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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Lavoro e Occupazioni

 

 

La parola “montagna”

 

Tra i montanari non sono conosciute le parole “malga”, “monticazione” oppure “alpeggio”. Sono tutti termini entrati col tempo nell’uso corrente, ma non del montanaro.

Il montanaro, oppure colui che al montanaro cedeva le sue vacche (in affitto) per il periodo estivo, sapeva che esse andavano per quattro mesi in “montagna”, e per quattro mesi esse dovevano produrre il latte per conto del loro proprietario provvisorio.

 

Il termine “montagna”, anticamente detto “alpe” (da cui è derivato il termine “alpeggio”, cioè il periodo estivo in cui le vacche rimanevano a pascolare sui Lessini), voleva indicare il pascolo alpino sul quale i bovini che producevano latte, cioè le vacche lattifere soprattutto, ma anche quelli che non ne fornivano, avrebbero pascolato per quattro mesi e cioè dalla metà di maggio alla metà  di settembre.

 

Alla fine di quel periodo ogni vacaro recapitava le bestie ai rispettivi padroni, riceveva il denaro pattuito per la cura delle bestie, pagava lui stesso l’affitto del pascolo al proprietario della “montagna” e tornava alla sua abitazione. L’affitto di una bestia al pascolo veniva conteggiato in base a una norma racchiusa nella parola « paga ». Corrispondeva a tanti litri di latte oppure a tanti chili di burro ed era combinato sulla base di un’antica norma che prevedeva quanto segue:

 

* una vacca da latte, che aveva compiuto due anni contava una “paga”;

* due manze che non avevano ancora fatto la “rotta” (di età cioè tra i 18 e i 20 mesi) ma alla loro seconda stagione di alpeggio, contavano complessivamente una “paga”;

* quattro vitelle nate nell’inverno precedente la stagione dell’alpeggio, contavano globalmente  una “paga”;

* un cavallo contava una “paga” e mezza;

* otto pecore globalmente contavano una “paga”;

* il toro era esente perché era un animale indispensabile per la riproduzione. Tant’è che i giocatori di carte, in montagna, una volta, chiamavano sempre in compagnia anche un’altra persona, il  segnapunti (el segnadór), il  quale beveva a maca (gratis), come si diceva; e a tal proposito ricorreva la frase: “L’è esente come i tori in montagna”.

 

“Cargàr montagna”

 

Quella che un tempo era stata la pratica secolare della transumanza del bestiame, dai cosiddetti loghi de la desvèrna (le stalle e le fattorie della “bassa” e del fondovalle) ai pascoli alti, l’alpeggio in altre parole, da noi della Lessinia dell’est, in particolare, passava sotto la denominazione di cargàr montagna. Tra l’ultima decade di maggio, pertanto, per quanto riguarda le “montagne” più basse, e la prima decade di giugno, per quelle ad altitudini più elevate, si compiva l’operazione del “carico” dei pascoli estivi d’alta montagna, con una procedura esecutiva quasi rigorosa e con dei parametri di copertura del pascolo e delle corrispondenti forme economiche, che l’uso e la tradizione radicata nei montanari, hanno rispettato e attuato rigorosamente per secoli e secoli.

 

Ci sarebbero diverse componenti che varrebbe la pena di citare in apertura dell’argomento, ma ci riferiremo alle consuetudini preparatorie più interessanti, relative all’esodo del bestiame; esodo che relegava, lassù nei bàiti, per quattro lunghi mesi, vacari, malghesi, casari, scotóni, lontani dalla famiglia, dalla società, dal mondo, quasi in un regime di cattività, di confino, di eremitaggio.

 

Una volta, prima di affrontare tale trasferimento, che di norma si compiva su strade bianche, su mulattiere e su sentieri, c’era l’abitudine di far pascolare il bestiame per una ventina di giorni nei prati dove esso aveva trascorso l’inverno. In considerazione poi dei lunghi e accidentati itinerari montani che la mandria avrebbe dovuto percorrere per arrivare al bàito, gli allevatori le facevano far l’ongia per una diecina di giorni. In altre parole costringevano la mandria ad uscire di giorno e la facevano percorrere qualche chilometro su strada bianca per abituare lo zoccolo.  

 

Qualche giorno prima della partenza del bestiame, i contadini raccoglievano cavalli, carri, carretti, gróie, traboccanti di masserizie, di arnesi per la malga, di utensili per la lavorazione del latte e del formaggio, seguiti dai mandriani che conducevano el s-ciàpo delle bestie, da altri familiari, dai cani che giravano attorno alla mandria; davanti a tutti le vacche più anziane, perché esperte del percorso, con un grosso campanaccio al collo. Grida, latrati, bastonate. Fino al bàito. Poi cominciava un’altra …era.

 

Lavorazione del latte

 

La “montagna” col significato di unità pascoliva, generalmente localizzata a quote superiori a quelle delle abitazioni permanenti (paesi e contrade)  fa capo ad una malga, meglio conosciuta con il nome di bàito. Di solito è una costruzione rurale adibita al ricovero di persone (bàito, appunto) e di bestie (stalle, porcili) qualcuna anche con la giassàra. Non si conosce con esattezza cosa significhi il termine malga, esso è entrato nella parlata comune dei montanari ed è arrivato forse dai dialetti alpini del Grigione e del Lombardo-Veneto, ma si ipotizza anche un’origine latina: malica (mal-ca) con il significato di «mandria».

 

Il “bàito”, una volta, era anche un luogo per la lavorazione del latte prodotto dalle vacche che pascolavano durante il periodo dell’alpeggio. Ora ciò avviene solo in pochissime Malghe  tra di esse Malga Campobrun e Malga Lessinia perché non si fa neppure in tempo a mungere le mucche che già c’è il latàro (colui che raccoglie il latte e lo trasporta ai caseifici della pianura).

 

Generalmente il bàito vero e proprio era formato di tre locali principali: il lógo del fógo, il lógo del latte e il medà, tutti e tre sullo stesso piano. Nel piano sottostante, di solito quello sotto il logo del latte, era sistemata la casàra, vale a dire il locale dove, su delle speciali incastellature, dette scalére, si collocavano le forme di formaggio prodotte (casati) per poterle stagionare che, voleva dire salarle e pulirle periodicamente.   

 

C’è un termine nel linguaggio dei vacàri, di coloro cioè che custodiscono il bestiame, che vale la pena di richiamare alla mente: «bàtar la sécia».

 

Le vacche, di giorno, si sparpagliano qua e là sul pascolo per mangiare; poi nel tardo pomeriggio, quando vien l’ora di mungerle, il vacàro prende con una mano una secchia di legno, di quelle che adopera per andarle a mungere e nell’altra mano una coppa di quelle che oltre a servire per travasare il latte vengono poste nella secchia per tenerlo stabile affinché non fuoriesca durante il camino. Si mette a tamburellare sul fondo della secchia ottenendone uno strepito come quello del batterista. Le bestie allora si avvicinano al bàito e vengono munte.

