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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

SAN MARTINO B.A.

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Religione e Superstizione

 

San Mammaso

 

Nel 1582 la famosa “Arte dei Formaggieri” di Verona con mille ducati acquistò la malga cosiddetta “Vallina dei Ferraresi” e quando la risistemarono, sopra l’architrave fecero inserire un elegante bassorilievo raffigurante il santo dei formaggeri, san Mammaso, che tiene in mano il Vangelo e poggia il piede sopra una forma di formaggio ed è accompagnato da due fiere.

 

Malga Vallina di Sotto. Bassorilievo.

 

Fare il formaggio si può dire che sia stata un’attività nata con l’arrivo dei gruppi cimbri in Lessinia, al punto che già nel Duecento fu fondata l’Arte dei Formaggeri di Verona. Non possediamo i primi Statuti ma solo quelli del 1319, fatti approvare da Cangrande della Scala. L’Arte obbligava i suoi iscritti a prestare aiuto a chi ne aveva bisogno e a rispettare perentoriamente le feste religiose. A Verona gli iscritti si riunivano per le sacre funzioni nella chiesa di San Mammaso, nei pressi di Sant’Eufemia, e poi, più tardi, a San Tomio, dove a loro spese avevano eretto un altare al loro protettore.

 

Ma perché san Mammaso venne scelto come protettore dei formaggeri e come arrivò dall’oriente in Italia?

 

Ai tempi dell’imperatore Aureliano, (270-273), ostinato persecutore dei cristiani, il giovane Mammaso, cristiano professato,  fu costretto a lasciare la sua città e andar a vivere in mezzo ai boschi. Una voce gli ordinò di prendere i quattro vangeli dalla sua chiesa che era stata abbattuta e di fuggire. Si ritirò in una spelonca sui monti e visse di bacche selvatiche, di mele, e del latte di certe fiere che lo accompagnavano. Si dice che inventò il formaggio e quando i soldati arrivarono per arrestarlo egli li accolse con cordialità e lo offrì loro. Morì martire assieme ai soldati che aveva convertito alla sua fede.

 

A San Tomio, a Verona, una tela d’altare raffigura il santo seduto davanti alla sua capanna tra alcune fiere, abbondantemente attorniato da forme di formaggio. In Italia due paesi, uno in provincia di Forlì, l’altro in provincia di Como, portano il suo nome.

 

Antiche processioni in Lessinia

 

Le processioni rimangono tuttora un elemento molto importante delle consuetudini religiose della Lessinia. Anticamente talune  assumevano carattere di “universalità” in quanto le compivano le parrocchie di un determinato territorio verso una meta determinata, come, per esempio, al Santuario di Madonna di Campagna.

 

Chi scrive ricorda che da bambino nella sua parrocchia, il dì di San Marco (25 aprile, primo giorno delle Rogazioni), tutto il paese si recava sopra un dosso di Campofontana, proprio di fronte al Montelongo di San Vitale sventolando le proprie bandiere. Contemporaneamente, sul dosso sopraccitato, un’altra processione, proveniente da San Vitale, sventolava festosamente le proprie insegne a ricordo degli antichi patti che le due comunità avevano stipulato nel passato tra di loro.

 

In Lessinia orientale, poi, sono tornate alla luce e con grande fastosità, tre importanti avvenimenti del genere: la processione cosiddetta  dell’ “Avóto” di Sprea; la processione tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo; la processione dei “Dolori” di Velo Veronese.

 

L’“Avóto” di Sprea si celebra l’ultima domenica di luglio; vi partecipano in media un migliaio di fedeli che partono dalla chiesa parrocchiale, dove officiò per tanti anni il famoso parroco don Luigi Zocca, il “Prete de le erbe”, raggiunge il vicino Monte Castéche, sul quale viene celebrata una santa Messa all’aperto, presieduta dal vescovo ausiliare di Verona. La manifestazione che ricorda la cessazione della terribile pestilenza del 1600, durante l’ultimo conflitto era stata abbandonata per ovvie ragioni di sicurezza, ed è stata ripresa negli anni Sessanta e da allora è diventata un appuntamento prettamente religioso tra i più partecipati.

 

Anche la storica processione — che risale al Quattrocento — tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo, ha subito un ridimensionamento: oggi vi si partecipa in automobile seguendo un camioncino che trasporta, come d’uso, le statue in legno di San Giorgio e di San Rocco. Nel passato, invece, esse venivano portate a spalle (San Giorgio pesa oltre 2 quintali) e le due parrocchie distano sette chilometri una dall’altra. La cerimonia si svolgeva in due tempi; nella prima domenica di maggio scendeva la popolazione di Campofontana a Durlo; nella seconda domenica ricambiava la visita la popolazione di Durlo che saliva a Campofontana con i suoi santi protettori a spalle: Santa Margherita e Sant’Antonio Abate.

 

Una terza processione, che si ripete anch’essa da alcuni anni a questa parte a Velo Veronese nei primi giorni di settembre, è detta la “Processione dei Dolori”, perché ricorda la festività dell’Addolorata, detta anche “Madonna dei Dolori”, di cui a Velo si venera un’immagine in legno che viene portata in processione in tale occasione. Della festa fa menzione nei suoi “Diari” Don Scalmana, parroco di Velo nell’Ottocento. Ma la ricorrenza si porta dietro anche un’altra denominazione, più profana: “Sagra dei fighi”, perché in quei giorni si colgono gli ultimi fichi giù in collina e i fruttivendoli, improvvisati per lo più, li portano a vendere sulle piazze di montagna nei giorni di domenica, quando la gente esce di chiesa dopo la messa.

 

I cerchi di San Leonardo

 

Nella chiesa di San Moro, una volta, esistevano parecchie statuette di ferro di altezza variante tra i 15 e i 30 centimetri, che rappresentavano, in forma molto ingenua, figurine di uomini e di donne, in piedi o inginocchiati, con le mani in atteggiamento di preghiera o di devozione, quasi sicuramente erano ex voto per guarigioni ottenute. Oggi le statuette e i cerchi di ferro sono depositati al Museo di Verona.

