ che l’avrebbe ulteriormente impoverita. Per questo motivo non era infrequente il ricorso al ratto, con cui il giovane legittimava, almeno concretamente, la sua aspirazione facendo accogliere provvisoriamente la ragazza sotto il tetto di un amico che gli faceva da spalla. Più tardi, constatata l’inutilità di opporsi formalmente all’unione, la famiglia di lei finiva per accondiscendere alle nozze che avvenivano regolarmente dopo qualche settimana.
Più impietosa e negativa, specialmente per la donna, era invece l’usanza secondo la quale, in caso di rottura della relazione, alcuni giovani delle contrade andavano in giro gridando a gran voce, con frasi canzonatorie, i nomi dei due sfortunati, in modo che tutta la comunità venisse a conoscenza del fatto.
Sembra che la più danneggiata da questa situazione fosse ancora, sempre e solo la donna, la quale, disprezzata da tutti per non essere riuscita a farsi ben volere, difficilmente poi sarebbe riuscita ancora a maritarsi. Particolarmente spregevole l’abitudine di alcuni giovani di gettare acqua sporca delle pozze su un qualche ragazzo di un altro paese che veniva a far filò con una ragazza della loro contrada, come dire: qui le ragazze sono nostre e solo nostre.
Era un momento molto importante per la vita della piccola comunità, occasione di festa, ma soprattutto era l’atto di costituzione e di formazione di una nuova famiglia e quindi di nuove unità lavorative.
Le nozze erano precedute dal fidanzamento ufficiale che si teneva alla presenza del parroco — il parroco pretendeva che prima si facessero le pubblicazioni in parrocchia poi in comune — ma prima ancora, c’era il rito tutto cimbro dello sbregàr la ciòca — una cena, cioè, in casa del padre della sposa, dove appunto il futuro marito, accompagnato dal proprio padre, chiedeva ufficialmente la mano della ragazza. Il pasto, preparato dalla madre della ragazza, era frugale, ma di tutto riguardo: una ciòca (gallina lessata) cotta intera, perché il padrone di casa potesse spezzarla con le mani e offrirne un pezzo a ognuno degli invitati come simbolo dell’avvenuta alleanza.
Il giorno delle nozze il marito andava a casa della sposa a prenderla, circondato dai suoi invitati, e tutti insieme si dirigevano alla chiesa. L’itinerario percorso dal corteo di norma veniva sbarrato da un palo avvolto da frasche o da fassìne de legna; la cerimonia era detta la sbàra. I nossiéri erano così costretti ad una breve sosta, durante la quale alcuni compaesani, camuffati da guardie e da streghe, pretendevano un simbolico pedaggio (confetti o mance), costringevano gli sposi a bere un certo intruglio di bevande e a firmare un simbolico lasciapassare.
Una settimana dopo la cerimonia i parenti più stretti erano invitati a pranzo nell’abitazione della sposa: le tradizionali paparele in brodo coi figadìni (tagliatelle con i fegatini di pollo) e galline lessate costituivano il menu essenziale della festa. Nell’occasione venivano offerti anche i regali: un ombrello, un fazzoletto per tenere raccolti i capelli, una tovaglia. I più poveri davano una ciòca (gallina che cova).
Anche la dote portata dalla sposa era ben poca cosa, tanto che era chiamata pégora o puldi (pulci) proprio per sottolinearne la limitatezza: tutto si riduceva a qualche capo di biancheria. Le ragazze più fortunate potevano disporre di stramassi de scartossi e de péna, cioè di materassi confezionati con gli involucri delle pannocchie e con le piume di galline ed anitre.
La camera da letto, nei tempi più lontani, era costituita da cavalletti di legno per sostenere i stramàssi, da un comodino (buféto), da un comò e da qualche sedia. L’armadio era ridotto ad alcuni rampini di legno attaccati alle travi del soffitto.
La vita della donna non cambiava molto dopo il matrimonio: infatti, oltre a sottostare alle esigenze del marito, subiva le direttive del suocero che, nella famiglia patriarcale, era l’unica persona con potere decisionale e il solo amministratore di tutte le risorse. Per significare quale trattamento si aspettasse la donna nella nuova famiglia può bastare questo proverbio di Campofontasna: Le done in Campo de Fòra, i cavai in Campo de Rénto. In Campo di Fuori le donne erano trattate meglio rispetto a Campo di Dentro, dove c’erano più riguardi per i cavalli che per loro.
Già subito dopo il concepimento, la gestante era fatta oggetto di particolari riguardi ed attenzioni da parte di tutta la famiglia perché un nuovo maschietto avrebbe costituito un bene di tutti, non così per le femmine. Alla donna incinta era proibito, anzitutto, affaticarsi troppo in casa, mentre, per altro verso, era assecondata in ogni suo desiderio per non causare al nascituro delle macchie nel corpicino, attribuibili (così si diceva) alle voglie rimaste insoddisfatte. Era assolutamente da evitarsi anche il salto dei solchi, dei grabe (corsi d’acqua di montagna), poiché il bambino si sarebbe potuto staccare dalla placenta.
