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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Personaggi/Storie

 

La chiesetta di Gonzo

 

Questa storia l’ha riferita al maestro Falezza un anziano abitante di Gonzo: «.. Eravamo poco dopo la fine dell’ultima guerra e nel giro di un paio di settimane nella contrada erano morte due persone a causa di incidenti stradali. Si può immaginare l’atmosfera che c’era.

 

Ad un certo punto le donne cominciarono a dire che di notte si sentivano delle voci, dei lamenti. Poi un poco alla volta se ne accorsero anche tutti gli altri. Spaventati decisero di recarsi a Badia a chiedere al parroco di andare a benedire la contrada per far ritornare in pace quelle povere anime. A piedi scesero per quella strada che era quasi un sentiero e convinsero il sacerdote a risalirla con loro per dare la benedizione.

 

Ma dopo poco le voci ripresero come prima. Allora, ancora più spaventati, tornarono a chiedere aiuto al prete che tornò a benedire; ma dopo poco di nuovo lamenti e rumori.

 

Per la terza volta scesero a Badia ma il parroco, che forse era stanco di quelle camminate faticose e inutili, disse loro che i rumori sarebbero cessati se in tre mesi, si era in Aprile, avessero costruito una chiesetta.

 

Lavorarono tutti, compresi vecchi e bambini, giorno e notte, perché c’erano anche i campi e le bestie da curare. Di notte, a causa della stanchezza, ognuno dormiva sfinito e così quando il parroco andò ad inaugurare il piccolo edificio nessuno  sentiva più  voci o lamenti che da quel momento scomparvero del tutto.

 

Per qualche anno, quasi ogni domenica, un prete si recava a celebrare la messa a Gonzo; poi uno della contrada acquistò un trattore e con quello portava tutta la gente a Badia; così la chiesetta non venne più usata».

 

La Madona de Arbédo

 

Una volta di santi, di quelli veri in carne e ossa, ce n’erano di più che adesso e chi scrive si chiama fortunato perché ha avuto modo di conoscerne una diecina. Vuole però togliere anche, e subito, qualsiasi erronea interpretazione delle sue parole: ha conosciuto, cioè, in un paese di montagna povero e dimenticato, vorrei quasi dire, anche da Dio, donne, povere donne, uomini, poveri uomini, che hanno tribolato tutta la vita per allevare i figli e dar loro da mangiare nella più squallida indigenza e nell’affanno, sempre ugualmente grati a Dio e ai Santi. Questi sono i santi che ha conosciuto.     

 

Non ha conosciuto, invece, quella santa degli anni Cinquanta di un paese giù della Bassa Veronese che ha messo a soqquadro mezza Italia settentrionale per i suoi miracoli (?), perché ha potuto assodare, a distanza, che si è trattato di un inganno bell’e buono; un brutto episodio che è sembrato una carnevalata, un pasticciaccio per la Chiesa e per la gente stessa.   

 

Come non ha potuto vedere ciò che è successo ai tempi della Madona de Arbédo, altro fenomeno di raggiro dei sentimenti religiosi popolari, che si rivelò, dunque, un’ennesima inaudita impostura, una truffa alla buona fede, che lasciò interdetti quanti ebbero a vivere quei momenti. Ricaviamo, infatti, da don Daniele Bonomi, parroco di Velo Veronese a quell’epoca, alcuni dati da una sua cronaca personale.

 

«Accadde alla fine dell’Ottocento, ad Erbezzo, poco lontano dalla contrada Ragazzini, in una piccola valletta a prato, con qualche pianta qua e là, c’era una piccola roccia con una spaccatura nella quale — dicevano — appariva la Madonna.  La notizia si divulgò e da ogni parte dell’alta Italia, dal Mantovano e anche dal Trentino, accorsero sul posto numerosissimi fedeli e curiosi tanto che quella valletta era piena di gente notte e giorno; si parlava di sette, ottomila persone. Anch’io ci andai personalmente a rendermi conto e… quando arrivai alla roccia e dopo aver fatto le mie prime osservazioni, me ne sono partito e più non vi sono ritornato».

 

Le cosiddette “apparizioni” avevano promosso un interesse anche pecuniario talmente elevato che, come dice don Bonomi, «l’ apparizione di lì a poco tempo si fece vedere anche a Velo, Roveré, Bosco, Selva, Saline … e  sulle spalle  di Tizio e di Caio e perfino nei letamai e nelle mondizie…».

 

Un’altra versione dei fatti l’ebbe a rilasciare, proprio nel 1871, don Alberto Sughi, della Curia di Verona, che andò ad Erbezzo su invito del parroco don Cristiano Zocca per rendersi conto delle apparizioni e darne nota poi alla Curia. Estrapoliamo alcuni brani della sua visita: «…Arrivato sul posto vi rimasi fuor misura mortificato. Sopra il macigno sporgente dal monte una giovane  sui venticinque anni che intesi esser di Cerna. Quella faceva atti gesti contorcimenti scorrerie che a me, ben lungi dal recarmi buona impressione, me la facevano assai cattiva… sembrava una forsennata soprattutto perché si metteva in maniera affatto indecente… e affatto scandalosa… Quelli che stavano in basso d’attorno a quel sasso dovevano certamente chiudere gli occhi se non volevano rimanere feriti dal pudore…». 

