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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Hanno detto dei Cimbri...

 

Il “Fioretto”

 

Un cantare del Quattrocento, a firma di un fabbro-poeta di origine lombarda, Corna da Soncino (1479), è considerato quasi una “guida  topografica” della città di Verona, del suo distretto e della montagna veronese (Baldo e Lessinia) e si intitola «Fioretto de le antiche croniche de Verona». Il Corna è attratto, in particolar modo, dalla caccia per quanto riguarda le risorse della montagna. Il Monte Baldo è nominato per la selvaggina di grossa taglia soprattutto, mentre per la Lessinia le segnalazioni del Corna sono dirette alla caccia agli uccelli. Il poeta, però, non trascura neanche l’alpeggio e parla di «zentaglia molto desusata», a proposito delle popolazioni di origine tedesca che sono venute ad abitarla. Ma parla volentieri della transumanza del bestiame bovino che d’estate sta nei pascoli e d’inverno giù nelle stalle. Ecco alcune strofe che traducono il suo pensiero: «E son sì grande e magne le Lisine / ch’è sopra le montagne veronesi, / che con Vicenza e Trento ha sua confine, / e tante bestie lì stan per mesi, / che del lor caso e smalzo le casine / son piene /, tanto se monge in quel paese. / La Val de Lagri e ‘l comun de Caprino / de bestiame fanno altro Lessino ...».

 

Blasoni popolari della Lessinia

 

A chi frequenta la Lessinia e, in modo particolare quella centro orientale, sarà capitato quasi sicuramente di dover chiedere informazioni a qualcuno per saper dove abita il tale o il talaltro e si sarà meravigliato di sentirsi domandare: - Ma come se ciàmelo? Dopo aver sciorinato nome e cognome, l’interpellato che  aveva in testa una sua anagrafe particolare dei compaesani, gli avrà chiesto: - Cossa èlo de soranome?

 

Ecco allora spiegato il perché nei nostri paesi di montagna — almeno fino agli anni Cinquanta del secolo passato—era più facile trovare l’abitazione di una persona se si chiedeva il suo soprannome. Così a Campofontana, tanto per non citare esempi di un altro paese, c’erano i Bìsari, i Sièfari, i Mincòti, i Gali, i Sgnechi, i Serciari, i  Monchi, i Finchi, i Cavri, i Scussi e tanti altri. E questa era abitudine di tutti i paesi lessinici.

 

Spesso il soprannome riguardava anche gli abitanti di un certo paese, per non dire di molte provincie e regioni. Esempi: Veronesi, tuti mati; Vesentini, magnagati; Udinesi, castellani col cognome de furlani; Padovani, gran dotori;  Trevisani, pane e tripe;; Rovigoti, baco e tripe; Bergamaschi, brusacristi; Bressani, tagiacantoni…

 

Anche nella nostra Lessinia, c’è davvero di che sbizzarrirsi. Dopo il blasone di Cerro, cioè dei Folendàri e dei Batisalini, passiamo ai Mastelari da Cesanova o Sbregantoni o Tajacantoni; ai Brusè da Saline; agli Incandìi da Sentro; ai Salveghi da Scandolara;  ai Vacari o Capicasari o Litiganti da Velo; ai Sassacristi o Sigolanti de Valdeporo; ai Sindichi da Pernigo; ai Derlari da Progno o Odiosi; ai Poareti o Sestari o Batàri da Sant’Andrea; ai Vacari da Camposilvan; ai Bestemadori o Sapamarogne da San Bortolo; agli Avocati o Rondoni da Campo, perché sono sempre in movimento per i loro interessi; ai Portamodone o Poareti di Durlo;  agli Spioni o buli da Bolca; Striossi da Sprea; Tacabeghe da Vestina; ai San Gioani Larion cortelo e secion; ai Carbonari o Insulsi da Giassa; ai  Slapasuche e Portaderli di San Mauro; Galoppini o Copapreti da Castelvero; ai Sapamarogne da Roarè;, agli Sbondareossi o Sagrari o Furbi da Badia;  ai  Rostìi o Miserioni o Carradori di Cogollo; ai Barataschi da Lugo; Varalta sapamalta;  ai Ovi da Ilasi; agli Avocati da Tregnago…