Secondo vecchie dicerie le collane non potevano essere messe al collo della madre, altrimenti il cordone ombelicale avrebbe potuto strozzare il nascituro. Infine, se la puerpera fosse passata sotto la testa di un cavallo, il bimbo sarebbe nato de tredese mesi come i mussi (in tredici mesi come gli asini). Le comari del villaggio, specialmente alcune chiaroveggenti o ritenute tali, pronosticavano il sesso del nascituro in base alla posizione del ventre materno: se l’è alto l’è una femena, se l’è basso un mas-cio (femmina se era alto, maschio se era basso). Negli ultimi mesi della gravidanza le puerpere uscivano di rado, non solo per evitare rischi inutili, ma anche per una intima riluttanza a mostrare in pubblico la pancia.
Dopo il parto, che avveniva in casa spesso senza l’aiuto della levatrice, la madre era soggetta a rigide norme igenico-sanitarie ancora per circa 40 giorni, la cosiddetta quarantia. Dalla sua dieta era ancora bandita la carne: così per accontentare tutta la famiglia, era d’obbligo cucinare la galina lessa (galina in brodo), il cui brodo era destinato appunto alla puerpera.
Dopo una settimana di vita, salvo imminente pericolo di morte, il bimbo era battezzato. Il rito religioso si articolava in due momenti: l’imposizione del nome e la benedizione del bambino, quindi l’offerta da parte del padre di un dono alla Madonna come ringraziamento.
Quando nell’area cimbra dei Tredici Comuni, dopo la ricorrenza della Pasqua, nasceva un maschietto, il primo della parrocchia per essere precisi, la cerimonia del battesimo assumeva un carattere del tutto straordinario: egli aveva l’onore, cioè, di essere battezzato per primo con l’acqua santa del rinnovato fonte battesimale, consacrata il sabato santo. Per tale ricorrenza straordinaria ricorreva il detto che il bambino el g’à verto el fonte oppure che el g’à rinovà el fonte.
I cerimoniali esteriori che accompagnavano l’aspetto strettamente religioso assumevano il carattere della straordinarietà. Il corteo — se si può chiamare così il gruppetto di persone che intervenivano al battesimo — che di norma accompagnava il neonato e che abitualmente era costituito dal padre (mai, come abbiamo visto dalla madre), dai due padrini, dalla comare che aveva assistito al parto e da una schiera di ragazzini che miravano solamente a ricevere i confetti e la mancetta dopo le cerimonie, questa volta s’ingrossava e si adornava di un certo sapore di solennità.
V’erano tre confratelli del Santissimo in pompa magna che portavano la Croce e due torce, qualche fabbriciere e qualche persona di prestigio nella vita della comunità, come il sindaco o l’amministratore comunale.
La famiglia, in quell’occasione, portava in chiesa un agnello agghindato di nastri e di campanellini, simbolo del sacrificio di Cristo. L’agnello, a battesimo avvenuto, veniva lasciato al parroco che provvedeva a sistemarlo nella sua stalla e a foraggiarlo fino a un altro mese circa. Poi invitava a mangiare tutti coloro che avevano formato il gruppo che aveva assistito al battesimo, faceva cucinare l’agnello, lo accompagnava con dell’ottimo vino e tutto finiva in gloria.
Sempre grande assente dalla cerimonia, da questa come da altre, era la madre, considerata ancora impura. Terminata la quarantìa, essa si presentava alla chiesa, era introdotta nel tempio dal sacerdote che, dopo alcune cerimonie, la benediceva e, così, ripristinata nel suo ruolo di donna purificata, rientrava nel mondo della gente... normale.
Le usanze intorno alla morte sono ormai un ricordo lontano, poiché le memorie di tali circostanze luttuose si sono esaurite già all’inizio del nostro secolo.
Anzitutto, la veglia al defunto, la prima sera dopo il decesso, era riservata solamente ai congiunti prossimi, i quali si riunivano in una camera ardente appositamente allestita. A mezzanotte i veglianti mangiavano un ristretto pasto costituito da pane, formaggio e caffelatte.
Il funerale si celebrava qualche giorno dopo il trapasso di buon mattino e solo i parenti maschi assistevano alla tumulazione della bara al camposanto, mentre le donne rimanevano a casa per preparare un pranzo sostanzioso da offrire ai parenti più prossimi venuti al funerale. Esse sarebbero andate invece alla Messa tutte le mattine durante la settimana seguente.
Nella descrizione di alcune usanze particolari delle popolazioni cimbre, segnalate in un’inchiesta napoleonica del 1810, se ne ricordava una tra le più caratteristiche che si svolgeva in chiesa al termine del rito funebre. Un parente del defunto dispensava a tutti i fedeli presenti un soldo, mentre il sacerdote cantava un salmo. Terminato il canto tutti depositavano la moneta su di un pannolino preparato vicino all’altare. Di origine antichissima era anche l’usanza del pianto funebre che iniziava la mattina del funerale e terminava davanti alla tomba chiusa.
Ritornando a tempi più recenti si rammenta ancora il desiderio di dimenticare il defunto mediante la sepoltura dei suoi indumenti per cancellarne il ricordo e la malattia. Le anime dei trapassati ancor oggi incutono un certo rispetto e terrore: pertanto, quando esse appaiono in sogno, sono ascoltate con attenzione ed eventualmente seguite nei loro consigli.
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