 

La sécia da late o sécio del late è un recipiente in legno, di forma tronco-conica, più largo alla base, più stretto sopra, e serve a raccogliere il latte appena munto e a misurarlo.

Per mungere le pecore, invece, si adopera il coéio, un recipiente in legno in cui alcune doghe  da una parte sono alte più del doppio rispetto alle doghe normali. Perché come si sa, per mungere le pecore il pastore si pone sul retro della bestia non di lato, per cui il liquido potrebbe fuoriuscire dal recipiente.

Nel lógo del late, quello di una volta, su tre lati del locale erano disposti in bell’ordine, sostenuti da mensole in pietra, una serie di recipienti in legno, del diametro di varia grandezza, tanto che variavano anche di nome rispetto alla loro capacità: si partiva dal fondo (circa 20 litri), per passare alla medàna (circa 16 litri) e al mastelin (circa 12 litri). Erano fatti con legno di abete oppure di maggiociondolo o anche di acero. Una volta, subito dopo la mungitura, il latte veniva filtrato con el cólo (colino), un arnese molto arcaico, in legno, a forma di imbuto, con un largo foro sul fondo in cui si introducevaa una pugno di erba da cólo (licopodio, cioè il Lycopodium annotinum L.,) che funzionava da filtrante; per completare l’operazione sopra ogni mastèla si poggiava la scalaróla (telaio porta colino) e lo si scaricava. Per travasarlo, però, occorrevano altri utensili, come la cópa, di cui abbiamo già parlato e la spanaróla, recipienti in legno ottenuti con il tornio.   

 

 Nel lógo del late, venivano sistemate le mastele con il latte munto; il locale con parecchie finestre rettangolari, basse e lunghe, tipiche di questi ambienti, era fortemente arieggiato per favorire l’affioramento della panna nelle mastèle; panna che il giorno dopo veniva raccolta con una speciale coppa di legno, detta spanaróla, e versata nel bucio.

 

Nei giorni seguenti i mandriani e i pastori iniziavano la lavorazione per trarne burro, formaggio, ricotta e scòta.

 

Nel lógo del fógo, come dice la parola, c’era la fornéla, un grande focolare sul quale si bruciava la legna necessaria per far fuoco sotto la caldéra (caldaia) in cui si scaldava il latte. Dopo aver levato nelle mastèle la panna che si era formata, il casaro versava il latte nella caldéra, e lo portava alla temperatura di 30 gradi; vi aggiungeva il caio (caglio) e attendeva alcuni minuti finché il latte andava in caio. Poi con alcuni speciali mestoloni di legno di abete, detti triso, rìssola e chitara, rompeva la cagliata e lasciava condensare la pasta sul fondo della caldaia. Quindi, con le braccia immerse nel liquido, lavorava sul fondo e raccoglieva la pasta in una grossa palla che poi estraeva dal liquido e deponevain una fassàra, uno stampo rotondo di legno con la forma di un formaggio, debitamente collocato sopra lo spersór, uno scolatoio per far asciugare la massa cagliata. Il liquido rimasto, el latin, veniva sottoposto nuovamente a una fase di riscaldamento e lo si portava fino ad ebollizione.

 

Vi si versava un po’ di agra (che è siero inacidito con una manciata di sale) e subito compariva sulla superficie la puina. La prima era detta fioréta, perché affiorva in superficie, ma se ne otteneva una quantità molto limitata e il casaro la sistemava in speciali sacchetti di tela; la seconda, invece, molto più abbondante, la puina vera e propria, per farla scolare dal siero che ancora conteneva, si versava in un recipiente cilindrico bucherellato detto caròta. Il siero che rimaneva, veniva usato per alimentare i maiali che costituivano un’entrata sicura del mandriano, in quanto gli costavano pochissimo per il mantenimento. Sul fondo della caldéra, però, rimaneva sempre qualche po’ di pasta che non era stata raccolta; veniva chiamata musso. Di solito era il primo “regalo” che si faceva ai bambini che assistevano all’operazione.   

             

Le forme di formaggio, una volta scolate erano portate in un locale particolare, detto casàra, collocate nelle scalère (scaffalature). Il casaro le coltivvaa, come si dice: ogni tanto le girava sottosopra, le puliva con una speciale raspa, le ungeva con l’olio e le rimetteva nelle scansie fino a stagionatura completa.   

 

Concludendo il giro di ricognizione del lógo del fógo, intorno alle pareti del locale erano sistemate anche della rozze lettiere in legno fissate al muro: erano le binèle, cioè dei giacigli cui facevano da materasso frasche o erbe secche e in cui andavano a dormire i malgari quasi sempre vestiti.

 

Nel locale di mezzo, che potremmo chiamare entrata, era sistemato il bucio, cioè quell’attrezzatura con cui si faceva il burro, poi sostituita dalla zangola. Il bùcio era un cilindro in legno, alto circa un metro, dentro il quale scorreva in su e in giù uno stantuffo in legno, la rìssola, azionato da due o più persone mediante una leva che azionava un sollevatore (il fusèl); all’interno del bucio, la panna raffreddata da acqua fresca o meglio ancora da neve, si rapprendeva in una massa più solida che è il burro.

 

Boscaiolo ... contadino  e artigiano

 

Un primo gruppo di coloni tedeschi, perlopiù boscaioli, provenienti dalla Svevia, dalla Baviera e dal Tirolo erano migrati dalle loro terre verso il 1000 sull’Altopiano di Asiago. Da quella zona una prima colonia si staccò diretta verso Posina, Folgaria, e, infine, a Lavarone e a Lucerna. Più tardi, qualche gruppo, si diresse verso Malo, Tretto, Schio, Valdagno, nel Vicentino. Per questo anche in queste zone troviamo toponimi e cognomi di stampo tedesco, o “cimbro”.

 

Dall’alta Valle del Chiampo, infine, alcuni coloni guidati dai due mediatori ( i cosiddetti Gastaldioni) Olderico di Altissimo e Olderico dell’episcopato vicentino, si diressero sull’Altipiano della Lessinia  a disboscare, a far carbone e produrre la calce. Furono chiamati “Cimbri “, perché i taglialegna in tedesco erano detti zimmerer , da cui thimbri” e, in seguito “cimbri”.

 

Costoro furono più fortunati dei compatrioti che li avevano preceduti nell’Asiaghese perché il vescovo di Verona , pur di trovare gente che venisse ad abitare, a dissodare e a ridurre a pascolo i suoi possedimenti, donò in perpetuo ad ogni famiglia un maso di 25 campi.

 

 Dopo che le famiglie si furono stabilite in un primo nucleo abitato la crescita demografica e l’arrivo di altri coloni i nuovi, li obbligò,se volevano campare, ad andare sempre più a nord, dove c’erano lande ancora vergini da colonizzare.

