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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Mangiare/curarsi

 

 

“La polenta, sacra fame del pitoco"

 

Quando si parla di bàiti e di alpeggio non si può passar sotto silenzio anche il modo con cui si alimentavano casari, scotóni, mandriani, e quanti altri si dedicavano a vivere per quattro lunghi mesi lassù, fuori del consorzio umano, lontani dalla famiglia, dalla società, soli con le loro vacche e i problemi che esse comportavano. Fanno certamente sorridere e qualche volta addirittura suscitano un po’ di compassione coloro che vanno a chiedere agli abitanti della Lessinia, ai Cimbri della Lessinia, quali erano una volta i piatti caratteristici dei Cimbri. Non v’erano…piatti, in tutti i sensi: né come stoviglia, né come pietanza, vivanda.

 

In un nostro vecchio scritto sui gravi condizionamenti ambientali degli abitanti della Lessinia, ricavati dalle “fedi giurate” dei parroci della Lessinia nella prima metà del Settecento (1749) abbiamo citato le loro testimonianze dalle quali si ricava che essi erano ugualmente scrupolosi, anzitutto, quasi rispettosi nel porre la lettera maiuscola davanti al nome Polenta, ò sia Sorgo Turco; poi tenevano a testimoniare, sotto giuramento, che i loro parrocchiani, ... a risserva di una o due famiglie, che potranno fare il consumo di granada, ò sia segala, di sacchi due, ò tre per cadauna, tutti si alimentano di Polenta, e questa ritratta dalla vendita di Carboni ...

 

La polenta, da quando è stata importata in Europa e fino alla fine del secolo passato, ha tenuto banco sulle tavole dei Cimbri e dei montanari (per non dire di tutti i Veneti). Dino Coltro scrive che alla polenta, «sacra fame del pitoco», sono stati accoppiati cibi altrettanto poveri, altrettanto misurati come quantità, altrettanto comodi da procurarsi, da comprare per pochi soldi o da barattare. Proviamo, dunque, a elencare alcuni tipi di companatico ammessi – meglio, compatibili col risparmio -- che potevano comparire sulle mense di quei tempi e ciò fino agli anni Cinquanta del secolo passato.

 

A quei tempi il primo companatico si ricavava dal maiale. Una famiglia, piccola o grossa che fosse, faceva di tutto, anche sacrifici fisici ed economici, pur di ingrassare un maiale tutto suo, alimentandolo di scòta (siero), che comperava o barattava con il casàro di turno nella contrada, e integrandolo con sfarinati di scarto, patate, ortiche e altro.

 

Seconda opportunità: le patate. Delle patate veniva consumata, per così dire, solo la parte meno utile di una cernita accurata, scrupolosa; cioè quelle piccole o rotte dalla zappa. Tutte le altre venivano selezionate o per far la semenza (soménsa) per l’anno successivo o per essere vendute o barattate con altri generi di prima necessità.

 

Terzo beneficio: le galline. Le galline costituivano la copertura di tante piccole spese per le prime necessità della famiglia che il capofamiglia non aveva alcuna intenzione (o possibilità) di pagare. Le uova, pertanto, diventavano merce pregiata di pagamento e di baratto nello stesso tempo; il sale, il petrolio, i fiammiferi, il tabacco da pipa o da sigarette per il marito, quello da naso per la moglie, fazzoletti, minuteria per biancheria, bottoni, corde, elastici, e via dicendo si acquistavano con il cambio in uova.

 

E i malghesi? Quale era il loro, piatto? I gnochi sbatùi. Oggi sono diventati il piatto forte della cucina tradizionale cimbra; un piatto da valorizzare perché è semplicissimo da preparare e costa pochissimo. Diremo che la denominazione che qualcuno gli ha voluto dare di gnochi smalzài risponde a una brutta maniera di impadronirsi d’una forma dialettale montanara per reclamizzare un prodotto che non è …cittadino. A Erbezzo, in Lessinia occidentale — ma siamo in Lessinia, dove i gnochi sbatùi erano piatto di rito —, ogni anno, il giorno di San Giovanni Battista (24 giugno), si riconquista la tradizione a livello di provincia: i gnocchi sbatti si cucinano e si distribuiscono in piazza.

 

Erbe da …mangiare

 

Da quando in montagna non si falcia più regolarmente il fieno e poi in settembre l’ardiva, il secondo taglio, più noto come “raboso”, sui prati hanno preso il sopravvento altre erbe, talora ottime come alimenti per gli uomini. Un esempio lampante: il “Dente di leone” che noi conosciamo meglio come Pissacan (Taraxacum officinalis, L.).

