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di Sergio Spiazzi

 

Origini del Toponimo

 

Intorno al nome "S. Martino Buon Albergo"

 

Il nome del paese ha sempre suscitato curiosità negli storici i quali non mancarono di scrivere intorno alle origini di tale toponimo.

Cominciamo ad analizzare il nome del paese, che è composto di due parti: la prima, in relazione alla chiesa dedicata a S. Martino; la seconda, ad un luogo chiamato Buon Albergo.

 

Di una chiesa dedicata a S. Martino si hanno notizie a partire dal IX secolo, ed è proprio per distinguere tale chiesa dalle numerose omonime, che di volta in volta la si indicava in relazione al luogo ad essa vicino, come appunto "Bunum Albergum", o "Boni Albergi", o "Bonalbergo", o "Buonalbergo", fino all'attuale "Buon Albergo".

 

Successivamente il nome è stato utilizzato per indicare il nucleo abitato, il centro urbano che cresceva attorno alla chiesa, lungo il Fibbio e l'attuale strada statale.

 

Il perché di una chiesa dedicata a S. Martino, cavaliere romano, vescovo di Tours (nato nel 316 circa a Sabaria, Pannonia e morto nel 397 a Candes, Turenna), probabilmente è da ricercarsi in relazione alla battaglia svoltasi nella Campagna Minore di Verona tra i centri attuali di S. Martino e S. Michele.

 

Nel 489 le schiere di Teodorico batterono quelle di Odoacre e per onorare la vittoria i Visigoti innalzarono una cappella dedicata a S. Martino e a S. Michele, santi guerrieri, popolari ed amati da queste genti.

 

Se tutti si trovano d'accordo suI nome S. Martino, diverse sono le ipotesi su quello di Buon Albergo.

 

Analizzando l'appellativo, lo troviamo composto da due parole: l'aggettivo "Buon" che davanti ad albergo esprime qualità ed "abbondanza", (dal latino "bonus"); ed il sostantivo "Albergo", tipo di edificio attrezzato per fornire alloggio ed eventualmente vitto a chi soggiorna occasionalmente in un luogo; lo stesso che albergheria (dal gotico "haribairg"), cioè: "riparo dell'esercito".

 

Tale sostantivo indica in maniera inequivocabile l'esistenza nel paese di un albergo-osteria-Iocanda, fin dall'alto medioevo, dove si poteva sostare, alloggiare e riposare i cavalli, prima di entrare in città, o nel lasciarla prima di prendere, subito dopo il Fibbio, la strada per Colognola, Vago o Lepia.

L'esistenza di un "albergo" e quindi di un luogo chiamato "Buon Albergo" è documentata da fonti manoscritte a partire dal 1146, ma è in una investitura del 1180 che troviamo " ... aqua flubii a ponte sancti Martini Boni Albergi deorsum usquedum tenet illa clausura et stalla sancti Martini Boni Albergi ... " dove, parlando dei confini di tale feudo, indica il recinto con stallaggio di San Martino che si trovava vicino al ponte sul Fibbio e alla chiesa.

 

Il luogo dove sorgeva corrisponde agli attuali "portegheti", già indicati nell'attuale struttura in una mappa del 1562. D'altronde le foto dei primi decenni dell'attuale secolo ci indicano ancora questa continuità storica del Iuogo "Antico Buon Albergo".

 

“Bono evento” e “Buon Albergo”

 

Nella piazza di S. Martino esiste una lapide dedicata al dio Bono Evento posta circa sessanta anni fa. La tradizione vuole che sia una copia dell’originale.

 

Attualmente la lapide che ha servito da piedestallo alla statua o simulacro della divinità si trova al Teatro Romano. Come noto, il Moscardo ipotizza che il Bono Evento del cippo sia stato interpretato come "Buonalbergo" trasmettendo quindi a S. Martino l'attuale appellativo. 

 

Ritengo che il Moscardo nel 1672 abbia liberamente interpretato l'etimo "Evento" traducendolo in "Hospitio" e successivamente in "Albergo", collegando semplicisticamente il luogo del ritrovamento con la divinità del cippo, visto che S. Martino già da parecchi secoli veniva unito con Buon Albergo in documenti privati o pubblici.

 

L'autore dell'inserto relativo al nostro paese nell'enciclopedia dei comuni d'Italia, parlando del Moscardo dice: "La supposizione dello storico lascia peraltro poco convinto chi realmente intenda risalire all’esatta origine del nome di San Martino Buona Albergo”.

 

Il Biancolini ricerca il significato e l'origine dell'appellativo su documenti storici, facendo un parallelo tra l'esistenza in loco dell'ospitale e chiesa di S. Antonio Abbate e la possibile traduzione di Ospitale in Albergo. Ma ciò storicamente è impossibile, in quanto l'ospitale di S. Antonio viene edificato successivamente al 1211, quindi posteriormente ai primi documenti dove appare l'appellativo Buon Albergo.