 

Questi sono i vari modi di blasonare popolarmente la gente della Lessinia, e, come abbiamo visto certi paesi hanno più di uno titolo. Siamo consapevoli che ognuno di questi blasoni avrebbe bisogno di essere spiegato, perché le definizioni, se sono state affibbiate a un determinato paese, hanno avuto un motivo di fondo. Facciamo un esempio: la castagna è un frutto autunnale — o meglio, ancora, invernale — che va colto in una maniera del tutto originale, come, d’altronde, l’altro frutto, quello della noce: bisogna abbatterlo, cioè, farlo cadere a terra, “bacchiarlo”, per dirla in punto di lingua. E qui viene in mente quel celebre brano del Manzoni, in cui descrive fra’ Galdino che va alla questua di noci.

 

Una volta erano specialisti di questa particolare attività gli abitanti di Sant’Andrea di Badia Calavena, tanto che si sono meritati il blasone di “Batàri da Sant’Andrea”. Lo avrebbero meritato gli abitanti di San Mauro di Saline, considerato il fatto che oggi sono i mecenati del mercato della castagna. Invece no: i “Sanmauresi”— chiamiamoli così — sono passati alla storia dei blasoni come “Slapasuche”, dove slapàr, nel peggior gergo veronese è «mangiare ingordamente» e dove suche significa «zucche»; cioè mangiatori di zucche. Ciò fa pensare che il suolo di San Mauro, nel passato, sia stato fecondo per la coltivazione di questa cucurbitacea.

 

Giunti a questo punto, facciamo due passi in Lessinia per vedere come il “blasone” poteva dipendere da come si nutrivano in certi paesi.  A Sprea (di Badia Calavena) il blasone era: “Ravàri da Sprea”; un po’ più in là, verso mattina c’è San Bortolo delle Montagne: “Patatàri da San Bortolo”; poi vediamo, nel vicino Vicentino, Durlo: “Durlàti magnagati”. Se, tuttavia, usciamo un po’ dal tema e osserviamo di nascosto i segreti comportamenti, le abitudini dominanti delle altre popolazioni della Lessinia, ci accorgiamo che in Lessinia centro-orientale i blasoni sono numerosi e molto conosciuti; più in là, da Bosco Chiesanuova, verso sera, invece, chissà mai per quale motivo, i blasoni sono rarefatti e sembra che siano stati scordati, lasciati perdere, di proposito o involontariamente, resta da accertarlo.

Concludiamo con un cenno anche ad altre popolazioni della nostra etnia: Maròchi da Enego, Ladri da Foza, Mastegapaja da Lusiana, Pomposi da Asiago, Strucapolenta da Roana, Fumaroi da Camporovere,  Bècasassi da Arsiero, Martarèi da Pedescala, Carbonèri da Caltran, Slapascoro da Canove e, per terminare, Portastanghe da Cesura che i va a robar de note con la luna.

 

Parlar soto metafora

 

Se la Lessinia e, soprattutto talune contrade, sono riuscite, malgrado il progressivo degrado ambientale e lo stato di graduale abbandono dell’ambiente, a conservare ancora splendidi esemplari di quella che fu la caratteristica forma architettonica, con le sue strutture contradali e le sue costruzioni, altrettanto non si può dire della lingua popolare, del dialetto cioè che vi si parlava una volta, che è andato via via cadendo in oblio, rimpiazzato dalla lingua ufficiale.

