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San Facio.  Foto -  Roberto Alloro.

 

Scheda Artistica - Dott. Roberto Alloro

 

     

San Facio

(attribuito a Felice Brusasorci)

 

Il quadro raffigurante san Facio è certamente uno dei dipinti meno noti tra i molti che adornano la chiesa di Marcellise nonostante sia uno di quelli che le appartengano da più tempo, ben prima del notevole arricchimento di oggetti d’arte che si ebbe nel XIX secolo in seguito al rifacimento dell’edificio.

 

Fatta eccezione per il sempre puntuale Giovanni Battista Stegano, che nella sua Guida di San Martino e Marcellise (1928) ne ricorda l’esistenza («Quadro [in sagristia] di S. Faccio veronese attribuito al Brusasorzi»), il ritratto di san Facio non ha destato l’interesse degli studiosi fino a tutto il XX secolo, a dispetto dell’attribuzione ad uno dei maggiori tra i pittori antichi veronesi.

 

È merito del nostro concittadino Luciano Barba, appassionato cultore di storia locale, aver riportato l’attenzione su questa tela nella rubrica L’angolo della cultura nel numero del dicembre 2006 de «L’Eco della Valle»,  bollettino del Comitato Civico di Marcellise. Nella scheda si fanno alcuni cenni biografici su san Facio, si richiama l’attribuzione dell’opera a Felice Brusasorci e si ipotizzano possibili legami tra il dipinto e le famiglie di orafi veronesi che possedevano beni nella vallata di Marcellise già a partire dal XV secolo. Suggestioni interessanti che proviamo qui a sviluppare partendo dall’identità di questo Facio, un santo oggi pressoché sconosciuto ricordato il 18 gennaio.

 

Facio (o Fazio), diminutivo di Bonifacio, nacque a Verona probabilmente verso la fine XII secolo e fu fabbro oppure – come riporta altra fonte - orefice. Nel 1226-1230 circa, all’età di trent’anni, emigrò a Cremona con altri artigiani in seguito alle lotte tra fazioni che tormentavano la città. Gli anni trascorsi a Cremona furono caratterizzati da profondo impegno religioso, condotta di vita irreprensibile e santità manifestata nel lavoro. Per la sensibilità nei confronti dei poveri fu eletto massaro delle elemosine nella Confraternita dello Spirito Santo, alla quale aderivano gli esponenti più in vista della società cittadina. Tornato a Verona intorno al 1260, forse anche per riconciliarsi con gli antichi avversari, fu vittima del clima di sospetti e di vendette e venne incarcerato. La prigionia segnò profondamente la spiritualità di Facio, che trasformò la Confraternita nell’Ordine dei «fratres de Consortio Sancti Spiritus», dedito all’attività assistenziale e religiosa verso i poveri. Visse gli ultimi anni in vita comune con un piccolo gruppo di confratelli; morì il 18 gennaio 1272. Egli fu dunque un santo laico, legato al mondo del lavoro, e gli abitanti di Cremona gli tributarono una devozione immediata e costante. Secondo Gian Maria Varanini, dal quale ho ripreso queste note, l’esportazione del culto di san Facio a Verona – dove fu venerato come protettore dell’arte degli orefici - daterebbe invece solo al XVII secolo.

 

Detto questo del santo, parliamo del quadro. Si tratta di un olio su tela di cm 76x100 in cui Facio è ritratto frontalmente a tre quarti di figura. La persona riempie tutto lo spazio e la porzione di tela libera in alto alla sua destra è occupata da un tendone verde raccolto verso l’esterno. Il santo, stante, porta evidenti i segni di una maturità avanzata ma non imbelle, anzi: la lunga barba grigia bipartita, le rughe sulla fronte e intorno agli occhi, le pieghe d’espressione sulle guance scavate non ottundono i tratti di un uomo saggio ma ancora capace di agire con decisione. Sotto una semplice ed austera, ma non povera, sopravveste marrone priva di maniche, dotata di un ampio cappuccio che gli ricade sulle spalle, egli indossa una veste dello stesso colore, con le maniche aderenti lunghe fino al polso. Il capo, circonfuso dall’aureola della santità, è coperto da una aderente cuffia scura orlata di grigio che gli copre parte delle orecchie ma lascia ben visibili la fronte ampia e lo sguardo sereno e penetrante. Con la mano sinistra regge un lungo bastone di fattura semplice ed accurata che gli arriva poco sotto la spalla sinistra, mentre con la destra, tra l’indice e  il pollice, trattiene un’ostia, attributo che richiama la sua attività di assistenza fisica e soprattutto spirituale ai poveri e ai bisognosi.