 

Come detto all’inizio, la tradizione vuole che il cippo che si trova in piazza sia una copia dell'originale. Tutto ciò è vero a metà in quanto la parte superiore del cippo è una ricostruzione molto ipotetica dell'immagine della divi­nità tratta da monete di epoca romana che il Moscardo disegna nel suo libro. Possiamo definirlo un falso?

 

In realtà l'originale del Teatro Romano, come dice il Mommsen, è una "basis" cioè un basamento modanato mancante del simulacro del dio.

 

In tutta questa storia vorrei ricordare Napoleone il quale, secondo memoria popolare, avrebbe munito iI paese dell'ormai troppo citato appellativo. In realtà qualcosa di vero c'è; infatti è solo a partire dal 1812 che in una mappa del territorio veronese appare il nome completo del paese, il quale durante la Repubblica Serenissima veniva individuato solo come "San Martin" o "San Martino".

 

Quindi i francesi ufficializzarono ciò che la tradizione da secoli aveva tramandato, distinguendo il paese da altre omonimie.

 

 Storia

 

La romanizzazione del territorio di San Martino

 

Il territorio di S. Martino in epoca romana era caratterizzato da una presenza abitativa soprattutto rurale. Le aree dove maggiormente si sono trovati reperti romani sono localizzate nella valle di Marcellise (nome di chiara origine romana). Un'altra area posta a sud di Campalto, chiamata Centegnano, fu bonificata in epoca romana come il nome suggerisce, con diversi ritrovamenti del I secolo d.C., tra cui tombe e vasi in terracotta.

 

Un recente studio ha stabilito che i suddetti territori si trovavano ai margini ovest di una vasta centuriazione (suddivisione dei terreni dell'agro pubblico in quadrati risultanti di cento parcelle o sortes) comprendente le campagne poste tra le località di S. Martino, Illasi, S. Bonifacio e Belfiore.

 

Tale colonizzazione si era insediata attorno a tre strade, le quali proprio a S. Martino si diramavano in direzione est. Iniziando da nord si trovava la via che portava a Colognola (attualmente esistente e coincidente con via Piave-Feniletto), poi la via Postumia (l'attuale strada statale) ed infine la Porcilana che passando per Lepia e Belfiore portava a Cologna Veneta ed Este.

 

La centuriazione sul nostro territorio non era un reticolo regolare, in quanto la conformazione del terreno ne condizionava la distribuzione a quadrati, ma (come risulta da alcune mappe cinquecentesche) una rete di collegamenti tra aree di forma triangolare o trapezoidale.

 

Il Franzoni a proposito del nostro territorio afferma: "Sembra potersi concludere che, in età romana, S. Martino B.A. ebbe importanza come nodo stradale. Tuttavia ha restituito di quel periodo solo scarse vestigia".

 

Infatti poche e frammentarie sono le notizie a tale riguardo. La scoperta più importante è avvenuta nel 1866 vicino alla località Palù, alle pendici della collina di S. Briccio, nel fondo del signor G.B. Marchesini. Una relazione del 1884 dice: "La località, specialmente in alcuni siti, presenta tracce di palude asciugata. Alla profondità di circa m. 1,50, s'incontrò il suolo romano, sul quale per l'altezza di un metro si conservavano i muriccioli di otto o dieci stanze, messe l'una accanto alle altre. Ognuna di circa mq.10, aveva il pavimento a mosaico di semplici tasselli bianchi, e le pareti dello spessore vario da m. 0,30 a m. 0,60, costruite coi pezzi di basalte cavati nella parte superiore del colle, e coperte d'intonaco colorato di rosso ... Vi si trovavano sparsi sul suolo frammenti fittili (terrecotte); due lucerne, una delle quali con il bollo FORTlS; una fibula (spilla) di bronzo terminante in pometti sferici. Si scoprì parimenti in quel sito una tomba a campana, formata di un solo pezzo fittile a sezione semicircolare ed una base ellittica, poggiante sul nudo suolo, con entro lo scheletro di un fanciullo, sul cui braccio si conservava un'armilla (bracciale romano) di bronzo chiusa e senza ornamento".

 

Altri ritrovamenti di abitazioni, afferma il Franzoni, sono avvenuti in epoca a noi vicina, in modo casuale, nel fondo Cavaggioni del Fenilon, dove si trovarono tessere di mosaico bianche e mattoni romani vicino a due grossi muri ed in località Ca' Nova dove nel 1960, durante i lavori dell'autostrada, vennero alla luce tracce di muraglie e tessere bianche unitamente a tombe romane a cappuccina. Nello stesso anno, sempre durante i lavori dell'autostrada, in località Guagina, furono scoperte altre tombe romane.