Vorremmo citare in questo spazio qualche esempio — perché anche il linguaggio è parte importante della cultura della Lessinia — di quello strano linguaggio che la gente della montagna, e non solo della montagna, una volta usava per far capire cose e intenzioni del tutto diverse da quello che letteralmente diceva il discorso, la frase. In altre parole parlavano per metafora. Ecco qualche esempio:

 

1 - Portar l’acoa con le récie, è un modo di essere servizievoli verso gli altri che non si potrà mai realizzare e che fa a pugni con la realtà. Ma la metafora, questa in particolare, vuol far capire che una persona che asseconda fino all’eccesso i capricci di un figliolo o i desideri del coniuge, si rende schiavo. Simili, ma con espressioni diverse sono: darghe brasso, ‘andar in brodo, cavarse le buèle.

 

2 – Mostràr le fódre; il termine fódre sta per «federe, coperture», come quelle dei portafogli dei nostri capifamiglia di una volta che erano suddivisi in tanti scomparti e tutti debitamente foderati. I portafogli, o taccuini, che una volta costituivano la cassaforte di una famiglia, quando erano vuoti, ovviamente mostravano le fódre, e questo voleva dire che i soldi erano finiti. Si usava dire anche: le  fódre le se toca. Le fisarmoniche, gli strumenti musicali che ancora oggi suonano e rallegrano le feste popolari, dànno l’idea di scomparti; per cui, alludendo alla fisarmonica, quando non c’erano più soldi, si diceva: roersàr l’armonica.

 

3 – Sèrà su botéga, era la frase che amabilmente si rivolgeva a chi si era dimenticato di abbottonarsi i pantaloni, el patelón. Oggi è meno facile imbattersi in chi se ne dimentica, perché i bottoni di una volta sono stati sostituiti dalle cerniere. Ma se dovesse capitare un caso del genere, non sarà riprovevole e irriverente richiamar l’attenzione del malcapitato dicendogli: ancó non se vende oio.

 

4 – I te g’à scurtà le braghe, frase che si rivolgeva, adorabilmente in questo caso, a un ragazzino maschio quando in famiglia nasceva un altro maschietto, per significare, in un certo senso, che la venuta del neonato comportava la necessità di recuperare un po’ di stoffa dai suoi calzoni per vestire anche lui. 

 

5 - Tre ciàpe fa un cul e medo, tre natiche (culate) fanno un sedere e mezzo. Indiscutibile. Espressione volgaruccia, peraltro pronunciata con la massima naturalezza, quando si trattava di troncare i discorsi a qualcuno che non la finiva più di tessere lodi sperticate e guadagni favolosi di sé stesso o di qualche suo amico o conoscente; ciàpa, ciàpa, ciàpa, tre ciàpe fa un cul e medo.

 

6 – Vàntete sésto che te gh’è on bel mànego, è quasi un’appendice del detto precedente e lo si rivolgeva a chi si lasciava andare a lodi sperticate di sé stesso, o a chi si autocelebrava. Voleva dire: «Falle pure le lodi di te stesso, ma non hai la stoffa del superuomo».

 

Osterie e giochi di una volta

 

Nel 1532 arriva in visita pastorale a San Mauro di Saline il vescovo di Verona, mons. Gian Matteo Giberti. Egli, nei suoi verbali, fa sapere che il parroco e il cappellano di quella comunità frequentano la taverna (cauponam) insieme agli avventori abituali: è disdicevole per dei sacerdoti e li ammonisce «quod non audeant ingredi tabernam cum secularibus». Il vizio del bere e dell’ubriacarsi, come si vede, non è recente; anche in pieno Cinquecento le osterie erano frequentate e soprattutto dalla povera gente.

 

Per coloro che si ubriacavano si potevano ipotizzare tante scusanti tra cui un’alimentazione manchevole o addirittura povera, un lavoro settimanale eccessivo, sistemi scadenti nella preparazione dei cibi e, soprattutto, carenza di denaro. Per cui, la domenica, si giocava alle carte e alla morra di mattino presto, subito dopo la messa, senza far colazione, a stomaco vuoto; e a ogni partita, di norma, si puntava su un litro di vino.