 

Durante le stagioni estive 2004 e 2005 chi è andato in montagna nei mesi di maggio-luglio ha potuto assistere ad una fioritura di “Pissacani” di straordinaria dimensione; un vero, immenso tappeto giallo oro, che ha coperto, fortunatamente, le piaghe dell’abbandono dei prati. Ormai nessuno più va a raccoglierli in primavera, prima che abbia inizio lo sviluppo floreale e, pertanto, si prendono la … rivincita.

 

 

Tarassachi

 

Il Tarassaco è detto anche brusaòci, radecio de can, castracan; il nome dialettale, poco romantico ma molto espressivo, caratterizza le proprietà diuretica dell’erba. Da noi, in montagna, i primi pissacani si mangiavano crudi, conditi con del lardo che si faceva friggere e poi si spruzzavano di aceto; si garantisce che il boccone è veramente prelibato. Di norma, si mangiano solamente le foglie, ma la parte più importante sarebbe la radice che, comunque, è bene raccogliere nell’autunno avanzato. Qualcuno adopera anche i boccioli dei fiori come fossero i più pregiati capperi (Capparis spinosa, L.). Chi poi volesse raccogliere miele dai fiori durante la fioritura porti le sue arnie là in mezzo ai prati, ne ricaverà un miele amarognolo, ma delicato e benefico.

 

Sui pascoli, attorno alle malghe, e giù nei valloncelli vicini, dove defluiscono i residui della lavorazione del latte e l’acqua di lavaggio degli utensili del bàito, nei prati grassi insomma, ma sempre sopra i 700 metri, si sviluppa una pianta con cespugli bassi ed espansi, dalle foglie farinose, biancastre nella pagina inferiore, e un po’ viscide in quella superiore. È il Chenopodium bonus Henricus, che i Cimbri conoscono meglio col nome di Kraut, ma che si può tradurre con “Spinacio selvatico”; un’erba eccellente, come dice il suo nome scientifico, sotto tutti i punti di vista, soprattutto quello culinario. È uno dei primi e principali alimenti di cui si sono cibati i nostri antichi antenati, dall’uomo delle caverne in poi. È detto anche caltri, farinèi, peche de oca per la forma delle foglie e per la polvere che le distingue. Saporito contorno, molto indicato anche nella preparazione dei risotti. Il Mattioli, famoso medico e botanico del XIV secolo, ne prescriveva l’uso come cataplasma nelle malattie della pelle. Un’usanza del tutto particolare: le donne delle famiglie di una volta  riducevano in lisciva di cenere il Buon Enrico e lo usavano per fare il bucato.

 

Tortèlo … con contorno di erbe

 

Il tortèlo non era che una focaccia impastata con farina di frumento,  un po’ di farina di polenta e col secondo latte munto da una vacca primaróla, che aveva partorito cioè per la prima volta.

 

Andava cotta, come si usava una volta, sotto el fornéto. Il fornéto era una specie di coperchio circolare (covèrcio), lo chiamano in Val Leogra; coèrciolo e anche cuèrciol in Lessinia) del diametro di circa 30/35 centimetri, con i bordi alti una diecina, che si poneva capovolto sul letto caldo del focolare (che era fatto di mattoni) e si circondava e copriva di braci ardenti e di cenere pure calda per mantenere a lungo il calore.

 

Non sapremmo spiegare che sapore aveva, perché nella nostra memoria non riusciamo a rintracciare un momento dell’assaggio. Sappiamo però, per averlo sentito dire, che si trattava di un boccone prelibato.

Tutti coloro che partecipavano alla ripartizione del tortèlo, a cottura avvenuta, procuravano di non lasciarne cadere neppure una briciola. Sappiamo che in certe famiglie di un tempo piuttosto lontano, dove la fame imperava più forte, una briciola di pane o di focaccia caduta per terra veniva religiosamente raccolta e baciata. Perché?

Si diceva che il Signore, per insegnare che il pane era sacro, una volta fosse sceso da cavallo per raccogliere un granello di frumento e lo avesse baciato.