 

Se questi ritrovamenti avvennero attorno alle strade romane principali, altri si segnalarono in zone più appartate, come la collina della Musella, dove nel 1600 si trovò il sepolcro di una donna, la quale come corredo aveva una collana composta da tredici pietre verdi. Sempre alla Musella, nello stesso periodo, venne ritrovata una stele votiva dedicata al dio Silvano, posta dal liberto municipale Gaio Veronio Serviliano a scioglimento di un voto.

 

Mentre a Marcellise quattro furono le lapidi romane scoperte, unitamente a tracce di edifici. La prima, dice sempre il Franzoni, si conserva alla Madonnina: " ... già utilizzata nell'angolo di un muro di contenimento è dal 1970 all'interno della chiesetta. È alta cm. 117, larga cm. 62 ed ha uno spessore di cm. 15. Rappresenta una figura virile in movimento con una mappa nella mano destra, alzata quasi in linea con la spalla; davanti a questa figura, egualmente vestito di una lunga tunica, è un bambino che alza le braccia come per voler prendere la mappa". La seconda, una stele funebre, è dedicata a M. Domitius Montanus, un tempo alla Madonnina, si trova ora presso la famiglia Portinari in località Borgo di Marcellise. La terza, conservata presso la Villa Girasole, porta un'iscrizione inclusa entro cornici ad ovoli. Della quarta non si hanno più notizie; il Mommsen, in proposito, dice che l'iscrizione funebre era conservata presso iI nobile Domenico Marioni a Marcellise.

 

Per ultimo ho lasciato il paese di S. Martino, dove due sono i ritrovamenti avvenuti: il primo (ritrovamento incerto) riguarda il famoso cippo del dio Bono Evento, il secondo, invece, scoperto presso l'attuale Municipio, è relativo ad una lapide votiva dedicata alla gente Cassia, con due nomi della famiglia, Scorpio e Crispus, attualmente conservata al Teatro Romano.

 

Nel 1800 la famiglia Ferruzzi, che abitava dove ora si trova il Municipio, conservava nel parco, oltre alla lapide sopracitata, altre quattro iscrizioni provenienti da Montorio, Povegliano e Verona.

 

In conclusione, anche se scarse sono le vestigia romane ritrovate, esse sono comunque dislocate su buona parte del territorio sanmartinese, a conferma di una colonizzazione e di un passato romano, il quale potrebbe arricchirsi di nuovi ritrovamenti.

 

La Chiesa di San Martino

 

La formazione del paese di San Martino avviene attorno alla sua Chiesa madre e molteplici sono le notizie che la riguardano.

 

la sua costruzione risale probabilmente al V o VI secolo. Una prima traccia ci viene da un manoscritto del XVIII secolo, in riferimento a pergamene del monastero di S. Zeno Maggiore dove riporta: "894. Austerberty 2d. Abbay ex Rotulo Membrano de S. Martino Bonalbergo Dag Anno VII Beringarÿ Rogis signato B in Archivio Abbazia in Calto Scripturaneam de S. Martino Bonalbergo”. La pergamena di cui non si trova traccia, è scritta e rogata sotto l'abate Austerberto e Berengario l, primo re d'Italia (anno 888) nel suo VII anno di regno. Tutto ciò ci permette di indicare con sicurezza una data e quindi di trasportare nel IX secolo l'esistenza della chiesa di S. Martino già da allora soggetta all'abbazia di Zeno Maggiore.

 

Il primo documento verificabile rimane ancora quello datato 26 agosto 1146; è una pergamena in cattive condizioni con parti illeggibili. Si tratta di una scrittura pubblica rogata da notaio Paltonario nei pressi della “Ecclesie sancti Martini, in loco ubi dicitur Bonum Albergum". In tale manoscritto i degani (decani) Uberto Danioto e Giovanni Ardrigo, quali rappresentanti di tutta la vicinia (territorio) “de eodem loco lavagno” (del luogo di lavagno), danno a titolo di donazione e transazione alla chiesa di S. Martino, soggetta al monastero di S. Zeno Maggiore, due pezze di terra “de loco et fundo lavagno" di cui una detta "malonco". Inoltre danno il diritto di godimento dei comuni, come i consorti in monte e in piano: “nullam tantum viattam et nullus opus et nullam pubblicam functionis" quindi senza obbligo di guaita (tributo per la guardia), opere (lavoro) e pubbliche funzioni (pagamento imposte). Tali godimenti permettono alla chiesa di S. Martino un'amministrazione indipendente dal monastero, a cui rimaneva comunque soggetta.

 

Infatti il secondo documento ci indica come custode della chiesa, "adam" converso (fratello laico) del monastero di S. Zeno. La pergamena, del 20 aprile 1163, tratta di una donazione fatta ad Adam "conversum ecclesie sancti Martini Boni AIbergi " da parte di Giovanni figlio del fu Bonifacio con il consenso della moglie Benfata, di alcune terre, ponendovi alcune condizioni per mantenimento suo e della moglie. Tali terreni si trovavano a “monti aurei (Montorio) in valle larga de supra olivedum (Olivè) et est in valle fontis" e “de petia una de terra que est in valle lovara da sancto Martino".