 

La morra era un gioco severamente proibito, ma la vigilanza delle forze dell’ordine era piuttosto lacunosa, per non dire assente. I carabinieri bisognava chiamarli apposta e sennò venivano quando c’era stata qualche baruffa terminata nel sangue. Il gioco delle carte (tressette, scopone, briscola e simili) non eccitava smodatamente gli animi, perché erano tutti giochi piuttosto lenti e, quindi, prima di consumare un litro di vino, si perdeva quasi sempre una bella mezz’ora; e poi erano in quattro a bere più el sior, el segnadór (il quinto uomo che, fuori dal gioco, annotava i punti).

 

Il gioco della morra, invece, era ed è pericoloso perché accende oltre misura gli animi, costringe il giocatore a parlare forte, a urlare talora, a farsi ragione con violenza, a usare astuzie e imbrogli come quelli di fingere di aver pronunciato il numero e di muovere agilmente e scorrettamente le dita per trarre in inganno l’avversario, eventualmente a contestare, a sbraitare, a spolmonarsi, a minacciare.

 

Il vino, trangugiato in questa atmosfera surriscaldata, ubriaca prima del tempo e fa perdere l’equilibrio mentale prima ancora di quello fisico.

 

Non molto dissimile l’atmosfera nel gioco della carte. Più tranquilla indubbiamente, ma sempre con la prima preoccupazione di trangugiare vino il più abbondantemente possibile e di non perdere quell’occasione. Infatti si stava lontano dall’osteria una settimana intera ad acqua o al massimo a graspìa. Quella mattina magari la colazione era consistita in latte e polenta, ma non ci si poneva neppure il problema di “tagliare” il lungo digiuno con qualche panino o con la tradizionale trippa. 

 

E il vino si ordinava a litri. Una volta però, quando ancora il litro non era un’unità di misura, veniva servito a inghistàre, a istàre, ad anghestàre. Cos’era l’inghistàra, l’istàra, l’anghestàra? Una misura per liquidi, nel nostro caso per il vino, una misura che nei tempi più antichi fece la sua apparizione insieme a quelle che aprirono la strada alle misure del sistema metrico decimale, ma relativamente a talune regioni italiane: cioè il mastello, il boccale, la bozza, la botte, il conzo, la boccia, la secchia, il brénto.

 

In Veneto l’inghistàra equivaleva a 4 gotti, scrive il Cappelletti, vale a dire a litri 0,95. Ma non pare proprio che queste misure siano state un’esclusiva del Veneto, anche se Poerio nel suo dizionario, completa la voce inghistàra con altre due espressioni complementari in cui si legge che essa era “Misura di vino che si vende al minuto nella provincia di Verona e che corrisponde alla boccia di Padova e al boccale di Venezia”.

 

E da quanto ho potuto conoscere dai racconti dei vecchi, una volta si trincava vino nei cosiddetti “boccali” di terra cotta anche all’osteria, non solo a casa. Un boccale equivaleva a litri 1,80, quasi due litri.

 

I «bogóni» di Sant’Andrea.

 

Per ragioni di calendario e per giuste disposizioni superiori che da alcuni anni a questa parte è stato opportuno adottare, la ricorrenza religiosa e liturgica del santo patrono del paese di Sant’Andrea (Badia Calavena) viene sempre celebrata il 29 novembre, giorno del supplizio del santo; ma l’antica “Sagra”, che da secoli accompagna la ricorrenza, associata all’altrettanto famoso e antico Marcà dei bogóni, viene rinviata ai giorni di venerdì, sabato e domenica che precedono la domenica dopo il 29 novembre.

 

Per noi montanari dell’alta Lessinia orientale, ma anche di quella centrale e delle valli collaterali, l’anniversario torna a ripetere una straordinaria occasione folkloristica oltre che economica, quella dell’ultima “sagra” dell’anno solare della montagna e dell’ultimo momento di festa paesana. A Sant’Andrea, una volta, si andava a vendere qualche bestia — pecore e capre in modo particolare — che non rendeva più, che era diventata un peso economico mantenere; ma a Sant’Andrea si andava pure per comprare il maiale da ingrassare durante l’inverno; a Sant’Andrea si andava a vendere la lana della tosatura autunnale delle pecore, a cambiar qualche capo di vestiario, a barattare qualche prodotto in esubero e, strano a dirlo, anche ad incontrare la “morosa”, a scambiarsi i doni tra fidanzati e a ... divertirsi una volta tanto, perché era l’unico paese vicino ai monti in cui ci si poteva svagare in un parco divertimenti, eccezionale per quei tempi, che si insediava nel prato tra la piazza e l’antica trattoria della “Gata”.