 

È chiaro che prima di far fruttare diversamente la terra che stavano colonizzando essi dovettero abbattere la foresta e poi bonificare e coltivare il terreno. Andando ad abitare nella boscaglia diventarono boscaioli, taglialegna, e artigiani. Le prime case erano di legno, poi ne costruirono in muratura, ma solo fino al tetto, e le coprirono di paglia per la maggior parte, più tardi altri boscaioli trovarono il modo per sfruttare meglio il legname e “inventarono” le scandole.

 

Ma il moderno boscaiolo la legna da ardere se la procurava andando nei boschi d’autunno o nell’incipiente primavera, avendo cura di non abbattere l’arbustato o il ceduo, ma di togliere solo piante contorte che disturbavano la crescita delle altre, di diradare quelle troppo fitte, perché crescessero meglio le altre, di rispettare le madrine (piante riproduttrici), di onorare certe regole nel taglio del peón, il pedale, il piede in altre parole. Altrettanto, faceva il contadino della Bassa o della Collina, ma in un ambiente diverso, perché la pianura non ha boschi delle dimensioni e caratteristiche di quelli della montagna.

 

Gli arnesi del boscaiolo, anche di quello moderno?

 

Segón, siguréto o sigoréto, stegàgno o stegàgna, rongàia o rengàia, quelli più comuni e più antichi. Poi, col tempo, subentrarono le seghe elettriche e allora il lavoro divenne molto sbrigativo, meno faticoso, ma anche meno esaltante. Il tronco (la bóra), ripulito per bene dai rami e segato in pezzi di lunghezza “commerciabile“, si faceva arrivare al luogo di caricamento con le teleferiche, cioè con fili a sbalzo, per essere più conformi al gergo del boscaiolo. Questo tipo di lavoro poteva aver luogo solamente quando ai confini più bassi dell’appezzamento boscoso passava una strada, altrimenti bisognava prendersi a spalle, stanga dopo stanga, fascina dopo fascina, e salire faticosamente la china e portare i vari pezzi a cargaóro (al posto dove si poteva caricare su un carretto o gróia).

 

Una volta a casa il materiale veniva debitamente selezionato e allora entrava in azione il contadino-artigiano, colui cioè che sapeva come utilizzare al meglio il prodotto. Le bóre più grosse, più lunghe e solide, diritte e senza grópi (nodi), venivano utilizzate come travature portanti (le cosiddette piàne) per costruire i tetti (coèrti). In montagna, in particolare modo, dove si coprivano gli edifici con lastre di marmo, le piàne dovevano essere più grosse e senza difetti, per reggere il peso che avrebbero dovuto sopportare rispetto a quello delle coperture fatte con altri materiali.

 

 Le bóre più piccole, invece, si adoperavano per coperture di tetti in paglia o in canne palustri (canèl). Ma con queste ultime si facevano anche travetti, i conventini, oppure scale, pali di sostegno dei pagliai (paiàri, muci de fén, marèi), per far persenàri (pali lunghi che servivano a tener fermo il fieno sulle gróie o sui carri), per costruire tetti con le scàndole, stecche di legno a mo’ di tegola, e per sostenere tetti in coppo o in “marsigliesi”. I tronchi più sottili, pure diritti e senza nodi, venivano utilizzati per far scale, carri agricoli per terreni di montagna, lunghi e senza sbarìni, senza sponde, adatti per trasportare fieno dai prati alle tezze, ai fienili, ai barchi (altro tipico fienile all’aperto) e, in modo particolare, per trasportare legname dai boschi a casa.

 

I “Campanari del diaolo”

 

In Lessinia c’è un ennesimo singolare gruppo folkloristico, che si fa chiamare “I Campanari del Diaolo”, che  si è formato alcuni anni fa, esattamente nel 1990, ad Erbezzo ed è composto da alcuni fisarmonicisti sotto la guida di Daniele Zullo.

 

Per capire la denominazione di questa singolare associazione folkloristica bisogna tornare indietro di un secolo e più, quando dalla Francia entrò prepotentemente in Italia, e pure sulle nostre montagne, un nuovissimo strumento musicale diventato in breve molto popolare: la fisarmonica. Essa si guadagnò subito il favore di tutti e una vasta simpatia presso le nostre popolazioni, quelle montanare nella fattispecie, e in men che non si dica il ballo furoreggiò in ogni angolo della provincia.

 

I montanari si riunivano a ballare in occasione di feste, matrimoni, sagre, ricorrenze civili e religiose, familiari e comunitarie, adattandosi a qualsiasi ambiente (stalla, casàra, bàito) pur di far quatro salti.

 

Ovviamente il ballo non ottenne mai l’approvazione da parte della Chiesa e tanto meno in ambienti molto più arretrati, come in montagna. Certi parroci, più inflessibili di altri in materia di osservanza dei costumi e di comportamenti religiosi, impegnati a far rispettare rigidamente le disposizioni superiori, molto spesso tuonarono con asprezza dai pulpiti, contro i trasgressori (fisarmonicisti e danzatori). Più di una volta, in occasione della Pasqua, esclusero dalla rituale benedizione annuale quelle case in cui avevano avuto notizia che si era ballato. E capitò pure che il parroco, in certi paesi, si soffermasse a marchiare con severità e  disistima la casa dove aveva suonato un “Campanaro del diaolo”, un fisarmonicista, in altre parole. Ecco la ragione della denominazione che si è data questo gruppo di suonatori.

 

Oggi la fisarmonica fa parte integrante e preponderante della cultura, della storia e del folklore della Lessinia cimbra e non, e in tutte le manifestazioni private e pubbliche, estive e invernali, è diventata quasi irrinunciabile e capitale la presenza di questo strumento, gioioso e vivace, che ha contribuito a suscitare nuovi contatti tra le comunità, ad esaltare nuovi rapporti di amicizia e a migliorare lo spirito di collaborazione e di solidarietà. 

 

Ad Erbezzo, appunto, è stata inventata ed egregiamente organizzata da alcuni anni, una manifestazione, la “Festa della fisarmonica”, che oggi richiama nel bel paese della Lessinia suonatori di fisarmonica da tutti i paesi d’Europa. La manifestazione  nel 2006, ha già compiuto 15 anni.

 

Non si può concludere senza un ricordo particolarissimo e affettuoso per quei poveri “Campanari del diaolo” di tanti anni fa che, probabilmente, sono passati all’altro mondo con una grossa amarezza nel cuore,  bollati come “ministri” del demonio, rei forse di aver disobbedito alla “chiesa”. Povera gente, segnata a dito, disprezzata dalle “bacchettone” di turno; povera gente che ne aveva fatto un mezzo per vivere o quantomeno per non pesare sul bilancio di casa; poveri diavoli che barattavano una serata con la fisarmonica per un pasto a base di polenta e formaggio e un bicchiere di vinello annacquato. Ci piace ricordarli: el Màsena, el Minci, el Milio, el Borséti, e altri ancora…

 

Contrabbando e contrabbandieri

 

Molto prima della Grande Guerra, sulla sponda rocciosa della Lessinia che guarda verso la Val dei Ronchi, il lato estremo settentrionale dell’altopiano, correva il confine tra l’Italia e l’Austria; e ancora oggi si possono ammirare i cippi che hanno resistito all’usura degli agenti atmosferici e alla stupidità dei vandali. I montanari risalivano i pericolosi e ripidi sentieri che dalla Val dei Ronchi portavano all’altopiano della Lessinia con le carghe (zaini): tabacco, caffè, salgemma e altro.