 

In dicembre dello stesso anno Federico l, detto il Barbarossa, riceve sotto la sua protezione Gerardo abate del Monastero di S. Zeno e lo stesso Monastero e ne conferma i possessi, tra cui "ecclesiam S. Martini prope Fluvium cum pertinentijs".

 

Altri documenti del XII secolo, riferiti alla chiesa di S. Martino, riguardano la conferma con i possedimenti di questa al Monastero di S. Zeno da parte di Papa Lucio III nel 1184 e da Papa Urbano III nel 1187.

 

La Bolla Pontificia di Urbano III è indirizzata ad Ugone, abate della Badia di S. Zenone di Verona, ricevendolo in protezione con conferma dei possessi e delle chiese soggette alla Badia, tra cui “l'Ecclesiam S. Martini de Bonalbergo cum decimij et alijs pertinentijs suis".

 

Dunque la chiesa nel XII secolo aveva già diverse terre e diritti di decime (la decima parte del raccolto...) che le permetteranno di avere, con successive donazioni, una maggiore autonomia nei confronti del monastero fino ad assicurarsi nel 1532 di essere parrocchia con rector.

 

I priori dal XV al XVII secolo

 

Il primo priore lo troviamo in una pergamena del 17 giugno 1427 dove si legge: “ln Ecclesia Sancti Martini de Bonalbergo extra muros Civitatis Veronae" alla presenza del notaio “Baldini" (con testimoni del luogo e di numerosi ecclesiastici tra cui il priore "Ecclesiae Sancti Appolinaris de Lugo”), viene data in possessione e tenuta, dal monastero di S. Zeno, a Benedetto qu Filipini di Verona, il quale diventa legittimo priore e rettore, la chiesa di S. Martino Buon Albergo.

 

Dal 1427 al 1624 (anno in cui inizia una regolare cronologia), 10 sono i priori emersi dai documenti dell'Archivio Storico della Curia Vescovile, ma molti rimangono sconosciuti. Se Benedetto qu Filipini è il primo, il secondo è Valeriano di Vigasio che, morendo nel 1457, viene sostituito da Giovanni Pellegrini.

 

Non abbiamo più notizie fino al 1532, anno in cui troviamo priore Francesco Cermisoni. Infatti nel libro delle visite pastorali sotto la data del 5 giugno 1532 troviamo: "Visitavit insuper parro.li Ecclesiam Sancti Martinj Bonalbergi" nel quale è rettore, sotto la giurisdizione del monastero di S. Zeno “Francesco Cermisonus" con salario di ducati venti.

 

Più regolare è la serie successiva, dove a Darmien Andrea Correr, che muore nel 1547, succede Antonio Palest(r)ina che rimane fino al 1551. Lo stesso anno viene eletto Giovanni Battista Leali, mentre nel 1554 troviamo Angelo Sablonet,. Molto lungo è il priorato di Geronimo Calsono che dura 43 anni, dal 1565 al 1608 sostituito da Pietro Donato Gavinelli (1608­1621).

 

Dal 1624 inizia la serie conosciuta ed elencata nell’opera di G.B. Stegagno Guida di San Martino e dintorni.

 

 

Fatti d'arme narrati dagli storici

accaduti nel territorio di S. Martino

 

 

A causa della sua particolare posizione di importante nodo stradale San Martino fu un punto strategico di passaggio di eserciti stranieri e campo di battaglia negli scontri tra forze nemiche.

 

anno 489 Fatto d'arme tra Odoacre e Teodorico nella Campagna Minore di Verona tra San Michele Extra e San Martino Buon Albergo.

Dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente Odoacre re degli Eruli, divenne il rappresentante  in Italia dell'imperatore di Bisanzio.

Ma i successi  di Odoacre: la campagna contro i Vandali in Sicilia e l’annessione della Dalmazia preoccuparono l’imperatore che gli invio contro Teodorico re degli Ostrogoti.

Scendendo in Italia dal Friuli con un esercito di forse trecentomila soldati Teodorico riuscì vincitore in un primo scontro sull’Isonzo il 28 agosto 489.

Odoacre fu costretto a ritirarsi nella “campagna minore veronese” tra l’Adige e le colline di Marcellise e San Briccio.

 

Il 30 settembre 489 tra San Martino Buon Albergo e San Michele in campagna si svolse una sanguinosa battaglia. Gli Eruli sconfitti fuggirono verso sud attraverso “Campum Altum” (Campalto) e “Manum Abruptam” (Mambrotta) fino all’Adige. Gli scampati, tra cui Odoacre, riuscirono a guadare il fiume e passare a Debium.