 

Una fetta di tortèlo in mano o di fugàssa e via a giocare e anche a mangiar qualche erba buona. Noi ragazzi durante le ore in cui si andava a giocare a ciupascóndi, ai quatro cantoni, a la màre, ai sasséti, a le pice, all‘uomo nero e via dicendo, oppure quando si portavano a pascolare gli animali, mangiucchiavamo, perché erano a portata di mano e con costavano niente, le cotémpre o contànfri o ancora konkànfara, le kotémparn, in cimbro, che gli erboristi chiamano col nome di “Acetosella”, oppure “Romice” (Rumex acetosa), un’erba conosciuta dai ragazzi per il sapore acidulo del suo gambo e delle sue foglie.

 

A tal proposito: non avete mai sentito in quante maniere viene chiamata la cotémpra nelle Tre Venezie? Vediamone solo alcune: pan e vin, pan cot, pan de cuco, bambuch, pancuco, pam de oro, pan usel, pan e vin de Sioredio, pan del ciel, pan de le cióle (cornacchie), pan de osei, papaciùch de grole, cuco de grola, pan de la Madona, panati, pan de cucùch, agréte, papacèi.

 

Una particolarità interessante: un modo di utilizzare il Pancuco da parte delle popolazioni più povere dei tempi passati ce lo fa conoscere Fernando Zampiva: «Oggi questa malerba è perseguitata e invisa a dismisura, perché contiene ossalato di potassa, in dose piuttosto elevata, e l’ossalato viene impiegato nell’industria come colorante; quindi è nocivo». Una scorpacciata di Acetosella o di Pancuco, in cimbro kukepróat (Oxalis acetosella, L.), a detta di chi l’ha  provata sulla propria pelle, provoca dissenteria e febbre.

 

Ma non si deve dimenticare che, prima dell’arrivo della patata e dei fagioli, i nostri avi la raccoglievano per sfamarsi. Meglio, quindi, non abusarne.

 

Erbe per medicare

 

Una volta quando ci si ammalava si ricorreva al medico, là dove c’era un medico, o altrimenti al spessiàl, al farmacista che, il più delle volte, ne sapeva più del medico. Chi entrava in una farmacia di un tempo era subito colpito da una serie di vasi e vasetti, in bell’ordine sulle scaffalature, con tanto di cartellini sopra, che indicavano quali erbe conteneva ogni vasetto. In altre parole ci si curava con le erbe. E al di fuori dei medici e dei spessiai, perché non erano molto tollerati, c’erano i botanici, o meglio, come li chiamava il popolo, i potànici, coloro cioè che se ne intendevano dell’uso delle erbe, tante volte più degli stessi farmacisti e degli stessi medici.

 

Chi non ha sentito parlare del “Prete de Sprea”, del “Prete de le erbe”? Era conoscitore delle erbe del suo paese e un valido “terapeuta”, un guaritore che usava le erbe come elementi curativi per tante malattie e andò famoso in tutta l’Italia Settentrionale per i successi che ottenne con le due ricette. Prendiamone qualcuna a dimostrazione dei suoi benefici effetti.

 

La Bardana, Arctium lappa, L., che noi Veneti chiamiamo Sbardanàssa, oltre al fatto che i cercatori di bogòni, (chiocciole) ne raccoglievano le larghe foglie per alimentare quelle bestioline, è assai interessante dal punto di vista terapeutico: le foglie e le radici contengono diversi principi attivi, per cui un decotto di bardana ha azione diuretica e depurativa. Un cataplasma (impiastro) di foglie — e questo è un consiglio per le donne — bollite nel latte, diventa un ottimo rimedio per la bellezza delle pelle.

 

Durante i mesi estivi chi va per le strade tra i prati di montagna potrà vedere cespugli di una pianta alta trenta/quaranta centimetri con delle infiorescenze sulla cima, di color giallo intenso; è l’Iperico (Hypericum perforatum, L.), più noto con i nomi di Erba sbusa, Sperunco, Pilatro, Erba trona, Erba di San Giovanni. Effettivamente la fioritura avviene verso la fine di giugno in prossimità della festa (il 25) del santo e del solstizio d’estate.

 

Sono numerosissime le virtù medicamentose attribuite a questo vegetale. Nella medicina popolare è stato usato come antiflogistico, contro i reumatismi, l’artrite, la sciatica. Ma ancora oggi si notano raccoglitori dei suoi fiori per fare il noto “Olio rosso di Iperico”, che si adopera contro le scottature solari, le emorroidi, i foruncoli e come lenitivo nei dolori reumatici.