 

I confini erano accuratamente sorvegliati dalle guardie che non esitavano anche a sparare sui contrabbandieri se non mollavano il carico e le cronache di allora ricordano molti casi di morti violente. Così pure sono stati registrati casi di contrabbandieri uccisi da bufere di vento e neve e da improvvise valanghe o slavine. Di solito costoro erano povere creature che cercavano di guadagnarsi qualcosa che il normale lavoro di contadini non offriva.

 

Ma capitava, anche il contrario: che cioè le guardie, anche loro in difficoltà, tentassero di accordarsi con i contrabbandieri per divedersi l’introito. Scrive A. Crisma: «Una notte di sonno inquieto un giovane sottufficiale, credendo di favorire il riposo del suo superiore, non lo destò per il consueto cambio di guardia.

 

Verso le quattro del mattino, una lunga fila di contrabbandieri incappucciati depositarono una moneta ciascuno davanti alla guardiola, come testimonianza di un risarcimento per il suo silenzio. La giovane guardia rimase dapprima sorpresa, poi comprese che la manovra era stata ideata per fargli chiudere un occhio e permettere ai contrabbandieri di continuare il cammino e tornare a casa col loro bagaglio intatto».

 

Un cimbro di Giazza, attento cronista della sua epoca e della sua terra, lasciò una “memoria” scritta in cui narrò tante vicende personali e tanti episodi relativi alla comunità cristiana di Giazza, ma registrò anche alcuni fatti accaduti a contrabbandieri, morti violentemente. Eccone uno: « La notte dal 26 al 27 agosto 1890, Lucchi Andrea di Valentino d’anni 31, ammogliato, con una figlia, famoso contrabbandiere, in quella notte trovossi con altri compagni col contrabbando, in località Mandriello, inseguito dalla Guardia di Finanza egli si precipitò dal Cengio Motte et fu trovato la mattina 27 detto da alcune donne che andavano per legna, vicino al progno morto…».

 

Copàr el mas-cio

 

El par on rato tacà a la meséna = sembra un topo attaccato a una meséna, cioè un marito piccolino a braccetto di una moglie giunonica. La meséna è così chiamata, perché è metà del corpo di un maiale già spellato, sventrato, pulito dagli intestini e appeso alle travi della cucina per essere successivamente tagliato in pezzi per fabbricare i salumi e altri insaccati. Ma prima ancora di passare alla lavorazione delle carni, nei nostri paesi di montagna entrava già in scena una particolare consuetudine.  

 

La sera della macellazione era costume mangiare tutti insieme il fegato con la cipolla e il fassoléto o vèl (il peritoneo).

 

 Poiché v’era il detto che del maiale non si butta via niente, il mazzìn, per uccidere la bestia e recuperare anche il sangue, affondava con rapidità e sicurezza un coltello, il più adatto allo scopo, lungo e sottile, e con un colpo maestro tranciava di netto l’arteria carotidea per far uscire tutto e rapidamente il sangue: ma nel gergo comune si diceva che con la punta del coltello andava al cuore della bestia. Una donna della famiglia lo raccoglieva in una ramìna (con una chiave sul fondo, per scongiurare un’eventuale azione nociva del rame), rimestandolo continuamente, perché non coagulasse e non si formassero grumi. Sarebbe poi servito a far i brigàldi o brigàldoli, i sanguinacci, usando lo stesso intestino tenue del maiale (el buèl  dentìl) debitamente lavato e sgrassato.

 

Il massìn poi, a fuoco sempre acceso sul focolare, attento alle esigenze della tradizione locale, dopo aver staccato la parte grassa del lardo e della pancetta dalle due meséne, sceglieva subito alcune braciole, di due/tre costole ciascuna, a seconda della famiglia o del personaggio cui erano destinate; era un rituale che si  doveva osservare scrupolosamente anche se poi del maiale alla famiglia restava ben poco. Ma tradizione voleva che una braciola venisse donata ai parenti stretti, al parroco, al dottore ecc.; braciole che poi venivano immancabilmente ricambiate da quelle famiglie quando macellavano la propria bestia, fatta eccezione per il parroco che, di norma, non ingrassava il maiale.

 

Peraltro, se al parroco non si poteva dare una braciola, si confezionava apposta per lui un salame che gli veniva consegnato quando veniva a benedire le case per Pasqua, insieme alle tradizionali uova di gallina, tante quante erano le persone del nucleo familiare.

 

Lo stomaco, impropriamente detto prete, avrebbe fornito delle trippe di eccezionale sapore e delicatezza. Il saonzàl e la sugna (grassi interni) si tenevano per l’inverno per ungere gli scarponi, le sgàlmare e le grapèle oppure come strutto. Da essi si ricavavano i brùstoli o cìcioli, un cibo più che saporito che andava mescolato con la farina nelle focacce che si cuocevano sul letto del focolare, ben ripulito, coperte da un arnese detto fornèl (una specie di contenitore capovolto e coperto di braci).

 

La lingua, aromatizzata, mista a pasta di salame, veniva insaccata nel buel drito (intestino retto) per esser consumata il giorno de la Sénsa (Ascensione). Le massèle (mascelle) con la miòla (midollo in esse contenuto) venivano conservate nel sottoscala per medicare traumi e contusioni; le setole si davano al marsàro; persino le ongèle (unghie) venivano usate dai ragazzi a mo’ di nacchere. E a questo punto terminava la prima giornata della macellazione del mas-cio.

 

Derlàri  da Progno

 

D’inverno, quando si faceva sera, si andava nelle stalle anzitutto per ripararsi dal freddo, ma anche per far qualche lavoretto manuale e ancora per far passare un po’ di tempo prima d’andar a letto: la consuetudine era detta “far filò”. Si cominciava bene con la recita del Rosario e con una sfilza interminabile di preghiere per le anime dei defunti di tutte le famiglie, fino alla terza e quarta generazione precedente, ma si finiva poi per parlare e anche … per sparlare un po’ di tutto e di tutti. Qualche discorso poi andava sempre a cadere sulle miserie altrui, sulle magagne del prossimo, sulle abitudini di altri paesi vicini, ritenute anomale rispetto alle proprie, sui difetti fisici e morali della popolazione presa di mira e sulle occupazioni prevalenti della gente. Venivano allora a galla i cosiddetti “blasoni”, segni distintivi negativi o, quanto meno, astiosi, animosi, talvolta sfacciati.

 

Intanto le mani non restavano ferme le donne filavano, o lavoravano, gli uomini intagliavano il legno, riparavano gli attrezzi o intrecciavano le sine per fare i derli.

