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In Lessinia tra malghe, contrade e "memorie"

Piero Piazzola, Bepi Falezza

a cura di Anna Solati

 

fotografie di A. Scolari

 

Lago Boaro, panoramica.

 

Prefazione

 

Queste schede hanno tre protagonisti: Bepi Falezza, Piero Piazzola e la Lessinia.

 

Mentre scrivevo la  sua biografia  Bepi Falezza,  durante un colloquio, mi mostrò una ricca raccolta di acquetinte che riproducevano ville e corti di San Martino e dintorni e malghe e contrade della Lessinia. Oltre alle stampe aveva anche un grosso numero di quaderni da disegno pieni di bozzetti dei soggetti di cui ho scritto sopra.

 

Come si era procurato queste immagini? Quelle che si riferivano ai nostri dintorni esplorando il territorio in bicicletta. Quelle della Lessinia percorrendo strade e sentieri a piedi.

 

Ogni tanto quando un soggetto lo ispirava si fermava e con tratti precisi ne faceva esatti schizzi  che a casa trasformava in disegni finiti. Di alcuni di essi, nelle sere d’inverno, faceva incisioni, magari per preziosi biglietti di auguri agli amici, altri andavano ad arricchire la sua raccolta che comprende non più di cinque pezzi stampati per ogni soggetto: una collezione artistica purtroppo visibile solo a pochi.

 

Della sua produzione di acquetinte sul nostro paese, nel 2005,  ho curato la mostra corredata dalle schede storiche dell’architetto Sergio Spiazzi.

 

Ho pensato che lo scopo di quell’esposizione era stato un rivolgersi ai concittadini delle vecchie famiglie di San Martino. Mentre mostrare i luoghi della Lessinia sarebbe stato un affettuoso ritorno alle origini per quei molti che, per sfuggire a una grama vita, erano venuti ad abitare in pianura nel dopoguerra, ma che erano sentimentalmente legati alla terra da cui provenivano.

 

Bisognava trovare un esperto che compilasse le schede e chi lo poteva fare meglio di Piero Piazzola, illustre conoscitore del folclore e della storia delle nostre montagne?

 

All’epoca il Maestro aveva 82 anni e una salute fragile eppure quando gli parlai del mio progetto accettò subito con entusiasmo di dare il suo indispensabile contributo. Ma chi l’ha conosciuto sa che qualsiasi proposta di un nuovo lavoro lo trovava sempre disponibile. Anzi oltre alle schede relative alle acquetinte si offrì di preparare anche degli scritti di folclore e di rivedere il suo saggio sui cognomi dei nuclei famigliari di San Martino Buon Albergo che comprendevano molti concittadini originari proprio delle nostre montagne.

 

Ho pensato che forse sarebbe stato meglio aggiungere ai disegni anche le relative fotografie in modo da mostrare che l’artista, pur nella sua libertà di creazione, non aveva inventato niente, che tutto era esatto nei minimi particolari. Così è incominciata  la caccia fotografica perché i soggetti di Bepi non sempre erano gli edifici più importanti di una contrada, ma squarci particolari che in quel giorno lo avevano ispirato: bisognava andare sul posto con il disegno e cercare quello a cui lui si era riferito.

 

A volte poi, grazie ai suoi mezzi, l’artista aveva potuto realizzare prospettive difficili da rendere con la macchina fotografica.

 

Più spesso ci si è trovati davanti alla presenza banale dell’uomo con le sue automobili parcheggiate dovunque, con materiale di riporto abbandonato in corti storiche, antenne satellitari, cartelli stradali, silos di mangime, ecc.

 

Bepi ha potuto eliminarli, noi, con il nostro occhio meccanico, no.

 

Mentre andavamo in giro a fotografare ci accorgevamo che certi posti non erano più quelli dei disegni, infatti alcuni di essi risalivano agli anni ’90, i luoghi si presentavano ristrutturati, diversi dall’originale, o in abbandono.

Contemporaneamente, si scoprivano, per noi che c’eravamo sempre passati distrattamente, piccole contrade, magari un pugno di case, di una bellezza poetica, modesti capitelli segno di devozione popolare, e tanti altri luoghi di una poesia profonda.

 

Allora affiorava in noi il desiderio che a nessuno venisse più in mente di ristrutturare il restante!

 

Stranamente ci è capitato di osservare un recupero abbastanza fedele all’originale ad opera di “foresti”, mentre gli abitanti del luogo o i loro discendenti, si sono spesso abbandonati a risistemazioni di dubbio gusto. Con i nostri occhi abbiamo visto porte e finestre tinteggiate di un rosso vivo, stile autopompa dei vigili del fuoco, oppure colonne di marmo “tutte ricavate da un pezzo unico” che costituivano il patio di una villa stile “Via col vento” in cima a una collina nella zona di Erbezzo. L’elenco sarebbe lunghissimo, lasciamo perdere.

 

La poesia e l’armonia di colori che si sono venuti formando nel corso dei secoli vive in un delicato e fragile equilibrio, nella Lessinia le pietre parlano, non solo quelle che limitano le vecchie vie, ma anche i muri a secco delle case, i tetti a tesa cimbra così caratteristici, le fontane, le croci, le semplici pitture sui muri delle abitazioni. Spesso quando oggi interviene l’uomo questa voce ancestrale viene soffocata maldestramente e muore.