 

(Maffei - Dell'lstoria di Verona ­parte prima - libro nono - pagg. 434-435) - "Andò Odoacre a combatter Teodorico, ma n’ebbe la peggio. Non vi era più Aquileia, che potesse far’ argine a’ vittoriosi, però Odoacre si ritirò a Verona, e raccolte le forze, a’ 27 di settembre pose gli alloggiamenti nella minor Campagna: tanto si legge nell’ottimo Autore anonimo edito dal Vaselio a pie d’Ammian Marcellino. Teodorico senza metter tempo in mezzo venne a combatterlo: seguì il conflitto nella famosa pianura, teatro di tante celebri battaglie: la vittoria fu de’ Goti, e de’ vinti molti ne distrusse il ferro sul campo, molti co’ suoi rapidi gorghi I’Adige nella fuga. Così leggesi nella Miscella, dove si aggiunge, nell’istesso calore della vittoria, e nella confusione de’ fuggitivi essere stata occupata Verona. Riempito di cadaveri dice Ennodio in quel fatto d’armi il chiarissimo tra i fiumi (fluoviorum splendidissime)".

 

Odoacre si rifugiò a Ravenna dove, dopo quattro anni di assedio, venne ucciso lasciando il potere a Teodorico che dominò incontrastato per 33 anni.

 

Gli Ungari.

Questo popolo che già nell’899 all’epoca di Berengario del Friuli aveva razziato la “campagna minore veronese” ricomparve nel 930 e oltre a saccheggiare nuovamente la zona di San Martino devastò le chiese di San Nazaro e San Fermo che si trovavano fuori dalle mura di Verona.

   

anno 1235 Periodo di transizione fra il Co­mune e la Signoria.

 

Il XIII secolo si aprì con una serie di lotte intestine tra famiglie veronesi per il potere della città e del territorio. Infatti quella del Conte di Sanbonifacio (di parte guelfa, cioè vicina al Papa) si scontrò con la casata dei Montecchi o Monticoli (di parte ghibellina, vicina all'imperatore) in una serie concitata di battaglie e di accordi. I fatti più sanguinosi si svolsero tra Rizzardo di Sanbonifacio ed Ezzelino, il quale proteggeva i Montecchi, dal 1226 al 1239 allorché i capi del partito guelfo vennero messi al bando.

 

In una di queste fasi si svolse l'episodio raccontato dagli storici a San Martino. Il Pontefice Gregorio IX aveva mandato due legati (ambasciatori), nelle figure di Messer Nicolò Vescovo di Reggio e Messer Tizzon Vescovo di Treviso per porre fine agli scontri tra Sanbonifaci e Montecchi.

 

Moscardo - Historia di Verona ­libro ottavo - pagg. 174-175 “li Vescovi di Regio, e di Trevigio huomini di molt’auttorità, i quali giunsero a’ Verona li 28 d’Aprile del 1235, ricevuti da’ tutto il popolo con molto honore: Giunti chiamarono i quattro vinti (così chiamati all’hora, che erano gl’ottanta Senatori del Conseglio) con Ranier Baganello Perugino, che era stato eletto Podestà, e i principali de’ Monticoli, al quali esposero, che S. Santità ...” desiderava in Verona una pace duratura e che fosse posto fine a tutti gli scontri tra le due famiglie. “I Legati aggradita tanta dispositione, subito chiamarono il Sanbonifacio con i suoi principali adherenti a' S. Martino Bonalbergo, dove i Legati gli parlarono col medemo tenore, che haveano con i Monticoli: Risposero i Sanbonifaci, che già mai si erano partiti dall'obedienza di Sua Santità, che erano prontissimi ad'ubbidire, e accettare ogni ragionevole accordo, promettendogli d'esser buoni Cittadini alla lor Patria. Havuta così honesta risposta, ritornaro subito nella Città, e diederono ordine, che il giorno seguente nella Campagna di S. Martino alla presenza degl'uni, e de' gl'altri si publicasse la confirmatione, e osservatione della pace, il che seguì con universal' applauso di tutti i Cittadini, e di tutti quelli del Contado, sperando da questa confirmatione vivere in maggior quiete, che per lo passato non havevano fatto".

 

Ma la pace durò pochi mesi, infatti il 24 gennaio 1236 il conte Rizzardo venne di nuovo cacciato e Burgarello, podestà, espulso. La lotta continuò fino al 1239 quando l'imperatore Federico Il (intanto Ezzelino ne aveva sposata la figlia) pubblicò il bando contro Rizzardo di Sanbonifacio.

 

anno 1509. Stegagno - “Nelle sue Storie il Guicciardini (Libro VIII) fa menzione di S. Martino. È qui che troviamo accampato l'esercito veneziano nell'ottobre del 1509 durante la Lega di Cambrai.