 

Don Alberto Benedetti, infine, ha raccolto un inno che andava cantato sull’aria di Adeste fideles. Ecco, ad esempio, la prima strofa. Corémo fedeli / sui monti d’Arbédo/ se anca l’è fredo/ Maria saludar.

 

Bertoldo…di Camporotondo?

 

Nelle pagine precedenti abbiamo tentato di descrivere i vari insediamenti della Lessinia, come luoghi produttivi di attività umane, per far capire un’attività secolare dei montanari. In questo capitolo invece tratteremo di una zona nei pressi di Roveré per un certo interesse culturale che essa sta suscitando in questi giorni e che va al di là degli aspetti, pur interessanti e singolari, dell’economia, del folkore e dell’ambiente.

 

Si tratta di Campo Rotondo (oppure Camporotondo). Un documento del 1396, citato da C. Cipolla, riferisce: «Come s’è detto Camporotondo è una montagna che il monastero di Santa Maria in Organo aveva concessa al Bergamasco Fermo del fu Giacomo di Gandino, fu cessata 29 maggio 1396. Detta montagna, con Campesello, fu affittata il 22 e 27 maggio 1397 ad alcuni veronesi».

 

Attilio Benetti di Camposilvano, sta conducendo da alcuni anni una campagna di  ricerca, di sensibilizzazione e di informazione storica e letteraria sulla personalità e la vita del famoso Bertoldo, buffone e giullare della Lessinia, finito alla corte di re Alboino di Verona e descritto da Giulio Cesare Croce. Sembrerebbe che Bertoldo, appunto, fosse nato nei pressi dei  Parpari e, precisamente, come insiste il Nostro, nei fondi dei Pàrpari, in quel di Camporotondo.

 

Benetti afferma di aver scoperto i ruderi di una vecchia abitazione, denominata Casa de le Butèle, sulla quale ha raccolto una “storia” singolare, e conferma tale scoperta con una testimonianza davvero straordinaria: quando la Guardia Forestale alcuni anni fa effettuò lavori di spietramento della “montagna”, come abitualmente si fa ogni tanto per liberare il pascolo dalle pietre e renderlo più appetibile ai bovini, proprio sul luogo dove la gente collocava la cosiddetta Casa de le Butèle, detta anche Caseta de Bertoldo furono trovati resti di un’abitazione crollata da parecchio tempo.  

   

Benetti ha immediatamente fatto conoscere il ritrovamento alla sua associazione culturale, l’”Accademia della Lessinia”, ed ha lanciato alcune proposte operative: costituire, anzitutto, un gruppo di lavoro determinato ad esaminare e ad approfondire il tema: rintracciare, poi, tutti gli elementi utili per arrivare a dar vita letteraria alla vicenda del famoso giullare; eseguire lavori di bonifica del luogo per trovare e mettere in luce i resti della cosiddetta “Casa di Bertoldo” e, infine, raccoglier fondi per la sua ricostruzione e per una promozione turistico-culturale.

 

Ci sono, peraltro, differenti opinioni circa la provenienza del Bertoldo. A Roveré c’è la contrada Bertoldi dalla quale sembrerebbe essere partito il montanaro dal cervello fine per cercar fortuna e in contrada Bertoldi c’è una casa, quasi completamente crollata, che la gente afferma con sicurezza esser stata  la casa di Bertoldo. Anche l’autore del libro «Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, Giulio Cesare Croce, sembra sia oriundo di Velo Veronese, della contrada Croce, per la precisione. Versioni differenti vogliono Bertoldo esule dalla Val d’Illasi, da Sprea di Badia Calavena, forse. Perché?

 

Si racconta che egli morì alla corte di Alboino per non aver potuto mangiar rape e fagioli, come nella sua terra d’origine. E Sprea è famosa proprio per questi due prodotti della terra: rape e fagioli. Tanto che un detto popolare dice “Ravari da Sprea” i suoi abitanti.

 

Il castello di Tregnago e la guerra dei confini

 

Il castello di Tregnago è uno dei tre manieri in Val d’Illasi. Più a sud c’è quello di Illasi, famoso per la tragica storia di Ginevra Serego, moglie di Girolamo Pompei, più a Nord quello di Cogollo, di cui non rimangono che le rovine seppellite dal tempo e dalle intemperie. Ce n’era anche un altro, quello costruito dal vescovo di Verona, Valterio, sul Monte di San Pietro di Badia Calavena, come luogo di protezione per animali e persone che fuggivano di fronte alle invasioni barbariche. Esso, come abbiamo scritto in altra parte, rovinò nel terremoto del 1117 e  sulle sue rovine fu costruito il monastero dei benedettini.

 

Quello di Tregnago, per tornare al nostro discorso, sembra che sia stato donato dagli Scaligeri alla comunità del luogo, ma che esistesse già da tempo e che Cansignorio abbia obbligato il comune di Tregnago a farvi alcune modifiche. A parte tutto ciò, nel 1507 scoppiò una lite tra i comuni di Tregnago e di san Giovanni Ilarione, a quel tempo comune in provincia di Verona, per dei confini sul Monte Bellocca. I vari contendenti si affrontarono e si arrivò dalle rappresaglie a veri e propri scontri armati e a fatti di sangue.