 

Più tardi nel tempo, i fedeli che accorrevano alla pieve lasciavano in dono come ex voto dei cerchi di ferro, di varie dimensioni e diametro, che i pellegrini si mettevano in testa o si infilavano nelle braccia o alle gambe per impetrare la guarigione dell’arto o della parte malata. Da chi? Da San Leonardo? Perché da San Leonardo?

 

Il culto di San Leonardo si sviluppò e si estese dalla Francia, da Limoges esattamente, dove il santo aveva fondato un monastero a Noblac e dove morì nel 559. Si diffuse verso occidente: Vestfalia, Belgio, Alsazia-Lorena, Francoforte, Svevia, e, infine, in forma più massiccia in Baviera. Poi, dalla Baviera alla Boemia, nel Salisburghese, in Austria, in Stiria, in Carinzia, nella Carnia, in Tirolo, e, finalmente, anche in Italia con i Cimbri. Il santo era invocato soprattutto contro le emicranie, per lenire i dolori alle partorienti, era protettore dei viaggiatori, dei pellegrini e dei prigionieri. Per questo, in certe chiese della Germania dove si venera il santo, si trovano come ex voto delle catene da prigione.

 

Nelle relazioni delle parrocchie della Lessinia si trovano cronache dei parroci che richiamano alla memoria le processioni rituali, “obbligatorie” per i fedeli, che la comunità parrocchiale doveva compiere tutti gli anni. Per quanto riguarda le parrocchie della Lessinia v’era l’obbligo di recarsi in pellegrinaggio a San Leonardo una volta all’anno. Davanti alla Chiesa di San Moro, in occasione di queste processioni e pellegrinaggi, si teneva in autunno anche un notevole mercato del bestiame quando esso lasciava i Lessini e tornava alle stalle della pianura. Nel porticato di accesso alla pieve sono ancora visibili gli anelli a cui si attaccavano gli animali in mostra per la vendita.

 

 I “Disciplinati”

 

Anche a San Martino, il paese in cui abito, una volta c’erano i “Disciplinati” e ciò è dimostrato dal fatto che a chi percorre, la via che dal centro di San Martino va verso Verona, ad un certo punto, sulla sinistra si apre Via Disciplina. Non è la sede per entrare nel merito della storia di questa specifica congregazione, preferiamo, piuttosto, dare un cenno in generale del fenomeno.

 

I “Disciplini” o “Disciplinati”, in talune zone detti anche “Battuti”, “Scovati”, “Umiliati”, “Flagellati”, “Vertebrati”, erano associazioni laicali che dedicavano momenti della loro vita a finalità religiose, assistenziali, caritative e si sottoponevano spontaneamente a penitenze fisiche, quali, ad esempio, l’autoflagellazione. Si scoprivano, cioè, parte della schiena e si percuotevano periodicamente con delle speciali verghe, dette ”discipline”, che, qualche volta, terminavano con palline di piombo, dette “scuèzzole” (piccole scope), da cui il nome di “scovati”.

 

Il movimento dei “disciplinati” avrebbe avuto origine, secondo alcuni storici, a Perugia nel 1260, a opera di un frate eremita, Raniero Fasani che andava in giro a predicare vestito di sacco, cinto di una fune, “armato” di una frusta di cinghie di cuoio, invitando il popolo a far pubbliche penitenze per redimersi dai peccati. E, in breve tempo, le confraternite si diffusero a macchia d’olio. Ogni compagnia era amministrata da una “Regola” approvata dal vescovo.

 

Nel Veronese — tanto per arrivare al tema —la più importante “fraglia” nacque in città, a Verona, e si chiamò “Santa Maria della Fratta”, con sede in Santa Maria della Ghiara, in pieno centro di Verona. I suoi custodi ci hanno lasciato un preziosissimo, quanto piacevole, “Codice miniato”, che raffigura vari momenti della vita dei flagellati. Ma si può affermare, leggendo le relazioni delle visite pastorali dei vescovi alle parrocchie nei secoli passati, che non v’era paese, che non avesse la sua compagnia di disciplini, soprattutto i paesi della Bassa e delle principali vallate. In montagna, invece, non fecero presa. Noi ci limitiamo, solo, ad elencarne alcune tra le più note del territorio del Veronese medio-alto.

 

A Tregnago divenne famosa e importante la disciplina dei Batui rossi che si riunivano in quella splendida chiesetta romanica, ancor oggi detta della Disciplina, a lato della parrocchiale. Era intitolata alla “Beata Vergine Maria con San Rocco” e i “disciplini” si distinguevano dagli altri perché portavano una cappa di colore rosso. Una compagnia di ”flagellati” c’era anche a Illasi e si chiamava “Veneranda Compagnia della Disciplina et Hospitale di San Rocco”, aveva la sede in quell’oratorio, in piazza, di fianco alla parrocchiale e recentemente è stato sottoposto a restauro.

 

A Colognola ai Colli, la “Compagnia di San Nicolò” aveva sede nella chiesa di San Nicolò in Monte, o meglio presso l’oratorio omonimo in contrada Monte. A Cazzano aveva sede la compagnia dei “Battuti”, di cui abbiamo scritto a proposito dell’oratorio di Brian, ma la loro storia, molto interessante, meriterebbe di essere ulteriormente approfondita. Ad Albaredo d’Adige v’era la “Veneranda Schola de’ SS. Pietro e Paolo” con sede nell’omonima chiesa in Via Marconi. La sua “regola” risale al 1500. A Soave, v’era la “Veneranda Schola della disciplina”, ospitata nella bella chiesa, ancora oggi detta “della Disciplina” in centro al paese. Per finire, a Monteforte d’Alpone, la “Confraternita di San Michele, detta Disciplina” esisteva già nel Quattrocento ed era alloggiata in un oratorio poco lontano dalla parrocchiale.

 

La maledizione di San Carlo

 

Ma per quale motivo è stato distolto proprio San Carlo, e non un altro santo, dal seguire la strada che tutti gli altri padri conciliari battevano per andare a Trento? Nessuno ha saputo dare una risposta convincente in merito, ma un’ipotesi attendibile la possiamo formulare sulla base dei racconti della gente.