Di questo sono due episodi della guerra dei veneziani contro l'imperatore Massimiliano d'Austria, il Re di Francia, il Papa, ed altri.

Ai primi di ottobre di quell'anno gli alleati padroni di Verona e assediati da lontano dai Veneziani, fecero, come spesso facevano, una sortita per rifornirsi di viveri. Erano usciti alla "scorta" come si chiamava allora, Carlo Baglione, il Visconte Sagramoso e Federico di Bozzolo con molta truppa. I due primi furono fatti prigionieri dai Veneziani in una piccola battaglia avvenuta a S. Martino con gravi perdite di uomini da ambe le parti. Tutta la scorta sarebbe stata annientata se non fossero accorsi in gran numero cavalieri francesi in soccorso degli alleati. Lo scontro sarebbe avvenuto tra il Drago e la Valloara (Valle dei lupi, che è una bellissima valletta insinuantesi con un laghetto tra la collina) perché ivi furono rinvenuti oggetti militari e monete del tempo di cui conserva alcuni pezzi il rag. Peretti C. studioso di cose locali.

Il secondo episodio è il seguente: I Veronesi soffrivano malvolentieri le soverchie prepotenze delle truppe alleate, lasciate senza paga per parecchio tempo, per cui i privati cittadini s'indussero ad accodarsi segretamente coi Veneziani, qui accampati per liberare la città.

Infatti i Veneziani poterono entrare in città da porta S. Giorgio (che era stata loro aperta dal nobile Benedetto Pellegrini conte di Campalto), ma mentre stavano scalando le mura di Castel S. Pietro, dove alloggiavano i tedeschi, furono scoperti e respinti dimodoché dovettero ritirarsi all'alloggiamento vecchio di S. Martino.

Anche il Machiavelli nelle sue Storie ricorda l'accampamento fatto dai Veneziani a S. Martino. “

 

anno 1701. durante la guerra di successione spagnola il Principe Eugenio di Savoia, comandante dell’esercito austriaco, scese in Italia per conquistare la Lombardia contro i francesi e si accampò a San Martino.

 

 

Napoleone e S. Martino

 

Nel 1796 a soli 27 anni Napoleone fu nominato Generale in capo dell'armata d'ltalia e, varcate le alpi e battuti austriaci e piemontesi, si impossessò del Piemonte e della Lombardia attestandosi a Peschiera caposaldo fortificato avanzato.

 

Gli austriaci, ritirandosi, occuparono territori della Repubblica Serenissima, la quale cercò di rimanere fuori dalla guerra, anche se l'avanzata dei francesi spaventò il governo veneziano e soprattutto veronese che chiese protezione alle armate austriache.

Napoleone, dal canto suo, vista violata la neutralità della Serenissima, puntò su Verona occupandola senza colpo ferire il 1 giugno 1796 con un esercito di 12.000 uomini "con elmi alla foggia romana, ombreggiati da folta criniera ".

 

I francesi non lasciarono un bel ricordo. I cronisti dell'epoca parlarono di razzie, di gente in fuga che cercava scampo a Vicenza, nel Polesine e soprattutto di violenze e ruberie.

 

Verona divenne per la sua strategica posizione luogo di scontri per diversi anni, fino al 1814. San Martino fu di conseguenza zona di guerra, area di scontri, di scaramucce.

 

Una lapide posta sopra al "Bar Napoleone", nell'omonima piazzetta, ricorda il passaggio e la sosta nella notte del 10 novembre 1796 (come vedremo era la notte dell'11) del generale Bonaparte prima della battaglia di Caldiero.

 

La tradizione vuole che Napoleone, soddisfatto del trattamento ricevuto abbia, aggiunto al nome del paese l'appellativo di "Buon Albergo" (S. Martino era chiamato così fin dal 1146).

 

Osvaldo Perini nella sua "Storia di Verona dal 1790 al 1822" racconta: "A tre ore (ore 15 dell'11 novembre 1796) i repubblicani (francesi) si posero in via. L'avanguardia s'incontra colle prime vedette tedesche accantonate nella terra di San Martino: le assalirono con impeto e le ributtarono al di là del Vago verso Caldiero, ov'erano gli alloggiamenti d'Alwinzy (generale austriaco).

A sinistra i repubblicani impadronironsi del colle di Lavagno e della strada d'Illasi, ed a destra occuparono la pianura sino alle rive dell'Adige (alle basse di San Martino) ... ma essendo già notte, smesso il combattere vi si posero a campo".

 

E quella notte Napoleone soggiornò a San Martino perché il 10 novembre il paese era ancora in mano alle truppe austriache dell'Hohenzollen che avevano occupato il villaggio e le alture soprastanti, mentre Napoleone si trovava tra l'Adige e il Mincio a raggruppare le truppe francesi.