 

Nel maggio 1507 alcuni Tregnaghesi si armarono di tutto punto e decisero di affrontare in campo aperto i Sangiovannesi che avevano osato tagliare e saccheggiare le loro biade, ancora immature, nella conca a nord della Bellocca, nota col toponimo di Braganzolo. La comunità di San Giovanni, a questo punto, denunciò l’operato dei Tregnaghesi e per confermare che faceva sul serio, ne trattenne prigionieri due. Non solo, ma un mese più tardi, un impulsivo gruppo di San Giovanni decise una spedizione punitiva contro i Tregnaghesi; costoro li accolsero con altrettanta aggressività uccidendo, durante lo scontro, il loro capitano e un soldato e facendo prigionieri diversi avversari. I prigionieri furono rinchiusi nelle carceri del castello e gli altri furono messi in fuga. Una cronaca dell’epoca recita: «I Tregnaghesi portarono via le vacche ai loro avversari e ritrattisi nel castello, per starsene con maggior sicurezza, ne imbandirono un omerico banchetto per tutta la comunità… I Tregnaghesi fecero diversi prigionieri che rinchiusero nel castello e riconfortarono con pane e vino…».

 

Il fatto d’arme fu denunciato al tribunale di Verona e si iniziarono così due processi: uno a Vicenza per i danni subiti dalle biade e un altro a Verona per i farti d’arme; i due processi si conclusero nel 1509 e per l’occasione fu piantato sul vecchio confine comunale e provinciale (perché San Giovanni Ilarione allora era diventato provincia di Vicenza) un termine in pietra, alto come una persona, fatto a forma di prisma. Ultimamente il confine è fatto oggetto di un incontro escursionistico e festaiolo una volta all’anno.

 

Un fatto di sangue

 

Nelle vicinanze delle malghe Malera, a sera, al di là del Vajo di Squaranto, si incontra una malga che per la curiosità del suo nome una volta veniva presa a far da rima ad una “Requiem aeternam” popolare che recitava: Requie meterna, su par Baderna, dò par Campegno, requie de legno. Così come tante altre preghiere venivano storpiate tanto per canzonare, magari senza malizia alcuna.

 

Ma Bazerna è citata anche per una morte violenta. Presso malga Bazerna, infatti, probabilmente per una azione di contrabbando, fu registrato un fatto scellerato e inquietante. Lo trovo tra le notizie in calce relative ad un atto di morte registrato dal parroco di Campofontana nel libro dei morti dell’8 giugno 1749.

 

Ecco la nota: «Gioseppe filio q. Cristiano Pelloso d’ettà anni 28 fu questo dì a hora 20 circa, assieme con compagno, assalito da quatro assassini che si credono soldati fugitivi, nel sitto della Valletta della Montagna Bazerna, sopra Lessini, di ragion della Nob.ma Compagnia dei Cavalieri di Verona, e fu ammazzato con diversi colpi d’arma da taglio, e le ferite furono una scolata nella fronte, cinque colpi nella schena, aperta la panza, ed infatti morì senza sacramenti…».

 

Nei pressi di malga Camporotondo, poi, vicino al luogo che la tradizione orale vuole identificare come la casa del famoso astuto montanaro Bertoldo, sempre legata al fenomeno del contrabbando, si incontra un’altra stele funeraria, che denuncia un ennesimo fatto doloroso, con la seguente epigrafe:  LI 20 MARZO 1869 PIETRO DAL BOSCO DI GIO E LUCCHI DOM.CA DI GIAZZA PARTITO DALLE RIVE DI PERI QUI MORÌ DA VENTO E NEVE SOFOCATO  FU TROVATO LI 13 APRILE PREG° REO°ALL’AN. SUA.     

 

 

 

La giassàra della Madda

 

Si dice che una volta anche la Lessinia era piena di lupi. Infatti, sono molti i toponimi che ricordano la presenza dei lupi, come El séngio dei lovi a Campofontana, ….

 

Attilio Benetti nel suo libro “I racconti dei filò dei Monti Lessini” narra, tra le altre “storie”, anche questa. Nel Vajo de le Strasse, una valletta che scende verso sera dal Monte Bellocca (oggi meglio noto come Pàparech), si possono scorgere ancora i ruderi di due vecchi edifici rurali che il toponimo locale indica con i nomi di Bàiti vèci; essi sarebbero stati costruiti con i materiali di demolizione di una casa e di una stalla abitate fino a circa duecento anni fa. E, giù nel fondovalle, c’era anche la ghiacciaia che la tradizione ancor oggi indica come la Giassàra de la Madda, perché in essa trovò rifugio una ragazza di nome Madda (probabilmente Maddalena), durante l’assalto di un branco di lupi.