 

            Le nostre montagne, a quei tempi, erano abitate da creature strane, misteriose e, a volte, pericolose.

Nella  zona di Camposilvano, Velo, e parte di Roverè, gli esseri della fantasia popolare più accreditati erano le “Fade” e gli “Orchi”. In quella di Badia Calavena e di Sprea, erano ancora una volta le “Fade”, ma con caratteristiche somatiche e maniere comportamentali molto diverse dalle prime. A Giazza e dintorni, invece, imperavano le “Genti Beate”, dette in cimbro Sealagan  laute.

 

A Campofontana e Durlo, nell’Alto Vicentino, si avvicendavano le “Anguane” e le “Guandane”. Dalla Lessinia occidentale, invece, non si hanno notizie di spiriti della fantasia popolare, fatta eccezione per certe apparizioni del basilisco.

 

La gente dei nostri paesi quando venne a sapere che a Trento si teneva un concilio e che, tra le altre tante decisioni da prendere riguardo alle misure straordinarie sugli articoli di fede religiosa, c’erano anche quelle contro il dilagare delle superstizioni popolari, consigliata dai rispettivi sacerdoti, mandò una delegazione incontro al vescovo di Milano che, come la leggenda vuole, passava da Camposilvano proprio per raccogliere le lamentele delle popolazioni angosciate dagli spiriti del male.

 

E il vescovo, dopo aver raccolto tutte le loro lagnanze e il loro sgomento, impartì una solenne benedizione alla popolazione, poi, nello stesso modo, con una cerimonia straordinaria scagliò una tremenda maledizione contro tutti gli spiriti del male, costringendoli a passare il resto della loro esistenza nelle grotte e caverne vicine ai luoghi dove avevano commesso tanti misfatti.

Così, subito dopo quell’avvenimento, le “Fade” e gli “Orchi” di Camposilvano furono relegati nei covoli di Velo; le “Genti Beate” di Giazza furono confinate per sempre in un covolo di Terrazzo, che da esse  prese il nome di  Sealagan kuval; le “Fade” di Badia Calavena e di Sprea dovettero rifugiarsi in un caverna del luogo, detta “Grotta dei Damati”, dentro la quale, per rabbia o per disperazione, come si racconta, lasciarono sulle pareti i segni delle loro unghie. A Campofontana “Anguane” e “Guandane” furono confinate nel covolo di una roccia che ancora oggi è conosciuto come El cóvolo delle Bele Butele.

 

Un santo … trafugato

 

Quando vogliamo menzionare un santo, per comodità o per antica abitudine, ci riesce più facile farlo coincidere con la sua provenienza; così, per esempio, diciamo “Sant’Antonio da Padova”, “San Francesco d’Assisi”, “Santa Rita da Cascia”, “San Giorgio di Cappadocia”, “Santa Margherita da Cortona” e via dicendo.

 

Velo Veronese è forse l’unico centro della Lessinia cimbra che annoveri un suo santo; per restare in tema, lo chiameremo familiarmente “San Fiorenzo da Velo”. E qui qualcuno si domanderà: ma da quando in qua a Velo Veronese c’è un santo? Rivolgiamoci, allora a qualche appunto di storia.

 

È risaputo che nel Medioevo non erano proprio del tutto fortuiti i casi di spoliazioni, di ruberie di corpi interi o di reliquie piuttosto consistenti di santi che venivano fatte su commissione e dietro pagamento. Esempio classico: la mattina del 23 giugno 1053, ricorda mons. G.P.Pighi, nella nostra chiesa di Verona di Santa Maria in Organo, un certo Gotschaldo, del monastero benedettino di Burn in Germania, rubò il corpo di Santa Anastasia, con la complicità del custode, lo infagottò nel pallio dell’altare e fuggì.

 

Ma Torniamo a Velo. Il vescovo di Verona, Francesco Barbarigo, nel 1700 fece un giro di visite pastorali nelle parrocchie della Lessinia. A Velo si accorse che dietro l’altare maggiore c’era una porticina che custodiva all’interno la sacra reliquia del martire Fiorenzo, conservata in un decoroso reliquiario. Una verifica del contenuto del piccolo sacrario aveva già avuto luogo ancora nel 1687 durante un’altra visita pastorale. La popolazione, quella volta, si rivolse al vescovo chiedendogli il permesso di estrarne, alla presenza dei canonici, un frammento osseo da porre in un reliquiario, da portare durante le processioni, ovviamente chiuso e sigillato e accompagnato da un documento canonico autentico. Ma come sarà arrivato a Velo il corpo del martire?

 

Illustri studiosi del passato se ne sono interessati per tentare di stabilire l’epoca in cui San Fiorenzo sarebbe vissuto, il luogo, com’è stato martirizzato e altro ancora, ma sono venuti a capo di ben scarse notizie. La tradizione orale, invece, ha trovato quello che la storia e i documenti non sono stati capaci di rintracciare.     

 

Attilio Benetti, che della tradizione orale è una preziosissima enciclopedia vivente, ci ha ricordato quello che i suoi avi raccontavano a tal proposito; dimostrando così che tante volte, come si sa, quanto viene tramandato arriva provvidenziale a integrare o a completare quello che la storia non era riuscita a determinare con  maggiore chiarezza. 

 

La nonna gli raccontava — ma lo dicevano un po’ tutti gli anziani — che nei tempi lontani, gli abitanti di Velo, segretamente, avevano organizzato una spedizione in Germania, proprio nel paese da dove erano partiti i loro progenitori, con il preciso scopo di trafugare i resti mortali del loro santo martire e portarseli a Velo. L’impresa riuscì perfettamente, ma non è dato conoscere quando essa abbia avuto luogo. Si tenta di collocarla nel tardo Trecento o nel primo Quattrocento, quando cioè gli insediamenti teutonici, o “cimbri” che dir si voglia, avevano già radici profonde e radicate e avevano acquisito anche la solidità economica e la sicurezza politica che permise loro di tentare un’impresa del genere.