 

Gli abitanti di Selva di Progno, che lo facessero o meno per mestiere, erano chiamati derlàri, costruttori di dèrli, per dirla in dialetto veronese. Si tratta di un termine difficile da tradurre in italiano, perchè non esiste un vocabolo nella nostra lingua che lo possa rendere letteralmente; semmai solo il veneziano zèrlo, da cui il veronese ha tratto dèrlo, lo spiega con «gerla» o «zerla». Che cosa è un dèrlo? Si fa presto a dirlo, ma non così a descriverlo. Bisognerebbe che ce la desse un derlàro questa spiegazione; ma anche il derlàro non sempre sa usare i termini adatti a farlo.

 

El derlàr si procura la materia prima, le sine cosiddette, andando dalla primavera all’autunno nei boschi in collina o in montagna a raccogliere fasci di giovani polloni di nocciolo selvatico (ninsolàr o noselàr) e di salgaro (salice). Una volta a casa intacca con la roncola la scorza del virgulto, torno, torno, ne stacca un listello alla volta (una sina, una striscia sottile) che ripulisce dal verde, la rifila per bene e poi via ad intrecciare sull’ordito, che è fatto di stecche levigate e ridotte a spessori sottili, sulle quali intreccia, per modo di dire, i contenitori di cui si è detto.

 

El derlàr di una volta, era un “coso”, era un uomo, ma non come gli altri; era un essere diverso dagli abitudinari attori delle domeniche che venivano sulle piazze a commerciare i propri prodotti. Non è che vendesse solamente dèrli (ferle), ma anche cesti, cestelli, ferle più piccole, addirittura miniferle, corbelli, panierini di svariatissime fogge, gingilli, giocattoli veri e propri, tutti di vimini e di stecche, anche colorati, per i più imprevedibili usi. Commerciava anche in manici per attrezzi da campagna, rastrelli adattati a tutte le prese e buoni per tutte le occasioni, manici di zappe di vario calibro e per varie operazioni, scuri e accette, còrghi (ripari in legno per i pulcini), scope di corniolo (spassaóre de cornàl) per far la foglia nei boschi o per spazzare la stalla, panieri, stuoie per appoggiare le pignatte...

 

Poi, quando la gente aveva terminato di chiacchierare — perché una volta ci si fermava sulla piazza a chiacchierare — e la piazzetta si svuotava, el derlàr s’infilava nelle braccia ceste e cestelli avanzati, si caricava su una spalla i dèrli, incastrati uno dentro l’altro, a seconda delle loro misure, si assestava bene sull’altra il fascio dei rastrelli e delle scope di corniolo rimastigli, abbozzava un sorriso di soddisfazione per gli affari combinati e, attaccato a quei volumi di legno, di stecche e di manici, come se fosse appeso a un paracadute, ondeggiando per la strada, più che altro per il tormento della fame, tornava alla sua famiglia, lusingato e nello stesso tempo oppresso da ben altri pesi: ma almeno la moglie e i figli per una settimana potevano contare sul pane. E per non far perdere le tracce di questa tradizione, a Selva di Progno, da qualche anno a questa parte, si celebra anche la “Festa del dèrlo”…

 

I marsàri

 

Quando si parla di Velo Veronese e delle sue contrade non si può far a meno di accennare , magari  di sfuggita, a una figura caratteristica di quel paese: un marsàro del tutto speciale, Domenico Bottegal.

 

Ma chi era e che cosa era il marsàro?

 

Si chiamavano con il nome comune di marsari tutti quei venditori ambulanti che, nei tempi passati, periodicamente giravano a vendere qualcosa da una contrada all’altra nei paesi di montagna e da una corte all’altra nei paesi di pianura e di collina. Quel qualcosa lo portavano a schiena, dentro una cassetta a mo’ di tabernacolo, alta un metro o poco più, larga una sessantina di centimetri e con uno spessore che variava da ambulante ad ambulante: la portavano a mo’ di zaino con delle tirache (leggi: bretelle”) che la tenevano aderente alla schiena.

 

Chi vendeva merceria, ed era la maggior parte, si dotava anche di una cassèla più grande, perché il peso da portare era minore e il volume d’ingombro delle merci, maggiore; chi, invece, vendeva altri generi, provvedeva a stabilire le dimensioni della cassèla in base alle proprie forze fisiche e al materiale da trasportare.

 

Commerciavano un po’ di tutto, ma robetta da quattro soldi peraltro, e riempivano fino alla gola, così per dire, ognuno di quei ripiani, distanziati di una quindicina di centimetri l’uno dall’altro. In alto, poi, c’era anche una specie di sporgenza, che soprastava la cassèla vera e propria, dentro ci dovevano stare anche gli “scampoli”, tessuti di vari colori, chiassosi, di poca spesa, di quelli che andavano di moda allora, in un mondo contadino di montagna. E poi anche la merce di baratto.

 

Sì, perché non sempre correva il denaro; talora bisognava pagare in merce e l’unica merce che avevano a disposizione le donne di casa, a quei tempi, erano le uova di gallina. Con le uova, come abbiamo detto altrove, si barattavano farina, formaggio, il petrolio per la lucerna, il tabacco per il capofamiglia, il sale, e inezie varie. Ma in quel cassettone ci dovevano stare anche alcune fette di polenta, infagottate in un tovagliolo, un pezzo di formaggio, di quello pecorino, preferibilmente, che rischiava, a lungo andare, di ammorbare anche gli articoli che il marsàro vendeva.    

 

I marsàri di una volta, oggi, non possiamo far altro che ricordarli, perché ormai sono tutti andati, sono scomparsi. Il tempo, le fatiche, le sofferenze fisiche li hanno relegati a personaggi del passato. Ma le figure del Botegàl da Velo, del Nanéti da Badia Calavena, del Ménego dalla Ferrassa, del Portamadone da Sant’Anna d’Alfaedo, non  potranno mai essere dimenticati da coloro che li hanno visti e che ne serbano una cara memoria per la loro bonomia, la loro serenità di spirito, la fatica e la tribolazione.

Come non potranno dimenticare i careghéti, i parolòti, i selàri, i ombrelari, el strassàro, che, alla pari dei marsàri, anche loro avevano stabilito con le varie famiglie una propria identità e i propri turni di spostamento nel territorio e ognuno, alla pari dei marsàri, ha pure lasciato una propria impronta nei ricordi.

 

I segantìni o rasseghìni  o segàti

 

  I rilevatori inviati sul territorio per inventariare i beni comprati nell’anno 1407 dai signori Verità di Verità di Verona, nell’atto già citato, nel Vajo di Giazza — che allora non era ancora nominata come oggi, ma era dichiarata “Colonnello di Santa Maria di Selva” — elencarono ben cinque “pezze di terra” che avevano altrettante case con “poste da sega”, cioè con segherie per legname. Da ciò si desume che una delle attività immediate dei nuovi coloni che ebbero la ventura di dover scegliersi un maso vicino a un corso d’acqua, dovette essere quella del “segatore” di legname, materiale richiesto a gran voce per le necessità del momento di costruirsi case e altri edifici.