La notte dell'11 novembre i francesi erano disposti su una linea nord-sud passante per il paese di San Martino.

Era una notte buia e piovosa con le truppe in posizione pronte per lo scontro del giorno successivo, che per la storia sarà ricordata come la battaglia di Caldiero.

Allo spuntare dell'alba del 12, i primi a muoversi furono i francesi che riuscirono dopo vari scontri a penetrare fino a Colognola ai Colli e Caldiero, dove gli austriaci, dall'alto del paese, posero una dura resistenza ricacciando dopo vari scontri le truppe napoleoniche nella città di Verona, dove il Bonaparte si preparò per la vittoriosa battaglia di Arcole del 17 novembre 1796.

La battaglia fu così intensa che “ad Arcole a Villanova e Caldiero più non vedevansi né porte né finestre, alle case né un albero in piedi”.

Per altri anni San Martino fu al centro di scontri sanguinosi, di razzie, di sofferenze e di carestie, fino al 1814, quando, dopo 17 anni, Napoleone lasciò Verona in mano agli austriaci.

 

Il Generale Suvarov a San Martino

 

Tra la caduta della Repubblica Veneta (1797) ed il consolidarsi dell'Impero napoleonico (1806) nel territorio veronese si registrarono avvenimenti di ogni genere, tra i quali uno dei più interessanti e poco conosciuto riguarda il passaggio e la permanenza dell'Armata Russa del generale Suvarov a Verona, scesa per dar man forte alle truppe Austriache contro quelle Francesi.

 

Eran tutti vestiti di verde e con un berretto in testa, paltò e pettorina, di color giallo, e con I’Arma dell’Imperator della Russia che quasi è simile a quella del nostro, con I’Aquila” osservava l'oste Alberti nelle sue curiose memorie, "e tutti con la lancia in mano cantavano in musica a dieci alla volta zufolando con la bocca e con sonajoi.

 

I russi rimasero a Verona tra il 1799 ed il 1800 con un esercito costituito da diverse migliaia di soldati con al seguito donne e bambini.

 

La Deputazione Territoriale smistò a S. Martino gran parte del convoglio russo avvertendo “che il Comune non dovrà far mancare a loro il necessario”.

 

Data l'impossibilità di accogliere tutta la truppa russa, il sindaco di S. Martino, Pietro Gazzolato, fu obbligato a smistare l'eccedenza nei Comuni limitrofi di Lavagno, Marcellise e S. Michele in Campagna.

 

Una sua lettera osservava che “arrivato nel giorno seguente del 21 (aprile 1799) con un numero grandissimo di cavalli d’attiraglio (da tiro), ed altri ad uso dei soldati, vedendo l’impossibilità del ricovero e dell'occorrente foraggio nel proprio Comune, s'è determinato di fame il riparto nei limitrofi Comuni ... che detto convoglio s’andava giornalmente ammassando a segno che arrivò nel grandioso numero di cavalli quattromille duecento quindici”.

 

La zona di S. Martino diventò un accampamento di retrovia rispetto alle zone di battaglia con un continuo avvicendarsi di truppe, convogli e miIitari feriti che ritornavano in Russia, diventando alloggio "per le femmine e figli de’ Russi militari" soprattutto degli ufficiali che occuparono le case dei sammartinesi con le proprie famiglie, con numerosa servitù e cavalli. La gente russa era così fittamente assembrata nel paese da impedire uno spedito passaggio per le truppe che dovevano transitare, con i sammartinesi che in gran parte dovettero lasciare le proprie case per cedere le stanze agli ospiti cercando un rifugio nelle campagne vicine.

 

Altro grave danno derivava dal fatto che la mancanza di legna e la scarsità dei fieni spingevano i Russi ad abbattere senza scrupolo le piante e ad invadere senza preoccupazioni i prati danneggiandoli a tal punto da cancellare ogni possibilità di raccolto per quell'anno.

 

La cronaca dell'epoca racconta che partirono tutti “lasciando le pradarie rovinate, molti campi seminati a frumento e sorgo turco devastati e dissipate in quantità grande le piante di albare, salgari e morari, con la consapevolezza di riflessibili danni con la somministrazione di legna, vari generi di vittuaria, candele, ed altro senza consegnar mai verun pagamento".

 

Diversi furono i proprietari danneggiati, soprattutto nobili e grandi possidenti, che chiesero i risarcimenti dei danni alla Deputazione Provinciale.

 

Tra di essi troviamo il Marchese Francesco Muselli proprietario della contrada S. Francesco, Bentivoglie, Feniletto e Pradaria della Chiesa; il Marchese G.B. Da Monte proprietario di tenute sotto Campalto; il N.H. Dandolo della contrada Strà dell'Aggio; il Conte Carlo Da Lisca in contrada S. Croce di Formighé; il Marchese Malaspina al Busolo; il Conte Francanzani alle Pignatte e alla Fracanzana e tanti altri.