 

Affogato…per mantenere il segreto

 

In località Zucchi di Campofontana si può vedere un capitello, detto anche “Capitello della Regina”, dedicato a San Giovanni Nepomuceno, innalzato nel 1757. La statua attuale del santo (che è stata da poco ridipinta orrendamente), da una prima versione, sarebbe stata acquistata a Crespadoro, in Val del Chiampo ed era opera di uno scultore errante, certo Romano da Crespadoro, che lavorò fino agli anni Quaranta. Poi, invece, si venne a sapere che l’autore era stato il Tamarindo, di contrada Pasquali di Durlo, al secolo Giovanni Pasquale.

 

Si raccontano varie leggende a proposito della costruzione del capitello, ma le trascuriamo tutte per dare spazio alla storia del santo. San Giovanni Nepomuceno è detto il “Santo del silenzio. Egli era nativo di Nepomukin, in Russia (1330-1393), ed è patrono della sua città. Ma chi fu realmente questo santo? Secondo il martirologio cristiano, il re di Boemia fece annegare nella Moldava il sacerdote Giovanni che, come confessore della regina, si era rifiutato di rivelare i peccati della sua penitente per non venir meno al segreto della confessione.

 

Una “storia” locale, peraltro, riferisce che la regina, prevedendo che la situazione del regno sarebbe andata sempre peggiorando, avrebbe raccomandato al suo confessore, il Nepomuceno appunto, di avvalersi della sua autorevolezza presso le autorità per far giustiziare con la decapitazione il re suo marito per il comportamento scellerato. Al re giunsero all’orecchio queste voci e ne chiese spiegazione al sacerdote: San Giovanni, ovviamente, mantenne il segreto e, pertanto, fu fatto annegare.

 

I documenti storici del tempo, invece, affermano che Giovanni Nepomuceno fu condannato a morte per annegamento, perché si oppose tenacemente alla trasformazione dell’abbazia di Kladran in un vescovado da assegnare a un religioso, che  era un favorito del re.

 

Recentemente il capitello è stato fatto oggetto di una decorosa sistemazione: sono state rifatte le malte esterne che, negli anni Ottanta del secolo passato, erano state dipinte ad affresco da un “madonnaro”, con scene della vita del santo; è stato ricavato un breve recinto d’ingresso, rifatta la grata e creata un’aiuola spartitraffico per isolare la “costruzione” dal traffico e dagli animali. 

 

Si racconta che nei primi tempi nel capitello non c’era la statua, ma nell’interno, senza cancelletto peraltro e senza vetro, sulle pareti della nicchia era stata dipinta la figura del santo sacerdote e alle sue spalle, sullo sfondo, un lago; il luogo cioè in cui egli fu fatto morire. In un secondo tempo, sempre per dar credito alle informazioni raccolte, sarebbe stata collocata nella nicchia per errore l’immagine di San Giovanni della Croce; ma nel 1959, il parroco di San Bortolo, accortosi dell’errore, la sostituì con quella di San Giovanni Nepomuceno.

 

Nella località accennata, gli Zucchi, accanto al capitello, esiste una pozza per abbeverare il bestiame, la Póssa dei Suchi e la fantasia popolare, prendendo ispirazione da quest’elemento naturale, ha ricreato localmente le condizioni storiche della morte del santo: egli sarebbe stato affogato proprio in quella pozza.

 

Non sono molti i capitelli ed oratori dedicati a San Giovanni Nepomuceno. Come sì è visto, dopo quello di contrada Zucchi e l’oratorio di Cracchi, si conoscono solo due o tre altri capitelli in provincia di Verona.

 

La «Madona col … brasso scavésso»

 

Lungo la mulattiera che da Giazza conduce a Campofontana passando per contrada Gauli, prima di arrivare alla strada comunale Selva di Progno-Campofontana, si incontra il cosiddetto Capitello della “Madonna dal brasso scavésso”.

 

A sinistra della nicchia contenente la scultura, si legge: ERETTO L’ANNO 1748 / DA FAINELLI D. VALENTINO / PARROCO DI CAMPOFONTANA /

A destra, invece, un’epigrafe recita: RINNOVATO/DAL PRONIPOTE / FAINELLI VALENTINO 7 L’ANNO 1923.

 

Infine, intorno al capitello è stata scolpita nella viva roccia la sagoma architettonica di un’edicola; la data dell’esecuzione è il 1881. L’immagine in pietra bianca della Madonna Addolorata che sorregge il figlio morto sulle ginocchia è probabile opera di un abile scultore, che non conosciamo. Il gruppo scultoreo si differenzia dalle consuete raffigurazioni delle Vergine dei Dolori della Lessinia perché il corpo del Figlio è tutto addossato sulla destra delle ginocchia della Madre.

 

La storia vera — se di storia si tratta — dovrebbe essere la seguente. Don Valentino Fainelli fu nominato parroco di San Giorgio di Campofontana nel 1744, quando ancora non aveva 27 anni, e nel 1752, dopo soli otto anni di reggenza, ritenne più opportuno trasferirsi a Cereda nel Vicentino, dove morì nel 1771.

 

Don Fainelli, come d’altronde gli altri parroci della montagna, era solito scambiarsi per qualche giorno la cura delle anime, specialmente durante alcuni periodi religiosi del calendario cristiano, come le Quarantore, i Quaresimali, le solennità locali, le sagre. Fu dunque invitato a Giazza a predicare i “Quaresimali”, cioè una serie di prediche speciali, fatte in chiesa durante la Quaresima, per invitare i fedeli a confessarsi e a comunicarsi per la Pasqua, dai due religiosi del posto, i “Fratelli Giazza”, com’erano chiamati i sacerdoti che reggevano una cappella soggetta a Selva di Progno.