 

Da noi, negli anni passati, operavano a pagamento squadre di segatori di legname da opera, detti “segantini”: erano persone specializzate nel segare il legno o, meglio, i tronchi delle piante, le cosiddette bóre. Si recavano su commissione nei paesi di montagna dove non c’erano le segherie ad acqua, a ridurre i tronchi in tavole da opera (in asse).

 

I segatrónchi a man, vale a dire i segantini, usavano uno speciale segón, detto séga da bóre o anche refendìn, che consisteva in una robusta lama di sega, dotata di grossi denti allicciati (leggermente piegati all’infuori, ora a destra ora a sinistra, sull’asse della lama, per evitare un eccessivo attrito), tenuta ben tesa al centro da due solidi telai di legno (i travèrsi).

Sulle assi trasversali del telaio erano inserite le impugnature per tirare il segón in alto e in basso. Quelle inferiori erano formate da quattro pioli, leggermente inclinati verso l’esterno, della misura giusta di una mano. L’asse superiore, meglio sagomata, era collegata al telaio mediante due impugnature divaricate, perché l’uomo addetto alla funzione di tirare su il segón era uno solo.

 

I segatori collocavano il tronco da segare in posizione inclinata, su di una incastellatura, comunemente detta casteléto o castèl, dell’altezza di un uomo circa, per poter eseguire meglio l’operazione di tirare in giù la sega. Il tronco  precedentemente era stato contrassegnato da cima a fondo da righe rosse che tracciavano lo spessore delle tavole da segare e servivano a indirizzare la lama della sega. Il segantino che stava sopra, con i piedi poggiati, alzava l’attrezzo fino all’altezza della cintola (fase morta, perché non faceva fatica), mentre gli altri due sotto la tiravano in giù con forza producendo così la fase utile del lavoro (la fatica, quindi, la compivano loro, ma era meno gravosa).

 

I segantini più rinomati provenivano dal Trentino o dal Cansiglio. I primi, chiamati col termine di “tirolesi”, erano assai più apprezzati per la perfezione, la competenza e la sveltezza nel lavoro, ma non erano altrettanto ben visti da noi in Veneto, perché si mormorava che “...durante la guerra del 1866 non sempre i Garibaldini avevano raccolto la simpatia delle popolazioni trentine...”. E l’italiano dell’alta Italia era considerato “garibaldino”.

 

Calcare e calcaroti

 

Dalla storia apprendiamo che già nel 1166 i “Consorti del bosco di Zivelonghi a Sant’Anna d’Alfaedo, facevano calcàre, come sta scritto: …ligna incidendo, calcariam et cineres intus facendo….

 

Di solito le calcàre erano costruite a ridosso di un terreno in pendio per risparmiare muri di contenimento troppo grossi e poi per il fatto che il terreno attorno alla calcara mantiene il calore meglio di qualsiasi muro. Il muro si faceva con sassi cosiddetti frassinèi, di colore verde-cenere, più resistenti al calore. I sassi, ben  squadrati e con la faccia rivolta all’interno, venivano posati in malta di calce e sabbia e dovevano avere lo spessore di una cinquantina di centimetri. Ma in certe zone, come a Roveré, i sassi della fornace venivano collocati a secco, cioè senza malta. La parte della calcàra, che non era protetta dal terreno naturale, era rivolta verso la strada o verso la spazio dove si caricava il materiale e dove si sorvegliava anche l’andamento dei lavori nella fornace durante la cottura della calce.

 

La “botte”, così si chiamava lo spazio interno della calcàra, una volta pronta per essere caricata, doveva essere riempita di pietre da cuocere; pietre che si andavano a raccogliere nei dintorni, nelle “ganne”, cosiddette, cioè in quei mucchi di sassi o marogne che si erano formate da sole, perché secondo gli esperti quelle pietre erano le migliori essendosi “maturate” alle intemperie. Le regole imponevano che tra sasso e sasso non ci dovessero essere spazi troppo ampi; per questo i pezzi più grossi andavano disposti attorno alla botte e quelli più piccoli sempre più verso l’interno, verso il centro. Una volta piena la fornace, come copertura si creava una specie di calotta che veniva ricoperta da un leggero strato di malta; ma lungo la circonferenza della calotta si lasciava un bordo libero per permettere l’uscita dei fumi e delle fiamme.

 

Per portare a compimento questo lavoro, che durava più di un mese tra preparazione del materiale e preparazione della calcàra, occorrevano circa 200 quintali di legna in fascine. Appena tutto era pronto per dar fuoco alla calcàra, veniva il prete a benedire il lavoro e ad augurare un buon risultato. Una volta spento il fuoco, la calcara veniva lasciata raffreddare per una settimana. Poi si procedeva al recupero della calce viva e alla vendita.

 

L’industria del freddo

 

Presso Poiano, in Valpantena, in una chiesetta-santuario sono conservati come ex voto alcuni quadretti dipinti ad olio, che riproducono episodi accaduti in seguito a un’invocazione dei fedeli alla Madonna che sarebbe miracolosamente intervenuta a risolvere i problemi della loro salute o addirittura a scamparli dalla morte. In uno di tali quadretti è raffigurato un intervento straordinario della Madonna dell’Altarol, appunto, per salvare un trasportatore di ghiaccio della Lessinia travolto dalla slitta su cui trasportava a valle un lastrone di ghiaccio. Era un giassaról. Chi era e che cosa faceva un giassaról?

 

 La Lessinia, fine dell’Ottocento e primo Novecento, era universalmente considerata, d’inverno, soprattutto come luogo del freddo; d’estate, come luogo dove andar a prendere il “fresco“. I montanari, sempre a corto di risorse per la sopravvivenza, si studiarono di sfruttare il freddo dell’inverno per agevolare coloro che ne avevano bisogno durante l’estate: cioè  chi era obbligato a  vivere nella canicola estiva della pianura: le macellerie, che dovevano conservare fresca la carne, le botteghe di generi alimentari, gli osti, i baristi, i gelatai, i pescatori che dovevano conservare il pesce per qualche tempo nelle barche, i pescivendoli e quanti altri, in definitiva, erano costretti a refrigerare le derrate alimentari, gli ospedali poi, e altre attività per la conservazione delle merci.

 

Per sfruttare questo freddo, inventarono l’”industria del ghiaccio naturale”, contro quella del ghiaccio artificiale, troppo onerosa in quei tempi. Inventarono anzitutto la giassàra. Essa era, come già detto più sopra, un contenitore, a forma di pozzo, scavato nel terreno, murato internamente, dentro il quale, durante l’inverno, si introduceva la neve oppure il ghiaccio, quest’ultimo asportato, giorno dopo giorno, dalla superficie gelata di una vicina pozza d’acqua piovana che, di norma, si abbinava sempre alla giassàra.

 

Si inventò, così, una nuova occupazione, una nuova specializzazione che si affiancava a quella dell’allevatore: el giassaról. Ecco perché in quei tempi, in Lessinia, da parte di coloro che già avevano fatto l’esperienza e l’avevano trovata buona, correva il detto: “Na giassàra mantien ‘na fameja”.