 

Era il mese di gennaio e le tormente di neve non cessavano. Una sera un lupo affamato, col suo urlo lamentoso, chiamò a raccolta i compagni per un’incursione alla ricerca di carogne di animali.  Succedeva che i mandriani, quando qualche bestia moriva di malattia per cui non potevano mettere in salvo la carne, la lasciavano insepolta sulla neve e, per sbarazzarsene più velocemente, imitavano l’ululato dei lupi quasi ad invitarli a scendere a mangiarla.

 

Così fece uno di loro, una sera. Aiutato dalla figliola, prese la carogna, la trascinò qualche centinaio di metri lontano dalla malga; poi si ritirò nella sua abitazione credendo che la figlia lo avesse seguito.

 

Quando poi spense la torcia, che aveva acceso per tener lontano i lupi, si accorse che la figlia non era in casa. Allora, munito di un’altra torcia, si diede a cercarla, finché non sentì una specie di richiamo che proveniva come dal fondo di un pozzo. La ragazza, sotto la minaccia dei lupi, aveva preferito salvarsi scendendo con una scala in fondo alla ghiacciaia. Uno dei lupi, il più famelico, tentò anche lui di scendere, ma la scala lo tradì e cadde sul fondo senza riuscire poi a risalire; la scala non serviva a un lupo. Madda si salvò tenendosi aggrappata a essa, risalendola, gradino dopo gradino, fino allo sportello dell’uscita dove l’attendeva il padre.

 

In Scheffar ‘un dar Pitarouje (Il pastore della Malga Pigaroletto)

 

Sul bordo estremo orientale della Lessinia, in territorio di Selva di Progno, s’incontra Pigarolétto,un’altra piccola “montagna”, di poco conto, sia come superficie sia come carico di bestiame. Anche questa malga una volta era caricata di bovini, pochi però, perché la montagna è piccola, ma in compenso è comoda; quindi ricercata da chi, soprattutto, abitava in Val d’Illasi.

 

Ma fino all’Ottocento inoltrato Pigarolétto era caricata con pecore. E, come in tutta la Lessinia, anche Pigarolétto era infestata dai lupi. Sentite cosa raccontava “El Giaio”, cioè Biagio Dal Bosco di Giazza.

 

«C’era una volta un povero pastore che andava in giro sui monti di Pigarolétto col suo gregge. Un giorno dopo aver attraversato il grande bosco delle Gozze, si accorse che gli mancava un agnello. Lasciò il gregge, lo riparò sotto una roccia e andò in cerca dell’agnello. Cercò e cercò e dopo un po’ di tempo trovò un fiocco di lana, poi un altro batuffolo e, infine, vide tracce di sangue; arrivò, così affannato, davanti ad una tana molto profonda.

 

Introdusse il bastone e graffiò a lungo l’interno per accertarsi se c’era o no l’agnello. C’erano, invece, due giovani lupi affamati che aspettavano la madre. Allora, per vendicarsi, col suo lungo bastone tanto fece che riuscì a far uscire i due lupacchiotti e se li portò via. Durante la notte, però, la lupa, aggirandosi nei dintorni, localizzò i suoi figli e si mise a ululare davanti al recinto delle pecore. La moglie del pastore, ebbe paura soprattutto per le sue pecore e per i suoi bambini e, aperta la porta, lasciò liberi i lupacchiotti.

 

Il marito stette ad osservare come si comportava la lupa che se ne andava con i suoi figlioli e pensò che una notte o l’altra sarebbe tornata a vendicarsi e avrebbe potuto sbranare le sue pecore. Pensò allora di tutelarsi. Da quel giorno in poi, durante la notte tenne accesi dei fuochi attorno al bàito, per spaventare il lupo e tenerlo lontano.  E il lupo non si fece più vedere.»

 

L’ultimo eremita della Lessinia

 

La chiesa di San Giovanni in Loffa annovera, nella sua lunga storia, anche la presenza di vari eremiti, per la maggior parte povera gente, che aveva trovato rifugio presso l’oratorio con il compito di badare alla sua pulizia e alla sua manutenzione. La regola voleva che il custode fosse obbligato ad abitare durante tutto l’anno nella casa annessa alla chiesa, fatta eccezione per i mesi di dicembre, gennaio e febbraio, e doveva suonare l’Avemaria mattina e sera e arrangiarsi a procurarsi il cibo.

 

Per trovare di che vivere era costretto ad andare alla cerca solo di giorno nelle contrade lontane, un po’ come facevano gli eremiti prima del 1630, come fra’ Valentino Spiasso, che dimorò nella chiesa e la custodì per ben 36 anni. Fra’ Valentino fu un esempio di rettitudine e di persona cosciente dei suoi impegni.

 

Non così i romiti che successivamente si diedero il cambio tra il 1631 e il 1641 e che recarono più danno che utilità alla chiesetta. 

 

L’ultimo ad ottenere la custodia del tempio si chiamava Angelo Zivelonghi, definito meglio con il l’appellativo di “una specie di eremita”. Era soprannominato “el Frate” e la sua famiglia “i Frati”. Si racconta che il Frate, suonava la campanella contro la grandine e appena rintoccava la campana, smetteva di grandinare, per cui, prendeva musso e caréto, andava alla questua giù fin sul Lago di Garda. La questua serviva a mandare avanti la famiglia e sua sorella Teresa che abitava con lui. Quando essa colpita da un fulmine ebbe a morire, fu  sepolta, come si racconta ancora oggi, col capo fuori terra per neutralizzare gli effetti nocivi delle scariche elettriche e dello zolfo che di solito si sprigiona in tali occasioni; … un parafulmine di famiglia.