 

Una volta, quando noi ragazzini non avevamo tanta voglia di andare a scuola, si ricorreva a un “espediente” prodigioso… per un giorno: si cavava un bulbo di Colchico (Crocus albiflorus, L.), quel fiorellino che spunta per primo nei prati di montagna appena si scioglie la neve, lo pestavamo sopra un sasso e poi lo si metteva tra l’elastico della calza e la pelle. Per la mattina dopo veniva la febbre e si formava una grossa vescica tanto che i genitori, preoccupati, ci tenevano a casa per quel giorno. Ma poi, quando si scopriva il trucco, le cose cambiavano tono. Le stesse vacche non mangiavano la sua erba e i contadini in primavera facevano di tutto per estirparla. Era velenosa tanto che si portava dietro i nomi di Strangola preti, Lumi da morto, Fior de la brosa e anche Kuatuten  (cimbro).

 

Quando si giunge al colle dove insiste la malga Bocca di Selva e si fa per passare al di là dell’arco che segna la partenza per la “Translessinia”, si potrà osservare che la strada di accesso è segnalata, parte per parte, da una successione uniforme, a tipo di siepe, di piante di “Medemaistro”, o “Menego maestro”, come lo chiama più semplicemente la gente di montagna, la pianta dell’Assenzio. Per infiorare così una strada di pietra viva come quella sarà stata  una risoluzione voluta oppure un fatto naturale? 

 

Il “menegomaistro”, detto anche “sensolo, “ménego mistro”, “bonmaistro”, e “mirno” fa parte della grande famiglia delle “Composite”. Vive benissimo sui monti, viene coltivato negli orti e lo si trova inselvatichito nei pressi di abitati, dove la gente non l’ha estirpato. Si presenta come un cespuglio e può raggiungere anche un metro di altezza là dove il terreno è più favorevole. 

 

Tutta la pianta ha sapore molto amaro ed emana un forte odore aromatico tanto da impregnare persino l’aria nelle ore più calde. È erba medicinale conosciuta fin dall’antichità e di grande uso popolare, tanto che nel passato era ritenuto il sancta sanctorum delle erbe e come tale era usato per vari impieghi: come medicinale, come digestivo, come aperitivo, come febbrifugo, come antireumatico, vermifugo, emmenagogo.

 

Veniva adoperato per disinfettare le stanze dei malati, le stalle, i pollai. Il nome “ménego maistro”, infatti vuol dire «medico maestro». È ricordato nella Bibbia. Fresco, produce un succo che strofinato sulla pelle ha la facoltà di tener lontano mosche e insetti fastidiosi.

 

Funghi d’autunno

 

Andar in Lessinia d’autunno vuol dire non solo gustare la serenità e la calma che fanno seguito all’estate frastornante del viavai, ma anche associare l’utile al dilettevole; in questo caso il piacevole è il paesaggio che già si colora delle più belle tinte della stagione; l’utile si identifica nel trovare ancora gli ultimi “fiori” mangerecci della natura: i funghi.

 

I cercatori meno avveduti probabilmente avranno già riposto ceste, sacchetti, gambali e attrezzi vari e si saranno messi in attesa di tempi migliori per riprendere daccapo la ricerca di funghi. Ma, per chi ancora non lo sapesse, l’autunno assieme alla tarda estate e fino al margine dell’inverno, è tempo di raccolta abbondante e di qualità eccellente. Durante l’estate, quando tutti vanno in ferie, o strapazzano i giorni del riposo estivo, con giornate di marce forzate e deprimenti, i prati e i boschi si popolano di quelle specie di funghi che tutti ormai conoscono ad occhio e che tutti, quindi, tengono sotto controllo nello sviluppo e nell’ubicazione.

 

L’autunno, invece, oltre a presentare quasi sempre le medesime qualità di funghi dell’estate, ci offre con generosità una grande varietà di quelli che con il caldo non possono vegetare e che sono altrettanto eccellenti ed abbondanti, senza dimenticare il re dei funghi autunnali: il “Prataiolo maggiore” (Psalliota arvensis) detto anche “Mandrian” con il suo immenso cappello.

 

Il “Prataiolo” o “Igroforo dei prati” (Higrophorus marzuolus), fungo primaverile, ritorna ancora puntualmente dopo le prime piogge settembrine. Le “Russule” e i “Verdoni” (Russula lutacea e virescens) continuano indisturbate ad occhieggiare ai bordi dei boschi. Le delicate (Amaniti vaginate) dette “Bubboline, “Sbrissiaroi”, si presentano in famiglie numerose nei luoghi ombrosi e nei prati a tramontana.