 

I giassarói tenevano continuamente d’occhio le pozze d’acqua piovana. Esse venivano puntualmente pulite tutti gli anni, durante l’estate, prima che cominciassero le piogge e i freddi autunnali ed erano alimentate, in caso di bisogno, con acque delle sorgenti dei dintorni. Ogni mattina poi o, comunque, quando avevano certezza che si era formato un certo spessore di ghiaccio, con degli attrezzi speciali, da loro inventati, contrassegnavano la superficie dello stagno con dei riquadri, solcavano lo spessore con delle scuri  molto affilate, lo tagliavano in lastre regolari lunghe e larghe 80 centimetri, lo spessore, invece, variava in base alla temperatura: se faceva più freddo lo spessore aumentava e viceversa. Ottenevano così dei lastroni di una certa misura che riducevano in prismi maneggevoli per peso e volume, che, una volta tagliati, venivano arpionati e tirati sull’acqua fino al limite della pozza con dei ganci forniti di manici di legno.

 

I blocchi trascinati fin sulla porta della ghiacciaia erano calati sul fondo, dove un giassaról li sistemava a strati coprendoli poi con le foglie raccolte nel bosco o con paglia (ogni strato era detto solàro). Una volta raggiunto l’immagazzinamento voluto, il deposito era coperto da una solida massa isolante costituita da fascine di legna, foglie, pula di frumento e pietre. Poi la ghiacciaia era ermeticamente chiusa in modo da impedire ogni cambiamento di temperatura tra l’esterno e l’interno.

D’estate, i carrettieri, i giassarói del trasporto —un’altra categoria di nuova costituzione — caricavano quei prismi di ghiaccio, li coprivano per bene con lenzuola, sacchi e quant’altro poteva proteggerli dal caldo, e partivano nelle prime ore dopo la mezzanotte con i loro carretti grondanti gocce cercando di raggiungere la città o i paesi dove avevano le loro ”poste” di scarico, prima del levar del sole.

 

Anche i giassarói, come tante altre categorie di lavoratori, ebbero le proprie vittime. Lungo la strada tra Corbiolo e Arzeré, per esempio, si può vedere una massiccia croce in pietra che ricorda un giassaról vittima di un argano sollevatore.

Trattando della giassàra del Grietz avevamo fatto anche una breve rassegna delle giassàre ancora visibili oggi in Lessinia. Ora proponiamo una particolare struttura di tanti anni fa, che fu una giassàra, ma che ora è diventato un museo: il museo dei giassarói, un “Museo ergologico”, vale a dire delle attività umane locali.

 

 

Si trova in contrada Carcereri di Cerro Veronese ed è anticipata da un portico d’ingresso e dalla tradizionale pozza di raccolta delle acque piovane. Vicino al portico si nota subito il tetto circolare che copre la ghiacciaia, spiovente, in pietra, tipico della Lessinia. Si accede all’interno attraverso una scala a chiocciola che scende sul fondo con gradini di pietra conficcati nel muro interno della cisterna. In sintesi è un pozzo profondo sei/sette metri, circolare, costruito in pietra.

 

La giassara di Carcereri una volta era una normale ghiacciaia, come tante altre del luogo e della Lessinia in generale. Poi, negli anni Novanta, l’amministrazione comunale ritenne opportuno e appropriato acquistarla e procedere al suo restauro, proprio con l’obiettivo di non dimenticare una tradizione e di non disperdere queste autentiche testimonianze della vita e delle attività umane dell’Altopiano.

 

Lungo le pareti sono disposti quadri, foto e disegni con relative didascalie che spiegano tutte le fasi del lavoro, della conservazione del ghiaccio, del trasporto a destinazione, delle operazioni, insomma, che i giassarói eseguivano per produrre, conservare e commercializzare il ghiaccio. Dai cartelloni che tappezzano le pareti del museo si potranno ricavare particolarità interessanti sulle abitudini e sul comportamento non solo dei giassarói, ma anche della popolazione comune.

 

Si potrà leggere anche quante giassàre erano state censite nel catasto austriaco in Lessinia: a Corrubio, 4; a Lugo, 1; a Rocca sopra Lugo, 1; a Lughezzano, 3; a Corbiolo, 17; a Valdiporro, 7; a Bosco Chiesanuova, 11; a Cerro, 4 (due a Praole, una a Cercereri, una a Foldruna). Un’altra curiosità:ci si potrà rendere conto di quanto ghiaccio una ditta che faceva il trasporto poteva esportare in un anno:  Giuseppe Prati di Cerro, per esempio, nel 1883 vendette 408 quintali di ghiaccio; Giovanni, detto Bagiuche, nel 1884 ne vendette 503  a 45 centesimi al quintale.

 

La caccia di una volta: gli archéti

 

In Lessinia la caccia era molto in uso e lo Scricciolo, il Reatin o, come si dice in cimbro, il kùnixlja, per sua natura curioso e ficcanaso, era la vittima, insieme col pettirosso, dei cacciatori di frodo di una volta, di quella gente, in altre parole, che preparava trappole e lacci per catturare uccelletti e selvaggina; il tutto per far quadrare i conti con la fame, anzitutto, e poi per accompagnare i magri pasti a base di polenta e…polenta con quel qualcosa d’altro che noi chiamiamo companatico. Un uccelletto allo spiedo, con un pochino di pocio, dava alla polenta, un certo sapore di classe. E gli “artigiani” ce la mettevano tutta per far carniere; realizzavano trappole d’ogni sorta.

 

Le trappole principali, le più comuni, le meno raffinate e più economiche, perché fatte con materie prime che si trovavano in natura, fatta eccezione per la gavéta (spago), erano dette “archeti”. L’archéto si fabbricava con un pollone giovane di noselàro, o ninsolaro, cioè del Nocciolo selvatico (Corylus  avellana, L.) — nel Trentino prende altri nomi: bianèr, bòschi, coelèr, golanér —. I costruttori ne raccoglievano a fasci, poi a casa, di sera, nella stalla durante il filò, dopo la recita del “Rosario”, li sfrondavano, sulla parte più grossa del fusto praticavano un taglio obliquo, come si fa per un innesto di pianta; sull’esterno intagliavano una tacca che doveva servire per appoggiare la ciàve, facevano un foro entro il quale passava la gavéta (spago sottile), piegavano l’archetto a “U”, fissavano la cordicella da un lato e la facevano passare dall’altro capo dell’archetto. E tutto era pronto. O quasi.

 

La ciave era tenuta in bilico dalla tacca; nell’altro capo della ciàve  si infilava un rametto di géolo (l’esca). L’uccelletto attratto dall’esca si posava sulla ciàve per beccarla; la ciàve sotto il peso della bestiola scattava e il laccio della gavéta la catturava per le gambe. Con un centinaio di quelle trappole a spalla, il bracconiere si infilava nei sentieri più battuti del bosco, ogni tanto ne sistemava una con la relativa pàissa (esca), e faceva il giro di quelle già collocate nei giorni precedenti. Ogni tanto, un pettirosso, uno scricciolo, anche qualche merlo, più facilmente qualche tordo (perché sono curiosi anche quelli), penzolava dall’archetto, preso al laccio con una gamba o con tutte e due. E moriva in quelle condizioni.