 

Noi ricordiamo che qualche anno fa — ma non sappiamo se sia ancora vivo — si aggirava sulle montagne di Campofontana un poveraccio che la gente chiamava “eremita” più che altro perché viveva di carità e si rifugiava nelle baite  delle montagne vicine che durante l’inverno erano abbandonate. Il parroco di Campofontana, oggi missionario a Cuba, amante della montagna e delle escursioni, ma anche prete, ogni tanto andava a fargli visita e a portargli di che rifocillarsi. E’ stato, probabilmente l’ “ultimo eremita” della Lessinia.

 

Nel “covo” della Tirabosca

 

Tra le contrade a mezzogiorno del centro di San Mauro ve n’è una con un nome strano rispetto alla toponomastica del territorio lessinico: Palazzo, nome che sembra le sia derivato dalla costruzione, inconsueta per la sua tipologia, appartata, anche signorile, se si vuole, di un palazzo dalle linee classicheggianti, con tanto di archi d’ingresso a pianoterra, poggianti su colonne monolitiche di pietra, e con due grandi trifore al piano superiore; la parte più orientale, invece, si conclude con un’abitazione per i contadini.

 

 

L’edificio fu costruito nel XVIII secolo, su incarico di Antonio Tirabosco, di famiglia veronese benestante, affezionato cantore di uccelli e di caccia, poeta delicato e anima gentile, che si era ritirato in mezzo ai boschi per essere più intimamente connesso con la natura selvaggia e primitiva. Quel luogo, in precedenza, era denominato “Boschi”; quei ”boschi” lo convinsero a costruirsi un “casone”, per poter cogliere tutte le sfumature della quiete e del canto degli uccelli.

 

Là nell’eremitaggio di “Boschi” egli compose il poema intitolato “L’uccellagione”, rimasto incompiuto per la morte dell’autore e pubblicato successivamente dalla moglie Angela Cercovich. Ma il Tirabosco aveva avuto anche un’altra moglie: Caterina Spinetta. Il loro figlio, Francesco, ebbe la sventura di sposare Angela Morando, ragazza di buona famiglia veronese, che però si rivelò ben presto come una donna-strega, tanto da crearsi un alone di mistero e di leggenda per le sue gesta romanzesche, avventurose, talora audaci.

 

La gente del posto, infatti, la soprannominò la “Tirabosca”, una vera e tipica avventuriera, scaltra, bizzarra e senza scrupoli che si liberò ben presto, in maniera molto elegante e legale sotto ogni punto di vista, del primo marito, dopo avergli fatto fuori tutti i beni, e così anche del secondo, il conte Giuseppe Ravignani, dopo aver ridotto sul lastrico anche lui.

 

Ma i nodi, prima o poi, come recita il proverbio, vengono al pettine. La “Tirabosca”, come racconta la gente, all’età di 76 anni, fu assalita nel suo stesso “Palazzo” da alcuni malviventi che la derubarono e la ferirono gravemente. Non si andava tanto per il sottile, una volta, in talune questioni di…morale. Morì il 19 dicembre a Tregnago, in Casa Trevisani, che era un’osteria. Oggi il “Palazzo” è adibito a stalla e fienile. Della “Tirabosca” la gente conserva la memoria più spregevole. Del poeta Tirabosco, invece, il vicino paese di Centro, dal quale nel passato dipendeva la località Boschi, conserva una memoria veramente dignitosa, tanto che ogni anno vi si celebra una “Sagra dei osei”, intitolata appunto ad Antonio Tirabosco. 

 

In pfaffe runć

 

“Il prete storpio“, questo il significato delle parole cimbre con cui la gente di Giazza — e non solo di Giazza — ricordava un parroco di Giazza, don Domenico Gugole misteriosamente arricchitosi e che  poi lasciò tutti i suoi beni in eredità alla parrocchia. Nessuno è riuscito a spiegarsi come avesse fatto a mettere da parte una considerevole fortuna in un luogo poverissimo, quale quello di Giazza, dove la popolazione era costretta a lottare quotidianamente per sopravvivere “boscheggiando e carboneggiando” nei boschi del comune, spesso violando le leggi che vietavano di spingere capre e pecore sui dirupi e sulle rive rocciose dei beni comunali di Val Fraselle e del Tambaro.

 

Domenico Gugole era nativo di Giazza; il suo soprannome lo identificava per una certa carenza fisica che lo faceva sembrare raggomitolato, come vuol dire il vocabolo runć, ma era, invece, di intelletto fine.

 

Resse la parrocchia, dapprima come economo, poi come primo parroco dal 10 dicembre 1815 al 30 ottobre 1837. Si può dire che era un sacerdote aperto alle esigenze sociali, fu battagliero sostenitore delle ragioni dei suoi compaesani e tenace testimone delle esigenze dei parrocchiani, tanto che era visto come un “sobillatore rivoluzionario”.