 

I pochi particolari anatomici in vista – il viso e le mani – risultano di ottima fattura, per quanto lo spesso strato di sporco che copre la materia pittorica ostacoli non poco la lettura del quadro. Di contro, la tela nel suo complesso appare sana e bisognosa solo di una buona pulitura.

 

Veniamo, ora, all’autore del quadro. L’attribuzione al Brusasorci da parte dello Stegagno trova fondamento, probabilmente, in un inventario del 1877. Ma quale Brusasorci, posto che tale appellativo fu dato ad un’intera famiglia di pittori che di cognome faceva Rizzo (o Riccio)? A Domenico Rizzo (1516-1567), detto appunto il Brusasorzi, come scrive Giuseppe Bertolini in un manoscritto del 1851 a proposito degli eccellenti pittori di cui si conservano tele nella parrocchiale di Marcellise, oppure al suo figlio ed allievo Felice Rizzo (1540-1605), pur egli detto Brusasorzi, come ipotizza Barba? Per ragioni cronologiche e di stile mi pare più fondata la seconda attribuzione e che dunque l’autore vada ricercato in Felice Brusasorci, del quale Verona conserva molte tele sia nella chiese sia nel Museo di Castelvecchio.

 

Veniamo infine alle possibili ragioni che portarono il quadro di san Facio nella parrocchiale di Marcellise. Di certo esso si trova in sacrestia da almeno due secoli e mezzo se, come sarei portato a credere, era uno dei dipinti quadri ivi rilevati durante l’inventario effettuato nel marzo 1760: «13 quadri: sette in sagristia e sei in Chiesa, tutti di sante imagini, ma tutti ordinari».

 

Dalla sacrestia, ora adibita a cappella feriale, esso non si è mai mosso, spostandosi al limite di qualche centimetro, trovandosi ora appeso nella porzione sinistra della parete che divide la cappella feriale dalla tribuna mentre l’inventario del 1877 lo colloca a qualche spanna di distanza: «Un quadro sopra la porta che dalla sagristia si entra in tribuna, rappresentante S. Faccio cittadino veronese, dipinto dal Brusarsorzi». La stringatezza di questa annotazione, strana per un inventario altrimenti ricco di dettagli, specie nelle voci relative ad oggetti di recente acquisizione, sembra indirettamente confermare l’antichità della sua presenza in parrocchia.

 

      Due parole, infine, sui possibili committenti della tela. Tra coloro che potevano avere un qualche legame con il patrono degli orefici, oltre alle famiglie di orafi veronesi possidenti in Marcellise ricordate da Luciano Barba, ricordo anche gli Orefici, un’antica casata locale che potrebbe aver trovato proprio nel cognome la ragione di un tale soggetto. Tracce di questa famiglia e di un suo stretto rapporto devozionale con la chiesa di Marcellise si ritrovano in un registro del XVIII secolo conservato nell’archivio parrocchiale: «Il signor Lodovico, et fratelli Oreffici detti li Pasini pagano ogn’anno di livello perpetuo un saccho di pane, et brenti due vino, quale deve esser dispensato il giorno di san Pietro di febraro (festa del commun di Marcelise) nella chiesa parochiale, alli poveri del commun; il qual livello è fondato sopra una pezza di terra aradora con vigne, et altri alberi da loro posseduta, in pertinenza di Marcelise, in contrà del Brè, verso mattina, e mezo giorno confina con Antonio et fratello dell’Iseppi detti li Gandini; verso sera confina con li nobili signori marchesi Girardini; verso tramontana con la via vicinale che va alla Sogara, et ne appar instromento. E questo è parte del livello lasciato da messer Fase come appare in principio di questo libro». Il riferimento a quel certo «messer Fase», oltre a confermare la persistenza del nome Facio nella nostra zona, ci porterebbe a parlare del legato di Faccio da Lavagno (1407). Ma questa, come s’usa dire in questi casi, è un’altra storia.

 

 

La scheda è stata pubblicata in "Qui San Martino: Bollettino delle parrocchie di San Martino Vescovo, Cristo Risorto, Marcellise e Mambrotta", numero 230, anno XXXI, febbraio 2009.

 

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