 

Dopo Roverè, sulla strada che porta a San Francesco, c’è un bivio segnato da una vecchia edicola da cui è stata trafugata l’immagine, si scende in una corte: lì si trova ancora l’intatta contrada di Vanti, è così da sempre…: è la Lessinia dei Cimbri.

 

Oltre all’apprezzamento estetico è affiorata anche un’altra emozione fortissima. Pensavamo: a quegli uomini e a quelle donne che, partiti chissà con quali mezzi dai lontani paesi d’origine, erano arrivati in questa terra, simile alla loro, ma in un certo senso diversa, perché più aspra e dura; al patto stipulato con il Vescovo Della Scala; al loro cominciare dal niente una nuova vita, costruendo letteralmente tutto con le proprie mani.

 

Soli, a contatto con la natura, hanno saputo farsela amica in modo tale che niente di quello che offriva andava sprecato: le case costruite con la massima esposizione al sole, addossate l’una all’altra, le poche sorgenti sfruttate, usati persino i ritagli del legno e ogni contrada era fatta in modo da essere autosufficiente.

Certe contrade sono state costruite in posti dove ogni sasso è stato letteralmente strappato alla terra e tutto ci parla di una fatica paziente, costante e inesauribile.

 

Dopo questi primi coloni, era venuta anche altra loro gente, spinta dalla fame o attirata dai racconti, ma le dure terre concesse a maso non erano in grado di sostentarla. Allora ecco i nuovi arrivati salire verso la montagna più alta a cercare dove stabilirsi e anche qui sorgere gruppetti di case strette strette e tutto organizzato in modo da sopravvivere ai raccolti ingrati, agli inverni durissimi. Unico conforto la fede degli umili: per pregare c’era un capitello, una croce, più tardi un oratorio, unico svago raccogliersi durante le lunghe e fredde sere d’inverno al caldo delle stalle a fare filò.

 

La religione, il raccontarsi in quei momenti di comunanza, sono stati il cemento e la forza di quelle comunità, lontane tra loro sulle montagne, eppure coscienti dell’identità comune.

I disegni che vedrete sono fatti con tre tecniche diverse: alcuni, i più grezzi, sono veri e propri bozzetti, quelli fatti sul posto, altri quasi degli acquerelli, perché Bepi a casa ci ha lavorato su con l’intenzione di trasformarli nelle acquetinte che sono il terzo tipo di illustrazione.

Abbiamo deciso di lasciarli in queste vesti come testimonianza del metodo di lavoro dell’artista.

 

Un altro gruppo di schede il Maestro l’aveva dedicato al folclore.  Conosceva tante storie, curiosità notizie, aveva tanti ricordi personali e scoperte che aveva fatto consultando gli archivi parrocchiali.

 

La terza parte del lavoro che prende il nome di: “Riscontri con i cognomi storici dei XIII Comuni presenti in un paese della provincia di Verona” era prevista fin dall’inizio, perché come abbiamo già osservato, verso la fine degli anni quaranta le nostre montagne, a causa della grande miseria, hanno subìto un esodo massiccio verso quasi tutti i paesi ad economia contadina.

Il nostro intento che era di fare un’opera semplice da presentare ai concittadini, si è ingrandito e fatto più complesso e riteniamo che possa essere apprezzato anche dai tanti che amano i Lessini.

A questo punto potremmo dire di avere finito il nostro impegno. Sentiamo però una sensazione di incompletezza: ci sembra di aver tralasciato qualcosa di importante perché ci restano troppe immagini di altri luoghi che abbiamo incontrato e “dovuto” fotografare per la loro bellezza, troppi disegni di Bepi che sono stati riposti nel cassetto. Anche noi siamo stati presi dal fascino sottile della Lessinia, un fascino che avvolge chi, andando per i suoi sentieri e le vecchie strade (l’automobile bisognerebbe dimenticarla), le si avvicina con discrezione e rispetto.

 

Camminando si arriva in luoghi dove in ogni stagione i colori rinnovano lo spettacolo dei suoi paesaggi.

 

Per questo le schede non sarebbero complete se non iniziassero con la poesia del maestro Piazzola: “’L me paese” una dichiarazione d’amore che la abbraccia simbolicamente.

 

Anna Solati

 

  

'L me paese

 

'Na snissolà de prà,

destési a la rinfusa,

coalche busa

e 'n gran tendon de èrbe.

'Na brancà de sime descoèrde

'na gran copa de blu che sluse

'l Spiss, la Formiga, le Buse,

le Lobie, i Dossi, l'Anghetàl,

i Spièsse, i Grabe, 'l Veciombàl.

 

Tra coél vérdo, a mucéti,

desperse, scoàsi 'ncantonè,

disdòto contrè,

strache, spaise, vècie,

destrute, sconte, co' le récie

sémpar vèrte al sol,

che 'l le scalda, coando 'l vol,

e po' 'l le sconcoàssa de vento.

Passion e, drénto, tormento.

 

Da paron, 'l morde e strassa ,

sti coatro cantoni de casa;

caressa e basa

dossi, fondi e fagàr,

stale, paiari, coèrti, fogolar,

bestie co' 'l muso che fuma,

fòie, fiori, fén che profuma

tèra e aria, gente e cor.

Sentimenti, miserie e amor...

………………

 

Da “Aleluja”.

 

  

 Bibliografia consultata

 

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