 

Certi suoi rivali dicevano che egli avesse trovato la fortuna vendendo a Verona una miniera di terra rossa che si trovava nella valle del Mittertal; dicevano che, a dorso di mulo, egli portava ogni tanto in città la terra scavata da smerciare. Altri sostenevano che era ricco di famiglia, che faceva molta economia in tutto e che costruiva giorno e notte sgalmare (ghéimar) che andava poi a vendere sui vari mercati. Ma non era avaro.

 

Pfaffe Runć, in questa maniera, realizzò un patrimonio di valore rilevante. L’acquisizione della montagna del  Vazzo, nel comune di Velo Veronese, di quella delle Selle, in quel di Giazza, e di una piccola parte della montagna delle Fraselle sono i capitoli più importanti della sua opera a favore della sua parrocchia.

 

Il Vazzo è costituito da un pascolo per bovini di oltre trecento campi veronesi con casa e stalla. La rendita del Vazzo serviva a mantenere in seminario due studenti di Giazza e i sacerdoti nativi di Giazza hanno potuto usufruire tutti di questa eredità. Oggi il Vazzo è stimato vari miliardi di vecchie lire.

 

Malga Vazzo

 

La rendita della montagna Fraselle, invece, serviva a pagare le spese al sacerdote che andava a celebrare la seconda messa festiva a Giazza, e a provvedere il corredo alle nubende di Giazza che si sposavano …col so onor. I vari lasciti hanno attraversato molte vicissitudini di carattere amministrativo e politico, passando da un’amministrazione all’altra: dalla parrocchia, all’ente comunale di beneficenza e infine alla Curia

 

«Il corpo ai corvi, l’anima a Satana»

 

A Velo Veronese si trova una contrada omonima di quella più famosa in località Bettola di Tregnago, anch’essa ad un crocevia di strade che, anticamente, in quel punto s’incontravano e come voleva la consuetudine di allora vi sorgeva un’osteria: appunto chiamata “Bèttola”, come quella di Tregnago. Ma questa “Bèttola” di Velo divenne più importante per un fattaccio di sangue accaduto in quei tempi, quando in Lessinia circolava non solo brava gente, ma anche banditi ed assassini.

 

Uno di quei banditi si faceva chiamare Tomasin ed abitava di norma in contrada Comerlati, dove possedeva una casa con un cortile interno recintato e, sotto la casa, un volto per ricoverare il cavallo. Era robusto e feroce Tomasin, girava sempre armato di archibugio e pistola, si era creato un gruppo di bravacci della sua risma tra i quali un certo “Varalta”, astuto e scaltro. Tomasin taglieggiava gli abitanti e, se quei poveracci non potevano dargli di più, non si faceva tanto supplicare: li ammazzava.

 

La storia gli attribuisce ben sette omicidi di gente dei suoi paraggi ma la sua crudeltà non risparmiò neppure uno dei suoi fratelli. Si racconta che una sera, accompagnato dalla masnada dei suoi bravi, giunse alla Bèttola e, spiando dalla finestra, vide suo fratello che stava giocando allegramente con altri amici. Senza tante cerimonie, entrò e lo freddò con un colpo di archibugio.

 

Ma Tomasin era solito compiere tali gesti spietati. Si dice che facesse salire sopra un albero la vittima, che gli doveva del denaro,  sotto la minaccia delle armi lo facesse cantare da gallo o da qualche altro  uccello e gli sparasse senza pietà. Ma come finì la sua vita, il Tomasin?

 

Una volta, di ritorno da Verona, dove si era recato per giocare d’azzardo con alcuni amici della sua risma, giunto che fu al luogo che ancora oggi si chiama “Spin del poiéro”, sopra San Mauro di Saline, fu assalito da un grosso cane nero che ringhiava furiosamente. Aumentò allora l’andatura del cavallo per liberarsene, ma il cane lo seguì passo dopo passo fino alla sua casa in contrada Comerlati. Giunto colà lo assaltò e gli strappò dal capo la parrucca che il brigante era solito portare per megalomania. Allora capì che si trattava del diavolo in persona che voleva dargli una lezione. Tentò di sottrarsi più volte alla giustizia che lo tallonava da tempo e, dopo varie altre imprese, si nascose sul Monte Purga, in mezzo ai boschi; ma fu scoperto e, vistosi perduto, dopo aver gridato “Il corpo ai corvi, l’anima a Satana”,  si lanciò giù dall’albero e scomparve. Dopo di allora, di lui, non se ne seppe più nulla.

 

Sei pellegrini di contrada Antonelli, diretti ad Assisi

 

Nell’estate del 1996 il signor Claudio Lucchi, abitante in contrada Antonelli di Badia Calavena, intraprese alcuni lavori di restauro e di ammodernamento della sua abitazione. Durante la demolizione delle vecchie malte, tra un sasso e l’altro di un sottofinestra, intravide un pezzo di carta robusta, piegata accuratamente su sé stessa per tre volte, vergata a mano e compilata su tutte e due le facciate, datata 1791 e, probabilmente, appartenuta al bisnonno Luigi: il titolo dello scritto era il seguente: Viagio d’Assisi come segue…

 

Il documento mi fu fatto pervenire per tentar di decifrarne possibilmente i contenuti e, con nostra somma meraviglia, in forma molto sintetica ed essenziale, lo scrivente faceva la cronistoria delle tappe del viaggio di andata ad Assisi da parte di alcuni pellegrini della contrada Antonelli e dintorni per ottenere l’indulgenza prevista dalla Chiesa in occasione della celebrazione del cosiddetto “Perdono d’Assisi“.