 

Non è facile capire dalla descrizione che se n’è appena fatta come funzionasse la trappola, l’archéto; ma è meglio che non lo si sappia. Par salvare gli uccelletti, in primo luogo, ma anche i bracconieri. Perché se oggi ne pescano qualcuno, “quello se la cava piuttosto male”.

 

La pértega del pósso

 

Per introdurre questo argomento richiamiamo una malga importante della Lessinia: Lago Boaro dove, nonostante il suo nome “lago”, gli allevatori hanno sempre trovato qualche difficoltà per  l’approvvigionamento d’acqua, anche se nei dintorni, soprattutto sul fondo dei due vaj che affiancano il dosso dove è ubicata, ci sono parecchie pozze d’acqua, raccolta a poco a poco dalle piogge.

 

 Però, Lago Boaro, come qualche altra malga, ha sempre avuto un pozzo che veniva alimentato dalle piogge con un sistema di condotte che una volta erano di legno. Il fusto di una pianta della grossezza di un canale pluviale veniva scavato con la sapóla, tanto da somigliare a un canale vero e proprio che veniva poi collegato alle gronde del tetto dove altri canali, in legno pure essi, raccoglievano le acque e le travasavano, attraverso tale condotta aerea, fino al pozzo. 

 

I pozzi, quando c’erano o quando la gente riusciva a farsene costruire uno, erano scavati nel terreno, nella roccia, per meglio intenderci — perché la Lessinia è tutta roccia — profondi dai cinque ai sei metri, rotondi come un gran barattolo, e venivano ultimati all’esterno con la cosiddetta “vera del posso” e con un coperchio di legno o di ferro, tenuto fermo da un grosso sasso.

 

La vera, dapprima bassa e piatta, a livello del terreno, venne poi perfezionata con l’impianto di un trespolo o cavalletto di ferro, che sosteneva una carrucola, che noi chiamiamo in dialetto sigagnóla, forse per quel caratteristico cigolio che provoca, quello di una ruota non sufficientemente oliata,  quando gira in fase di sollevamento dal fondo dei secchi pieni d’acqua. 

 

Ma, più anticamente — anche a nostra memoria — per attingere più agevolmente acqua dai pozzi di montagna bisognava servirsi di una pèrtega, cioè di una lunga stanga di legno leggera e sottile. Ad un capo v’era fissato un gancio, una specie di moschettone, di quelli che usano i rocciatori per scalare, dentro il quale si agganciava il manico della secchia che si calava nel pozzo e, con una rapido movimento dall’alto, impresso sulla stanga, si faceva in modo che essa si riempisse d’acqua. Seguiva poi l’operazione manuale più comune, ma la più pesante: tirar su il secchio dal pozzo.

 

L’ingegno dell’uomo, però, col maturare dell’esperienza e dei tentativi fatti, ha escogitò un sistema più rapido e meno faticoso: inventò una specie di leva — fino a qualche anno fa se ne vedeva ancora qualcuna in funzione in Lessinia — che poggiava su un perno a livello della vera del pozzo. Era una vera pertica, ecco il perché del suo nome. Alla sua estremità più bassa si attaccavano uno o due sassi che facevano da contrappeso al peso del secchio pieno d’acqua che si doveva sollevare dal fondo; all’altra estremità c’era un moschettone che noi chiamavamo mojéca, cui si agganciava il secchio da calare nel pozzo. Poi con un leggero sforzo sulla parte inferiore della pertica si otteneva l’effetto desiderato con molto minore fatica.

 

Contrà Ongar – pozzo

 

 Un esemplare di grande interesse folklorico, oggi purtroppo demolito, era stato costruito in corte Grossule di San Francesco di Roveré Veronese, tutto in pietra.

 

La “Pietra di Prun”

 

Nell’alta Valpolicella, tra i comuni di Sant’Anna d’Alfaedo e di Fumane, ancora oggi si possono vedere i resti di antiche costruzioni difensive, o meglio, “villaggi fortificati”, dell’Età Neolitica e del Bronzo Medio, disposti strategicamente e collegati a vista tra loro, a scopo di difesa, meglio noti con il nome di “castellieri”. Uno dei primi e il più vistoso di tutti, è il “Castelliere delle Guaite”, dalla località dove è stato rinvenuto. Durante le prime esplorazioni, invece, era venuto alla luce quello di Sottosengia che, disgraziatamente — o maliziosamente — è stato abbattuto per aprire una cava di “Pietra di Prun”. Il castelliere delle Guaite, appunto, (1500 a.C. circa), è stato interamente fabbricato con pietra di Prun.

Cos’è la “Pietra di Prun”? Si tratta di una sorta di lastame o pietra della Lessinia che, per la facilità della sua estrazione, è stata adoperata nell’architettura tradizionale della Lessinia, in special modo, della Lessinia occidentale.

 

Chi non ha notato come sono costruite case e stalle in zona di Sant’Anna, di Prun, di Fosse e anche di altri paesi della Valpolicella?

Se n’è fatto un uso straordinario nel passato ed oggi essa viene rivalutata e adoperata abbondantemente nell’edilizia moderna. Si estrae nelle cave della zona, a cielo aperto, come si dice, soprattutto a Masua, Sottosengia, Botesela, dove é posizionata come se si trattasse di una sovrapposizione di strati; viene detta a gradonatura. In altre parole le cave sono sistemate per loro natura a gradoni, ossia in una serie di strati di lastame, di diverso spessore, di diverso aspetto e di diversa denominazione.

 

Ma non tutti gli strati presentano i requisiti necessari per essere adibiti allo stesso uso. Per esempio quelli denominati Marzeto, Loa, Pelosa, nomi dialettali che gli scavatori hanno dato ad alcuni strati meno smerciabili, non sono proprio del tutto adatti a determinati lavori. Altri, invece, vengono chiamati con dei nomi che ne segnalano il colore: Biancon, Stelar bianco, Rosson, Stelar rosso, Seciàr, Lastre da coèrti sono pietre adatte a far lavandini e tetti di edifici; Lastina, Lastra dopia grossa segnalano lo spessore; Gentil e Mejon la qualità.

 

Il lastame di Prun, come quello delle altre cave della zona, ha reso un sevizio inaspettato anche agli studiosi di fossili. E’, infatti, ricchissimo di foraminiferi planctonici, di stupende ammoniti, anche di diametro notevole, di ricci di mare, di bivalvi e di vertebrati marini. Il Nuovo Museo Paleontologico di Sant’Anna ne raccoglie numerosi esemplari tra i quali, come abbiamo scritto più sopra meritano di essere citati i denti e le vertebre di un enorme squalo marino, scheletri di tartarughe marine e resti fossili di un rettile.