 

Si racconta che un giorno, verso sera, don Fainelli prese la mulattiera per scendere a Giazza a tenere la solita predica. Giunto nei pressi della roccia, che allora — ma ancora adesso — era detta bante (termine cimbro che significa «roccia»), vide un mostro accovacciato per terra, raggomitolato su se stesso che digrignava i denti e schizzava fuoco dalle narici. Per nulla impressionato, don Fainelli, rivolse un pensiero alla Madonna dei Dolori, tracciò col suo bastone un cerchio per terra, vi segnò dentro un’impronta di croce, e disse: — Tu resterai qui finché te lo dirò io.—

 

Andò avanti e indietro da Giazza a predicare per le tre serate dei Quaresimali e, quando l’ultima sera fece ritorno alla sua parrocchia, ai piedi della bante trovò ancora il mostro rannicchiato, immobile, dove lo aveva costretto a stare e che digrignava ancora i denti: lo maledisse e quello sparì nell’aria in una nuvola di fumo e di fuoco. Si dice che si trattasse di un basilisco. Qualche tempo dopo, don Fainelli volle ricordare quel brutto incontro e fece scavare una nicchia nella roccia e vi collocò una statua della Madonna Addolorata. Era l’anno 1748, come si ha modo di leggere sull’epigrafe a lato del capitello.

 

Il  senso del termine scavésso, cioè «spezzato»” si rifà ad un'altra storia, peraltro altrettanto fantastica. Si racconta che un uomo che era andato fuor di testa, un giorno passando davanti al capitello, assestò una potente bastonata sulla statua dell’Addolorata tanto da romperle il braccio che poi si portò via. E don Fainelli provvide allora a far fare una statua nuova.

 

I santi della Lessinia

 

Andando in Lessinia, soprattutto in quella centro-orientale, si potranno vedere qua e là, lungo le strade o nei pressi di contrade, dei pilastrini di pietra, alti circa un metro, di fattura molto semplice, formati da una colonna a parallelepipedo rettangolare, con incisa una grande croce in bassorilievo, e sormontata da un capitello a forma di pentagono irregolare, pure quello scolpito a bassorilievo, le cui figure effigiano generalmente la Madonna e il Bambino, ma quelle più antiche, del Cinquecento, riportano talora anche altre figure quali San Valentino, San Rocco, San Sebastiano.

 

Anche i vari oratori che si trovano nelle contrade sono dedicati ad un numero piuttosto ridotto di santi , oltre a quelli sopraddetti possiamo aggiungere: Sant’Antonio Abate, San Bovo,  San Leonardo, San Carlo Borromeo, in misura minore San Francesco e San Giorgio.

 

La popolarità di questi santi era legata al fatto che intervenivano in modo molto concreto nelle “faccende” degli uomini che erano semplicemente: la salute, il cibo, il bestiame: erano i sancti adiutores.

 

Vediamone alcuni  in una breve panoramica.

 

Il due gennaio, nelle nostre comunità montanare, ma anche della pianura, si celebrava la ricorrenza di san Bovo, un santo della cui vita si conosce poco o niente, ma, in compenso, c’è una copiosa tradizione orale che ne illustra e magnifica le prodigiose opere compiute. Intorno al Mille, recandosi a Roma in pellegrinaggio, si ammalò a Voghera e ivi morì. Nella stessa città, più tardi, morì un altro santo importante per le nostre montagne: San Rocco. Bovo fu sepolto fuori delle mura del castello, ma il tempo e le guerre cancellarono le tracce della sua tomba. Lo fecero conoscere, però, i numerosi miracoli, tanto che il misterioso pellegrino fu identificato col nome di Bovo e fu destinato alla protezione dei bovini.

 

In Lessinia, meglio e più efficacemente che in pianura, lo venerava come il santo degli animali per eccellenza,  ma anche dei vacàri. Infatti l’iconografia lo raffigura come un robusto cavaliere romano con un bue accanto. Era talmente diffusa la sua venerazione che i Cimbri assicuravano che durante la notte che precede la sua ricorrenza gli animali conversavano tra loro. Quindi era proibito, quella notte, come pure durante la notte di Natale, andar nella stalla a far filò.

 

Un proverbio così contrassegna l’evolversi del tempo in gennaio: El giorno de San Bovo / i giorni jè slongadi un passo de lovo / a Sant’Antonio / on passo de demonio / a San Bastian te gh’è un’ora in man / da la Candelora i giorni s’e gà slongadi de un’ora ... e dell’inverno semo fora.

 

Sant’Antonio abate da sempre è stato venerato, sia in montagna che in pianura, come il santo protettore della salute degli animali domestici. Le figurazioni lo rappresentano contornato da bovini, maiali, capre, pecore, animali da cortile: cioè le bestie che costituivano il patrimonio delle popolazioni montanare e contadine. Ma il maiale, in particolar modo, costituisce l’elemento agiografico più interessante della vita del santo eremita e viene sempre riprodotto ai suoi piedi.

 

Valdiporro. Sant’Antonio.

 

La tradizione popolare lo identifica come rimedio contro il Fogo de Sant’Antonio, l’herpes zoster: infatti i malati bagnavano col grasso del maiale la parte colpita. Per dire quanto fosse tenuto in considerazione il maiale in passato, i frati agostiniani godevano addirittura del diritto di lasciar pascolare i porci della loro stalla anche nelle strade urbane.

 

Ci sono vari proverbi sulla figura e l’opera del santo abate: per esempio «Sant’Antonio il diciassette / che le stalle in festa mette / mette in festa anche il pollaio / nel rigore del gennaio». Come abbiamo scritto più sopra, il diciassette gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, nei nostri paesi di montagna vigeva l’usanza di andare alla messa portando con sé un sacchettino o un cartoccio con del sale rosso da far benedire e poi somministrare nei cibi agli animali.

 

Scrive Dino Coltro: «Non c’è paese che non abbia almeno un capitello dedicato a San Rocco, eretto in funzione apotropaica, cioè a difesa delle malattie epidemiche, in particolare della peste. In questa funzione ausiliatrice il Santo ha sostituito San Sebastiano; ma in qualche capitello, soprattutto nelle “colonnette” della Lessinia si vedono ancora i due santi insieme alla Madonna, conforme ad una tradizione che viene dai paesi nordici».

 

La devozione per San Rocco nacque nel Quattrocento e si diffuse rapidamente a seguito soprattutto di terribili epidemie che colpirono le popolazioni, anche quelle delle nostre montagne.

 

Per esempio: l’epidemia di colera che il Manzoni descrisse nel suo romanzo dei “I Promessi sposi”, nella nostra Lessinia, stando alle informazioni che ci offrono i verbali delle visite pastorali del 1615 e del 1634, cioè quelle effettuate prima e dopo il colera, dimostrano che anche le popolazioni delle montagne furono terribilmente decimate: un 30 per cento di vittime.