 

La cronaca dell'epoca, sempre precisa, ci elenca i generi somministrati nei dieci mesi di permanenza nel veronese dei Russi; i più consumati furono il frumento, il granoturco, la farina, il pane, oltre alla legna, al fieno e alla paglia, a cui seguono il vino, l'olio, il sale, le candele, il riso, l'avena, i "bigoli", i legumi, il pesce salato e altri di minore importanza.

 

Bisogna anche considerare che l'Armata Russa del Generale Suvarov, di quarantamila uomini, era una piccola cosa rispetto al costo dell'Armata Austriaca ed ai danni che i Francesi procurarono al patrimonio artistico, con requisizioni e ruberie, durante la loro permanenza nel veronese ed in Italia.

 

 

I confini del territorio sanmartinese

 

Gli attuali confini comunali sono stati definitivamente tracciati nel 1927, quando si sono ridisegnati i territori amministrativi di diverse città e paesi. 

Due sono i decreti emanati: il primo è del 5 agosto 1927 n. 1616 che rettifica i confini con il Comune di Verona, il quale cede i nuclei di S. Antonio e Ferrazze; il secondo è del 15 dicembre 1927 n. 2560 che sopprime il Comune amministrativo di Marcellise il cui territorio passa sotto la giurisdizione di S. Martino Buon Albergo.

 

Da allora i confini rimasero inalterati, definendo l'attuale territorio di 3.486 ettari, ricco di storia e tradizioni.

 

Non è facile ricostruire le vicende che portarono il territorio sammartinese a tale conformazione.

Per secoli i comuni cercarono di difendere gli antichi diritti territoriali ereditati o conquistati. Nell'Alto Medioevo il territorio era conteso dai feudi dei castelli di Montorio e Lavagno, soprattutto le aree lungo il Fibbio che allora costituiva fonte di ricchezza.

Il fiume Fibbio era un corso d'acqua molto pescoso e il Feudo di Montorio teneva diritti di pesca e di sfruttamento delle acque per i molini fin dal IX secolo, diritti donati da Ottone III nel 995 al monastero di San Zeno compreso il distretto di "Montetauri", tale privilegio fu confermato nel 1O14 da parte di Enrico II: "Monte Tauri curtem unam cum molendini" .

 

Naturalmente le storie si intrecciano e si sovrappongono e mentre la valle di Marcellise appartiene al Castello di Lavagno, gran parte del territorio ad ovest del Fibbio è sotto la giurisdizione della città di Verona che estende i propri confini territoriali dalle Ferrazze fino a Ca' dell'Aglio, per ritornare verso la città lungo l'Antanello determinando così la "Campagna minore".

 

I limiti sono verificati nel 1178 con la posa dei cippi di confine, in modo da evitare inutili contestazioni territoriali da parte dei comuni e feudi confinanti.

 

Quando gli Scaligeri diventano i signori di Verona il territorio sammartinese ad ovest del Fibbio viene controllato dal Capitaniato di Montorio come i documenti del 1380 descrivono, mentre la valle di Marcellise rimane sotto il controllo di Lavagno.

 

Quando Verona passa sotto la Serenissima con tutto il suo territorio, San Martino doveva essere ancora un piccolo aggregato di corti rurali e nuclei industriali lungo il Fibbio. E’ proprio sotto la Repubblica di Venezia che il paese comincia ad avere una propria autonomia ed una importanza fiscale.

Ma è solo con l'estimo del 1628, che percorre a ritroso fino alla metà del XVI secolo le vicende del territorio, che si ha una chiara descrizione dei confini, delle strade, delle persone e dei centri abitati.

 

I confini sono complessi, con alcune zone all'interno del comune di San Martino ancora controllate da Montorio comprese le aree al di sotto della linea delle risorgive in territorio di Centegnano e Mambrotta. 

Per diversi secoli i confini rimasero inalterati. Il Fibbio determinava il limite nord-est, dalla Sengia fino a Ca' dell'Aglio, poi il confine seguiva le risorgive e l'Antanello fino a Ca' Vecchia per poi risalire lungo la Rosella fino all' altezza di S. Antonio.

 

Attorno al 1770 le terre di Centegnano e Mambrotta passano sotto il controllo di S. Martino che vede accrescere notevolmente il territorio agricolo fino al fiume Adige.

 

Tali confini rimangono fino al 1927, se si esclude l'accorpamento dell' abitato del Ponte del Cristo posto a nord della statale, avvenuto nel 1904 con Regio Decreto del 22 agosto.

 

Tale aggregazione venne fortemente richiesta fin dalla metà del XIX secolo dalle famiglie ivi abitanti, che si trovano sotto la giurisdizione della lontana Marcellise quando solo il Fibbio divideva tale nucleo dall'abitato e dalla chiesa di S. Martino.

  

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