 

Il viaggio, naturalmente a piedi, inizia da Badia e si dirige, per il primo giorno, a San Bonifacio di Verona (18 miglia) con probabile visita alla Pieve di Santa Maria di Villanova; prosegue poi per Barucchella, definito ”Ultimo paese di san Marco”, cioè della Repubblica di Venezia, dove la comitiva si ferma per dormire. Era domenica 17 agosto. Il giorno seguente, lunedì 18, la comitiva si rimette in cammino per Trecenta, Occhiobello, Ponte Lagoscuro, Ferrara città e si ferma a dormire a Gaibana (miglia 29). Martedì 19 fanno colazione alla Madonna della “Schiopata”, oggi località meglio nota come “Oratorio della  Schioppa”, e poi proseguono per Argenta, dove fanno colazione al castello, e a sera si portano a casa, o meglio alla “boaria”, di un certo Domenico Lugo, un conoscente (dopo aver percorso altre 30 miglia). Mercoledì 20, visitano Lugo città, pranzano a Faenza città, poi si dirigono a Forlin Grande (la città di Forlì) e vanno a dormire, dopo aver percorso altre 35 miglia, a  Forlimpiccolo. Probabilmente, il toponimo Forlimpiccolo oggi si identifica in Forlimpopoli.

 

Il giorno 21, Zobia, (giovedì), il gruppo si alza prima del levar del sole, si reca a Bratinora (oggi Bertinoro, la città dell’ospitalità per eccellenza) dove ha sentito dire che i servi del nobiluomo del luogo distribuiscono gratuitamente un boccale di vino a chi collabora a lavare (una parola del manoscritto è indecifrabile) al Cavallo di San Giorgio patrono del luogo. Poi proseguono per Cesena dove ammirano il “bellissimo ponte”, quindi vanno a Sangiano, pranzano a Rimini città, al porto di mare, dove poi si fermano anche a dormire. E’ qui che assaggiano, per la prima volta in vita loro, la “Gran Cipola di Mare” (si tratta del granchio detto Grancevola, cioè il Maja squinado). (Altre 30 miglia  percorse).

 

Il venerdì 22, arrivano a San Lorenzo e fanno colazione all’osteria del luogo, poi proseguono per Cattolica e pranzano al castello. Ma qui a Cattolica, probabilmente stanchi per la strada percorsa, prendono a noleggio un calesse e spendono 8 troni. E si fermano a dormire a Fano città.  Poi il manoscritto s’interrompe: manca, infatti, la seconda parte, ovviamente andata perduta. E non se ne sa più niente di quella comitiva che era formata da 6 pellegrini.

 

Uno strano personaggio

 

Contrada Grisi è un nucleo di case e di edifici rurali suddiviso in tre o quattro insiemi, che, per intenderci meglio, chiameremo “corti”. Corti, perché ognuno dei nuclei si affaccia su uno spazio in comune con scale e porte che vi accedono e ognuno sembra puntare ad avere una vita propria, una propria autonomia. In uno di questi nuclei, l’ultimo della schiera di abitazioni della contrada, quello che va a confinare con la vicina contrada Zocco, abitò uno strano personaggio, un contrabbandiere d’eccezione, per intenderci, certo Piero Griso, vissuto nel pieno dell’Ottocento.

 

Si racconta che per poter svolgere agevolmente il suo commercio si era costruita una residenza mascherata nel bosco detto del Voltalbise, un prato in mezzo a una boscaglia, lontano dalle contrade e dai sentieri battuti comunemente dai boscaioli e dai cacciatori. 

 

Era anche un famoso falsario; però la gente non riuscì mai a sapere dove andava a fabbricare soldi falsi, probabilmente nel profondo di qualche covolo o sotto qualche roccia della località Bochesani, e come faceva a smerciarli.

 

Il Griso, che era anche un disertore dall’esercito, era ricercato e braccato notte e giorno dalla polizia di tutto il Veneto perché era stato condannato, tra le altre punizioni, anche alle galere.

Durante l’inverno, per non farsi scoprire quando camminava sopra la neve, s’era costruito un paio di sgàlmare in legno con la punta dietro e il tacco davanti: così chi lo avesse seguito sarebbe finito proprio nel punto opposto del luogo dove lui si trovava. Nel tascapane, si portava dietro il teschio di suo padre e, dentro di notte vi accendeva una candela, poi lo metteva sulla finestra della casa, fingendo di esserci dentro; intanto incuteva paura, ma lui, il più delle volte, era fuori per i suoi affari.  

 

Una notte, però, le guardie capitarono a casa sua e quella volta il Griso non era riuscito a svignarsela in tempo. Le guardie bussarono e lui gentilmente rispose di attenderlo per qualche minuto. Andò in camera, si svestì completamente, si tenne indosso solo un paio di calzoni sbottonati e la giacca pure essa sbottonata.