 

Il culto del santo di Montpellier si estese dal Vicentino a tutta la regione e le devozioni si moltiplicarono con costruzione di oratori e capitelli. Si può, anzi dire, che non ci sia chiesa della Lessinia in cui non si trovi la sua immagine. Come detto sopra, le “colonnette” lo raffiguravano a lato della Vergine col Bambino, mentre, dall’altra parte, talora era riprodotto San Sebastiano.

Se andiamo a rivedere i verbali delle visite pastorali dei vescovi veronesi alle parrocchie della Lessinia, così tanto per far della cronaca, a partire da quelle del Quattrocento in avanti, troveremo registrata la presenza di almeno un altare dedicato a San Rocco in tutte le chiese, senza contare addirittura le parrocchie intitolate a questo santo, come San Rocco di Piegara e San Rocco di Sprea, ma anche di Campofontana, la quale ha voluto cointitolarla dopo la peste del Seicento.

 

Tra le costruzioni sacre che gli sono dedicate, le più importanti, soprattutto sotto l’aspetto artistico sono: San Rocco del Garzon a sud di Velo Veronese, e San Rocco degli Scali a nord di Bosco Chiesanuova.

Per andar in contrada Garzon di Velo bisogna salire lungo la dorsale per San Mauro di Saline e Velo Veronese; al crocevia per contrada Comerlati, si gira a sinistra e si scende lungo questa strada fino a Prasecche, Vanti, Fondi e Garzon di Sotto.

 

L’oratorio di Garzon di Sotto, di stile gotico, è datato 1576 in una lapide esterna; poi, ovviamente è stato ristrutturato o addirittura costruito ex novo. L’interno è piuttosto spoglio ma lo caratterizzano  alcuni splendidi affreschi e la pala dell’altare che raffigurano San Sebastiano, San Rocco, Sant’Antonio Abate e San Giovanni Battista e al centro la Vergine col Bambino.

 

 

Oratorio Garzon di sotto

 

Per andare a San Rocco degli Scali, si imbocca la strada da Bosco Chiesanuova per La Colletta, Croce, Scala e Scalon: nei pressi, di Scalon, ad un crocevia c’è l’oratorio di San Rocco, preannunciato da una massiccia croce in pietra.

 

Scalon – Oratorio di San Rocco

 

Anche San Sebastiano, come detto sopra, era spesso effigiato nelle colonnette. Il soldato romano martirizzato sotto il tiro delle frecce, fece breccia sulla pietà delle popolazioni, e fu invocato come protettore contro le malattie, in modo speciale contro la peste. Egli sarebbe stato invocato come adiutor contro questa malattia, perché nel 680 a Roma scoppiò una terribile forma di epidemia che scomparve solo quando si ricorse alla sua intercessione.

 

La popolazione era molto devota anche a San Valentino, la cui festa cade il 14 febbraio, perché era l’unico santo che poteva combattere il “mal caduto”, l’epilessia. Uno dei rimedi popolari di un certo potere taumaturgico era conosciuto come “La ciave de San Valentin”, una “trovata” ironica e anomala che una volta veniva eseguita nella chiesa di Castagnaro (Verona) per malati di epilessia. Lo troviamo raffigurato nelle tavolette della scultura popolare della Lessinia con la mitra da vescovo in capo; qualche scultore del nostro tempo l’ha raffigurato insieme con la Madonna, facendolo diventare così un “San Giuseppe”…vescovo. A parte questa forzatura, se i montanari lo hanno voluto nella loro iconografia scultorea, è perché ne avevano un buon motivo: anche lui era un santo adiutore contro le malattie del bestiame con il compito di salvaguardare e proteggere il bestiame dalle malattie infettive. E a lui, nelle chiese della Lessinia, nel passato, sono stati dedicati molti altari e addirittura un paese: San Valentino di Pernigo (San Mauro).

 

Non possiamo chiudere senza citare anche San Leonardo, che si venera tuttora a San Moro di San Mauro di Saline. Come abbiamo raccontato nel capitolo riguardante la chiesa di San Moro,  durante i lavori di restauro della celebre abbazia sono venuti alla luce degli anelli attaccati ai muri di accesso alla basilica. La tradizione orale vuole che ad essi venissero attaccati i buoi durante le feste che si celebravano in onore del santo. Pertanto se venivano condotti animali all’abbazia, vuol dire che al di là del mercato che si teneva, il santo aveva anche questa facoltà: proteggere gli animali della stalla.  

 

Il pane dei poveri

 

Ad Alcenago, si perpetua fin dal 1757 una simpaticissima tradizione: la benedizione e la distribuzione del pane ai fedeli presenti alla messa del santo patrono il 23 novembre. Chi scrive, ha avuto modo di essere presente per ben due volte alla santa messa festiva nel dì di San Clemente e di ricevere, come ogni altro fedele presente alla messa, una ciòpa di pane benedetto che si è poi portato religiosamente a casa e che ha spezzettato a mezzodì, durante il pranzo, ai suoi familiari, come voleva un’analoga antica tradizione presente anche al suo paese. 

 

Ed è venuto così a sapere che nel 1568, il vescovo di Verona, Luigi Lippomano, in visita pastorale ad Alcenago, faceva registrare dal suo segretario l’usanza con queste parole che noi traduciamo dal latino: « …nella predetta chiesa di Alcenago ogni anno si è soliti destinare tre libre di denaro per comprare cera … e tredici quarte di frumento con cui fare pane da dispensare ai poveri…». Nel 1757, il parroco di Alcenago di allora, don Bernardo Merci, a tal proposito, lasciava scritto: «…Lì 23 novembre solennità del nostro S. Protettore e Titolare S. Clemente Pontefice e Martire, Messa solenne, Processione con reliquia e dispensa del pane…».

 

L’usanza di distribuire, in talune occasioni solenni, del pane ai più poveri, era piuttosto diffusa nel passato, tanto che ne troviamo relazione anche in città a Verona e in vari paesi.