 

Ricompaiono per l’ennesima volta i vari tipi di “Porcini dell’estate” (Boletus trachipus; Boletus granulatus, Boletus pinicola e altri). Nei prati, dopo il taglio della cosiddetta “ardiva” (il raboso) compaiono gonfie e turgide le “Morchelle” o anche “Sponziole” (Morchella rotonda) ottime per far certe frittate, e anche i cosiddetti “Cerchi delle streghe”, colonie semicircolari di “Chiodini” o “Gambesecche” (Marasmius oreades). Sui pascoli alpini, le cosiddette “montagne”, tornano, anche se in quantità minore, il “Porcino nero”, il “Porcino elegante”, il “Boleto giallo”, il “Porcinello”, tutti della famiglia Boletus, e le Armillaria mellea, simili ad un chiodo, detti anche erroneamente “Chiodini” o “Famigliola buona” che si sviluppano sulle ceppaie marcescenti. E non sarebbe finita. Ma lo lasciamo al lettore il gusto di scoprire altri funghi autunnali, tutti di squisito sapore.

 

Ciclamini  e  “Monte Veronese”

 

Il Comune di Erbezzo, dal primo dopoguerra in avanti, ha adottato uno stemma comunale, unico, crediamo, nel suo genere, ma significativo in quanto a valore floristico-botanico: un cestello contenente dei ciclamini, incluso in un esagono regolare, contornato da due festoni di alloro. Questo perché, come abbiamo scritto in altra parte, durante la guerra sono andati distrutti gli antichi stemmi e simbologie e perciò fu d’obbligo trovarne uno nuovo. Il precedente era abbastanza simile, ma con delle comuni erbe di prato — per ricordare forse il toponimo Erbezzo — al posto dei ciclamini.

 

Chi ha proposto quello nuovo con la sostituzione dell’erba con i più gentili e profumati fiori di montagna, chiaramente doveva avere un’anima sensibile e poetica, attenta alla Natura e alle sue espressioni.

 

Non poteva essere un “cimbro”, di quelli di una volta, realistici e spigolosi com’erano per natura quei montanari. Un cimbro avrebbe preferito un qualcosa di più concreto per rappresentare le prerogative del suo ambiente: un bovino, un formaggio, per esempio. Ed avrebbe fatto probabilmente una scelta azzeccata considerando che oggi il formaggio, appunto, costituisce uno degli obiettivi di maggior rilievo delle varie manifestazioni folkloritico-culturali che la comunità erbezzina ha ideato e organizzato dal dopoguerra in poi per far conoscere il posto e i suoi prodotti.

 

E a proposito di prodotti locali, Erbezzo, per tener fede appunto ai suoi elementi distintivi, ha trovato modo di celebrare un importante prodotto della più antica attività lavorativa del “malgaro”, dell’allevatore, del contadino di montagna: il formaggio. I “Cimbri” che sono venuti a sistemarsi sulle montagne del Vicentino prima, del Veronese poi, quasi al termine della loro odissea storica e umana, sono riusciti a realizzare e a lanciare anche una geniale forma economica locale, unica e irripetibile: nell’Altopiano dei Sette Comuni, hanno inventato il formaggio Asiago”, in quello dei Tredici Comuni, hanno fabbricato, in competizione di gusto e di commercializzazione, il “Monte Veronese”, che ultimamente ha ottenuto il marchio doc.

 

Da alcuni anni in qua esso viene pubblicizzato egregiamente con una manifestazione fieristica ufficiale. Dal 1990, infatti, l’ultima domenica di maggio, Erbezzo offre all’escursionista, al turista, all’habitué del fine settimana, ai Veronesi e agli amatori del formaggio: “La Festa del Formaggio Monte Veronese”.

 

Con l’istituzione della “Festa del Formaggio Monte Veronese” è stata costituita, in memoria della duecentesca corporazione dell’ ”Antica Arte dei Formaggeri della Lessinia”, una libera confraternita di persone amanti del formaggio e dell’arte casearia che si propone: a) di mantenere e sviluppare le tradizioni casearie; b) di unificare le energie e gli sforzi per valorizzare i prodotti tipici delle Lessinia; c) avviare contatti e intese con analoghe istituzioni nazionali ed estere per estendere sentimenti di fraternità e di cooperazione; d) patrocinare manifestazioni e convegni ad hoc in Lessinia. L’ordine è composto da “Cavalieri”, “Mastri casari” e “Consorti”.