 

Più a nord, invece, lungo la strada che porta a Selva di Progno c’è sempre stato, ab immemorabili, el marcà dei bogóni. Chi lo dice? La tradizione. E la tradizione, quando mancano documenti che non affermino diversamente, il più delle volte fa storia.

 

A Sant’Andrea, giorno feriale o festivo che fosse, si andava anche per vendere quei pochi bogóni che si erano raccolti durante l’estate, custoditi poi gelosamente nelle bogonàre, alimentati con varie erbe fino al giorno tanto atteso, quello, del Marcà dei bogóni. I bogóni, infatti, per chi di mezzi non ne aveva, o ne aveva pochi, costituivano una preziosa moneta di scambio. Erano ricercati anche allora, come lo sono ancora adesso, soprattutto dai ristoratori dell’alta Lombardia, del Piemonte e dagli alberghi francesi. Anche nei ristoranti di casa nostra, i piatti a base di bogóni sono ricercatissimi e ne sanno qualcosa coloro che devono pagare il conto al ristorante. E proprio con quei pochi soldi che in quel giorno si riuscivano a mettere insieme dalla vendita del mollusco, si poteva passare una bella giornata, in altre parole, diversa dalle solite. I bogóni, insomma, concorrevano a far sagra anche loro e a comprarsi qualcosa di utile.

 

La Pro Loco del luogo, si è data molto da fare per far tornare alla luce del “sole” l’antica manifestazione della “Sagra” e del mercato togliendo loro la quasi millenaria patina di genericità e di consuetudini orali vaghe e ipotetiche che vi si erano depositate sopra, per ridarle nuovo lustro e freschezza nuova, e farla interessante, in particolar modo, per i Veronesi e non solo per loro. Quindi da alcuni lustri in qua si è presentata al suo più importante appuntamento annuale migliorando di volta in volta l’organizzazione del mercato e impegnandosi a inserirlo nella cornice folkloristica che lo contraddistingue su tutti quelli del Veneto, puntando su un prodotto qualificato e ben identificabile, senza trascurare neppure un certo rilevante aspetto culturale, indispensabile per la diffusione commerciale della chiocciola locale.

 

Sant’Andrea: Monumento ai “Bogoni”

 

Il Consorzio della Lobbia

 

Ogni cinque anni, con una solenne manifestazione paesana di stampo contadino, in una contrada di Campofontana (Tornieri), si metteva all’asta pubblica, all’”Incanto” cioè, l’affitto del pascolo (che è di trecento campi e può essere caricato con 100 capi bovini) in base ad una certa quantità di latte oppure di burro. ”L’Incanto della Lobbia” di solito avveniva di sabato ed era aperto a tutti. Ognuno poteva concorrere versando una determinata somma a garanzia; essa però veniva restituita ancora la sera stessa se la “montagna” era stata vinta da un altro. Chi partecipava all’asta, anche se non aveva vinto, aveva diritto a intervenire gratuitamente ad una cena che i consiglieri della Lobbia organizzavano a titolo di riconoscenza per il beneficio che essi avevano fornito con la loro offerta.

 

Il nome del vincitore, non appena egli aveva versato la somma di caparra, era festeggiato con il suono di una “cioca”, di un campanaccio, e l’addetto al banco di mescita (che consisteva in una damigiana con una canna e un bicchiere) mesceva bicchieri di vino a chi aveva voglia di far festa. Poco lontano dal cortile un suonatore di fisarmonica rallegrava i ballerini con danze dell’epoca. 