 

Abbiamo fatto una ricerca in proposito che non andiamo a ripetere in queste pagine ma che vogliamo ugualmente condensare, perché il lettore conosca quando avvengono alcune di queste ricorrenze e volendo parteciparvi, possa essere informato per tempo. Dopo Alcenago, per restare come si dice in zona, menzioniamo Lugo di Valpantena, a due passi da Alcenago e da Grezzana. A Lugo si festeggia San Apollinare, vescovo di Ravenna, e la statua lignea in chiesa lo raffigura con due pani ai piedi. La sua festa ricorre il 23 luglio o nella domenica più vicina. Anche a Lugo, — vi abbiamo partecipato anche noi per ben due volte — dai tempi che non hanno una data di inizio, il parroco il giorno della solennità, dopo la celebrazione della messa, benedice alcune ceste di pane che poi i confratelli del Santissimo, vestiti secondo l’antico costume, distribuiscono alle porte della chiesa a tutti coloro che sono stati presenti alla funzione.

 

San Rocco di Piegara è un altro paese che ha conservata viva la tradizione di distribuire il pane ai fedeli dopo la messa festiva in occasione della ricorrenza di San Carlo Borromeo, al quale è cointitolata la chiesa del paese e che scade il 4 novembre. Ciò per mantenere vivo il lascito di un certo governatore del posto di cognome Guglielmini che nel 1782 aveva lasciato scritto che «… nella festa di San Carlo siano distribuiti ai poveri due minali di frumento trasformato in pane…».

 

A San Rocco del Garzon (Velo Veronese),  nel dì del patrono, dispensavano fin dal 1645… «dispensandi tria minalia panis frumenti » (tre minali di frumento ridotto in pane).

 

In tantissime altre parrocchie della Lessinia si usava distribuire il pane ai poveri per adempiere ai lasciti di fedeli dei secoli precedenti. Per esempio, a Campofontana lo si faceva il giorno della Candelora; a Cavalo in Valpolicella, come scrive S. Zanolla, il pane veniva distribuito dopo la lunga processione della parrocchia sul monte Pastel, con l‘inconveniente però che «…dispensato il pane, la metà del popolo, ragazzi e ragazze, soprattutto, si allontanavano immediatamente dalla Processione e per diverse vie tornavano alle loro case». Tutto mondo è paese.

 

Superstizioni in Lessinia

 

I Cimbri si portarono dietro in Lessinia, per un verso, tanta fede, tanta fiducia, per l’altro altrettanta superficialità e altrettanta venerazione per gli esseri extraterreni. Devotissimi, con un bagaglio enorme di tradizioni religiose, ma influenzati dalla stregoneria e da una fervida immaginazione, furono estremamente superstiziosi, tanto che ancora oggi qualche persona nutre una certa predisposizione psicologica a credere in talune creature extraterrestri che la fantasia popolare si è creata, forse per sentirsi più vicina, più familiare con il mondo dell’aldilà, che non è mai riuscita a capire e che la religione cristiana non ha mai potuto materializzare, rendere corporeo.

 

Gli “esseri” della fantasia popolare, al contrario, in un certo senso erano più vicini, più familiari, più alla mano, perché partoriti dalle proprie convinzioni, dalle proprie convenienze; a volte quegli spiriti apparivano come creature mostruose o ripugnanti e malvage, come certe “Fade” della Lessinia Orientale; altre, invece, erano buone, socievoli, generose e altruiste, le “Fade” di Camposilvano che insegnarono alle donne, per esempio, ad ottenere la lana dal siero del latte.

 

Gli esseri fantastici di sesso femminile si chiamavano “Fade”, “Anguane e Guandane”, “Sealagan Laute” e “Strie”; le creature di sesso maschile, invece, erano gli “Orchi”, il “Basilisco”, il “Diavolo”, meglio conosciuto con il nome di “Berlicche” o “Berlicchete” oppure ancora “Boke”.   

 

Le “Fade” erano di natura, di aspetto e di conformazione fisica diverse da zona a zona, si diversificavano anche nel modo di vestire e facevano attività differenti. Le “Fade” di Velo e Camposilvano erano persone del contado né più né meno. A Sprea, invece, erano donne che vivevano una vita normale, ma si portavano indosso orrende deformità corporee, come mani e corpo pelosi, piedi terminanti a zoccolo di capra e si cibavano di carne umana. Le “Fade” di Bolca erano donne del popolo, si sposavano con uomini del luogo, potevano avere figli, però non dovevano essere scoperte come streghe, perché allora sparivano dalla terra.

 

A Giazza vivevano la “Genti Beate”, cioè le Sealagan laute, donne bellissime, sempre vestite di bianco, splendenti esternamente, ma il loro corpo non era che la scorza di una pianta, internamente vuota. Ogni anno, il giorno dei morti, scendevano in processione dalle loro tane sui monti circostanti tenendo in mano un tizzone acceso, che era il braccio di un morto. Chi le toccava moriva sul colpo.   

 

A Campofontana, dentro una spelonca scavata nel pieno della roccia, vivevano le Bele Butéle, meglio conosciute con il nome di “Anguane”. Erano donne normali, si sposavano con uomini del posto, ma di notte sparivano e andavano a lavare la biancheria della gente del paese che poi stendevano ad asciugare su lunghe funi tese tra un monte e l’altro, cantando e danzando. Il mattino dopo, prima che albeggiasse, riportavano la biancheria pulita alle case da dove l’avevano ritirata. Cantavano in modo meraviglioso e si trasmettevano l’una l’altra le chiacchierate con grida altissime; tanto che è rimasto il detto “Sigàr come na anguana”. Vestivano sempre di nero. In alta Val del Chiampo, invece, assumevano il nome di “Guandane”. 

 

Dell’Orco in generale si può dire che era una creatura strana, viveva isolato dentro le spelonche, ma si poteva incontrarlo ovunque e in qualsiasi ora del giorno o della notte, perché appariva e spariva improvvisamente, assumeva diverse fisionomie e spesso si burlava della gente, la prendeva in giro col suo fare strambo; talvolta era collerico, talaltra conciliante, placido, servizievole. Guardava a vista “fade” e “anguane” per una corretta esecuzione dei suoi ordini.   