 

Si presentò sulla porta e le guardie subito ad agguantarlo per la giacca; ma lui gliela lasciò nelle mani e si eclissò come un fulmine nel bosco vicino.      

Si dice che sia stato arrestato 33 volte e che abbia subito 24 processi. Una volta, in tribunale, durante uno di questi, mentre lo interrogavano, Piero Griso disegnò un gallo su una parete della stanza ed esclamò imperturbabile: — Finché questo gallo non canterà, neppure Piero Griso si condannerà.  Al di là delle sue proverbiali peculiarità di bandito, la gente racconta che era anche un abilissimo giustaossi.

 

La tragica fine della bella Barbara

 

Dai registri di morte di Campofontana estrapoliamo questa storia: «14 febbraio 1684. Barbara, figliola del Domenico Tibaldo di questa comunità, fu privata di vita sotto lì 21 genaro in contrà di Corbelari incirca a le ore due o tre di notte et fu sepolta nella stalla di Dominico fu Michiele Griso. A lì 13 febraro fu ritrovato il suo corpo e con  tocco di campana a martelo fu portato par comodità a casa sua et lì 14 detto fu sepolta in cemeterio con li soliti funerali per me. Gasparo Tibaldo». Questa la nota nuda e cruda del parroco, che, probabilmente, era anche un parente stretto della bella Barbara, il cognome è lo stesso. Abbiamo detto “bella”, perché il fatto accaduto quasi cinque secoli fa ha lasciato nella tradizione popolare locale un seguito di memorie e di “si dice”che personalmente abbiamo anche avuto occasione e fortuna insieme, di verificare.

 

Durante le serate dei filò nelle stalle, alle quali abbiamo partecipato anche noi parecchie volte, si raccontavano tante “storie” di una volta. Una di queste storie narrava pressappoco questa vicenda.

 

«Barbara, figlia di un certo Tibaldo della contrada Tebaldi era una ragazza di vent’anni circa, affascinante, riservata, umile, religiosa e onesta. I giovani del paese le facevano la ronda, come si dice, ma Barbara fingeva di non accorgersi di tante attenzioni e sfuggiva sempre ai loro complimenti, non peraltro all’invidia delle compagne che si vedevano trascurate dai giovani, quasi disprezzate. E ne trassero motivo per odiarla apertamente, per diffondere cattiverie sul suo conto, segnatamente per isolarla dai giovani che la corteggiavano e che nutrivano nei suoi confronti sentimenti di grande rispetto e di profonda simpatia. In quei tempi, durante l’inverno — eravamo in pieno gennaio — era consuetudine che le ragazze delle contrade vicine tra loro, come appunto Contrada Tebaldi e contrada Corbellari, s’incontrassero il sabato sera in una stalla a rotazione per pettinarsi scambievolmente. Quella volta, sparsero la voce di incontrarsi nella vicina contrada Corbellari, nella stalla di Michele Griso: il Griso aveva comprato il fieno dei Corbellari e lo stava pascolando con le sue bestie.

 

Non sappiamo che cosa sia avvenuto durante l’adunata delle ragazze, fatto sta che il giorno dopo Barbara non fece ritorno a casa. Correva insistente la voce che fosse scappata con un pretendente. Ma la cosa non trovò una spiegazione plausibile perché Barbara era una ragazza seria e dabbene. I giorni passarono, si fecero attente ricerche in tutte le direzioni, ma di Barbara più nessuna notizia e si cominciò a pensare al peggio.

Durante i mesi di gennaio e febbraio il parroco, come voleva la tradizione, passava da una contrada all’altra a benedire le stalle e il bestiame. Don Tibaldo, come tutti i buoni parroci di quei tempi, per arrotondare le sue entrate, andava a caccia e, quella volta, s’era portato dietro il fucile e la cagnetta. Giunto in contrada Corbellari, entrò nella stalla di Michele Griso e, dopo alcuni convenevoli, impartì la benedizione alle bestie e raccolse alcune uova come compenso di regola. Ma, mentre si svolgevano queste cerimonie e si proferivano alcuni discorsi sull’andamento degli affari, la cagnetta si mise a raspare tra le fessure di due lastroni di pietra che rivestivano il pavimento della stalla. Resi curiosi tanto il parroco che il Griso e i suoi familiari presenti alla cerimonia, si avvicinarono al posto dove la cagnetta raspava e, con loro grande orrore, videro spuntar fuori una ciocca di capelli. Le febbrili operazioni successive per portare alla luce cosa era sepolto, fecero scoprire il corpo di Barbara col cranio fracassato da alcuni colpi di scranno, quel seggiolino che i malgari adoperano per sedersi vicino alle vacche da mungere.

 

Un seguito alla dolorosa vicenda sembra confermare la maledizione della mamma di Barbara nei confronti di quella stalla che era stata la tomba momentanea della sua creatura: un incendio l’avrebbe distrutta e, di lì a qualche anno, al suo posto sarebbe stata costruita una chiesetta che attualmente è possibile ancora ammirare.

 

Corbellari