 

Terminata la stagione, anno dopo anno, in autunno, subito dopo la sagra del paese, i tre del consiglio di amministrazione, detratte le spese, andavano di casa in casa dei consorti e distribuivano in parti uguali il frutto dell’incanto. Avevano diritto alla “paga della Lobbia” quelli che avevano un certo cognome storico e che conservavano “loco e foco” per almeno sei mesi all’anno nella contrada della famiglia originaria.

 

Molto spesso con tale introito, contrada per contrada, si finanziava qualche lavoro di carattere pubblico della contrada stessa: come il caso della fontana di contrada Pagani, costruita nel 1794, che fu saldata dai capifamiglia con la cosiddetta “Paga de Lobia”, cioè con l’apporto derivante dall’affitto della malga. Oggi l’asta avviene in maniera molto più semplice.

 

 

Il pascolo della Lobbia

 

  

I Trombini

 

Trattando di San Bortolo delle montagne abbiamo fatto cenno al recupero e al riutilizzo di un paio di locali della vecchia sacristia per ospitare un “Museo dei Trombini” della Lessinia. L’opera è stata ideata e finanziata dalla Comunità Montana della Lessinia di Verona su disegno e programma espositivo elaborati dallo scrivente e dall’arch. Marzio Miliani.

 

Perché un Museo dei Trombini a San Bortolo? Una risposta alla domanda si può avere leggendo l’epigrafe di una delle due targhe commemorative poste ai lati della porta d’ingresso del museo, che recita:  SAN BARTOLOMEO AL TODESCO / STORICO COMUNE CIMBRO / CONSERVA LA TESTIMONIANZA D’ANTICHE USANZE DI NORDICA ASCENDENZA / TRA CUI LO SPARO DEL TROMBINO /  CHE ASSURGE AD ATTO LIBERATORIO / DA ANCESTRALI ANSIE / E PROPIZIATORIO DI EVENTI MIGLIORI / E AFFIDA AL MUSEO LA CUSTODIA / DI QUESTO PECULIARE ASPETTO / DELLA CULTURA POPOLARE DELLA LESSINIA.

 

Cos’era nel passato un Trombino? Come scrive Gianni Faè, «… era un’arma da fuoco corta, con una canna cilindrica di ferro o di bronzo, o di tutti e due questi metalli insieme, che si allargava con una bocca a svaso destinata a sparpagliare un’ampia rosa di proiettili di piccolo calibro; … poteva essere tanto un’arma a spalla, quanto una pistola, come quel rozzo tromboncino da pugno, a canna molto svasata del XVIII secolo che si usava  negli Stati Uniti, o addirittura un pezzo pesante da montare su affusto a perno…».

 

 Sparava pallini, chiodi, oppure oggetti che procuravano ferite e morte.  attualmente spara a salve ed è diventato simbolo di festa e gioia. Lo sparo avviene dopo che il “tromboniere” o “pistoniere” ha introdotto nella canna un certo quantitativo di polvere nera (di quella che si adopera anche nelle cave di marmo), dopo che l’ha pressata sul fondo con un paletto e un martello di legno, e bloccata poi con un tappo di carta.

 

Su di lato dell’affusto è collocata la cartella, un congegno che aziona il martelletto (il cane) il quale va a battere su una miccia collegata al fondo della canna e alla carica di polvere. Di solito, ogni pezzo da sparo è abbellito da incisioni sulle lame di metallo che tengono uniti i vari elementi dell’arma, e da intagli a bassorilievo sul legno dell’affusto.

 

E perché il Museo è intitolato a Gianni Faè? La motivazione principale la si può capire tra le righe di un’altra epigrafe incisa sulla stele all’altro lato della porta d’ingresso. Essa recita: LA COMUNITA’ MONTANA DELLA LESSINIA/ DEDICA QUESTO MUSEO A / GIANNI FAE’/ APPASSIONATO STUDIOSO/ DELLA STORIA CIMBRA / CHE RISCOPRI’ IN SAN BORTOLO/ E PORTO’ A NUOVA VITA/ LA PERDUTA ARTE / DELLO SPARO DEI TROMBINI.