 

Il “Basilisco”, infine, lo si può immaginare come un lucertolone lungo un metro con una cresta rossa sul capo e un’altra lungo la spina dorsale, con due zampette corte, munito di ali e sprizzante fiamme e fumo dalla bocca e dalle narici. Il suo sguardo “incantava” le persone.

 

Il “Diavolo” in Lessinia

 

Ma chi era e com’era descritto il Diavolo nella credenza popolare della gente della Lessinia? Ezio Bonomi, scrupoloso raccoglitore delle tradizioni popolari di questa nostra montagna, ne ha tracciato una voluminosa descrizione della quale cercheremo di riassumere i concetti essenziali facendo riferimento anche alle nostre personali ricerche in merito. 

 

La fantasia popolare lo concepiva «…come un caprone dalla cintola in giù, con zampe pelose e unghie da cavallo, busto da uomo, mani con unghioni che stringono un forcone, viso rosso con naso adunco, occhi roteanti e luminosi, corna dritte e aguzze, sopra la fronte». Di norma trovava albergo in grotte e caverne a Roveré Veronese, a Giazza, a Campofontana e, generalmente, giù in valli profonde e scure e sotto dirupi scoscesi. In Veneto, come scrive E. Gleria, le grotte e le caverne a lui attribuite come abitazione erano una ventina; in Lessinia, dopo Contrà Ca’ del Diaolo, una località con un termine di riferimento al diavolo si trova a nord di Mizzole, nella bassa collina veronese. 

 

Da noi, in area cimbra, dopo il termine “Diaolo”, si registrano altre definizioni: Demonio, Berliche, Berlìchete, Coce, Tauval, Tschip, dar Valtsche (il falso), dar Alte (il Vecchio). Egli, diaolo o berlìche che sia, è descritto come personaggio semplicione, che si lascia truffare facilmente, che si fa imbrogliare. E sono altrettanto numerose le inclinazioni immorali di questo personaggio: sfrutta l’egoismo, si intrufola dove ci sono discordie, si trova a proprio agio nel disordine, segue la corrente, sta dalla parte dei vincitori, parteggia apertamente per i ricchi e dà sostegno alla fortuna di chi non la merita, opprime i poveri, ha i suoi seguaci e ammiratori… 

 

Il suo regno è l’inferno, sottoterra. E’ una azienda la sua, anche se dentro trionfano confusione e discordie; ma lui governa indisturbato dal suo trono, situato in una zona centrale, impartisce ordini, fa risalire sulla terra i suo satelliti per tentare e incatenare gli spiriti più deboli. «Per vederlo, scrive Bonomi, bisogna attendere la mezzanotte del primo giorno dell’anno, appostati a un crocicchio, dopo aver infilato il collo tra i due denti di un forchéto…».  Nell’inferno ci son anche i suoi emissari i diaoléti, veri famèi, che svolgono mansioni specifiche, come attizzare i fuochi, torturare i dannati, avvisare il “capo” di intemperanze e marachelle dei guardiani e via dicendo.

 

Un proverbio dice che all’inferno ormai non ci va più nessuno perchè è pieno di pigossi, cioè di pagliacci, di imbroglioni, di semplicioni. Non ci va più nessuno perché, continua il proverbio, l’è pien macà,  e ghe n’è fin uno che vansa fora col cul.  Nel passato ci sono andati personaggi di vaglia, come la madre di San Pietro. Al riguardo si racconta una storia che parla del favore che San Pietro chiese al Signore di tirar fuori sua madre dall’inferno dov’era stata confinata per essersi dimostrata egoista, maligna e invidiosa. Fu calata una corda dal paradiso alla quale la madre si attaccò; ma altri dannati ne approfittarono e tentarono di attaccarvisi pure loro. La vecchia però li cacciò via ma subito la fune si ruppe e tutti riprecipitarono nell’inferno. San Pietro se ne lamentò col Signore e allora fu deciso di farla uscire solo per qualche giorno una volta all’anno. Ecco perché nei giorni che ruotano attorno al 29 giugno, festa di San Pietro, ci sono spesso temporali e  si scatenano furiose grandinate: si dice che «È la mare de San Piero». che le suscita, perché è costretta a tornare all’inferno. 

 

L’orco

 

Da Podestaria, passando lungo la vecchia strada pianeggiante che unisce le malghe di mattina dell’altopiano con quelle di sera, si cammina su una specie di confine tra il Veneto e il Trentino. Una serie di piccoli rilievi che, dal bivio che sovrasta la Malga Gasparine Davanti, porta al Monte Castelberto, sono detti in termini popolari “I cordoni” e segnerebbero i vecchi confini tra le due regioni; anzi, meglio ancora, i limiti di sicurezza posti dalle guardie frontiera. Di là dai “Cordoni” s’incontrano le “montagne” delle Scortighere, come sono dette dal popolo.

 

Anche lassù arrivarono le leggende concernenti le “fade”, le “anguane”, le “genti beate”, l’orco ecc. che incutevano paura alla gente. Una di queste leggende racconta che: «Un uomo della contrada Roncari di Campofontana una volta dovette recarsi alla malga delle Scortighère sui Lessini centrali. Dopo essere transitato per Giazza ed aver affrontato la dura salita delle “Gosse”, si inoltrò attraverso i pascoli dei Pàrpari. Essendo, però, molto lungo il camino ancora da compiere, ad un certo punto raccolse da terra un bastone per appoggiarsi e rinnovare le forze. Ma più andava avanti e più quel bastone pesava. Stanco di portarsi dietro un peso in più di quello che già aveva indosso per le necessità della malga e che continuava ad aumentare, infastidito, quando fu nei pressi della Pozza dei Confini, nella zona delle Pótteghe, vi buttò dentro il bastone, accompagnando il gesto con una volgarità. E subito, al centro della pozza, vide alzarsi dritto in piedi, se così si può dire, il suo bastone che, sghignazzando in risposta alla sua parolaccia, gli disse: - Hai visto? Te l’ho fatta!”  La gente dice, ancora una volta, che quello era l’Orco.