Home  Paese

 

 

Capitello del Cristo

 

Scheda storico/artistica: Dott. Roberto Alloro

 

Il passante che, provenendo da piazza del Popolo in direzione di Vicenza, costeggi l’antico Buon Albergo, superata la recinzione di Villa Barbieri si trova a camminare, per un breve tratto, sul vecchio sedime della strada regionale, abbandonato in seguito alla costruzione del nuovo ponte.

 

Il “capitello del Cristo” sorge in corrispondenza dell’angolo sud-orientale del parco di Villa Barbieri ma, come ha scritto Sergio Spiazzi, non si tratta della sua ubicazione originaria, essendo questa prima al centro del ponte, a segnare il confine tra i comuni di Montorio, di San Martino Buon Albergo e di Marcellise.

 

Non stupisce che il capitello sia sorto in questo snodo cruciale per la mobilità, analogamente ad altri punti di potenziale pericolo per la sicurezza degli uomini e delle merci come i crocevia, i guadi o i ponti, luoghi in cui la presenza benigna e apotropaica di una santa immagine era benvista se non espressamente richiesta.

 

La tipicità del capitello fu tale, in passato, da trasmettere il nome all’omonima contrada del Cristo.

 

Fotografie: Roberto Alloro

 

Nella foggia attuale il capitello si presenta con una struttura di gusto settecentesco formata da un’edicola a volta posta su un piedistallo e sormontata da un importante timpano triangolare.

 

 

 

L’edicola è decorata da due lesene a rudenti con capitello dorico ripreso anche nella profondità dell’ancona a segnare l’imposta della volta; la chiave dell’arco è ingentilita da una testa di putto, ai lati della quale sono scolpiti due fiori. La parete di fondo è costituita da un pannello in altorilievo raffigurante la scena del Golgota, la cui piena visione è ostacolata dalla pur necessaria grata di ferro battuto.

 

Al centro campeggia la grande croce, su cui è inchiodato il corpo ormai senza vita del Salvatore. Il teschio con le tibie incrociate alla base simboleggia la vittoria di Cristo sulla morte.

 

 

Ai lati del legno, due donne piangono straziate, mentre il vento impetuoso che accompagna la morte del Figlio di Dio ne gonfia le vesti. Che si tratti di figure femminili è dimostrato nel caso della donna sulla sinistra dell’osservatore dalla foggia dell’abbigliamento, e dalle evidenti forme muliebri per quella sulla destra. Una delle Marie mostra, con la destra, il Crocifisso al viandante, mentre l’altra tiene nella mano destra un sasso con il quale si percuote il petto in segno di contrizione. Nel timpano sta la figura del Padre Eterno che accoglie a braccia aperte il Figlio alla presenza dello Spirito Santo in forma di colomba.

 

 

All’interno dell’edicola sono presenti vari agganci in ferro, originariamente destinati al sostegno di ex voto, lampade votive ed altri segni di devozione.

 

Nel fregio tra l’edicola e il timpano si legge la seguente iscrizione:

 

O VOS OMNES QVI TRANSITIS PER VIAM

ATENDITE ET VIDETE SI EST DOLOR

SICVT DOLOR MEVS

 

Sembrerebbe trattarsi di una semplice e generica esortazione al viandante a fermarsi e a riflettere sul sacrificio di Cristo: “O voi tutti che passate per la via, fermatevi e considerate se c’è un dolore [grande] come il dolore mio”.

 

Tuttavia, poiché le parole non sono mai scritte a caso, tantomeno su un monumento di natura religiosa, bisogna chiedersi se sia tutto così semplice e scontato. Ed è qui che la faccenda si complica, perché si tratta di una citazione biblica dal Libro delle Lamentazioni, tradizionalmente attribuito al profeta Geremia. Il libro è composto da cinque poemi lirici che descrivono la desolazione di Gerusalemme distrutta ad opera del re babilonese Nabucodonosor. Più precisamente si tratta di un responsorio che veniva recitato durante il Triduo pasquale, il tempo centrale dell’anno liturgico del rito romano in forma ordinaria.

 

Il Triduo pasquale della Passione e Risurrezione del Signore veniva celebrato tra la Quaresima e la Pasqua, ma - pur essendo congiunto ad esse - non faceva parte né dell’una né dell’altra. Il Triduo aveva durata temporale di tre giorni compresi tra la messa vespertina del Giovedì Santo e la celebrazione vespertina della domenica di Pasqua e quindi si dispiegava in quattro giorni.

 

 

La celebrazione del Venerdì Santo era detta “delle Tenebre” in ricordo degli antichi riti notturni attraverso i quali si intendeva rievocare l’oscurità che discese sulla terra alla morte di Cristo e l’immagine della Chiesa che brancola nel buio senza il suo Dio. Il Mattutino si recitava subito dopo la mezzanotte in ricordo ed onore dell’ora in cui nacque Nostro Signore. Era suddiviso in tre notturni, ciascuno dei quali costituito dalla recita di tre salmi, tre lezioni (letture tratte dalla Bibbia o da scritti dei Padri della Chiesa) e tre responsorî, ossia tre canti che seguivano la lettura come momento di meditazione. Durante l’Ufficio delle Tenebre la chiesa era avvolta dalla penombra. Accanto all’altare veniva posto un grande candelabro di forma triangolare, detto “saetta”, con quindici candele che rappresentavano simbolicamente gli undici apostoli fedeli e le tre Marie (oppure i dodici apostoli e due discepoli) e Gesù (alla sommità).

 

Dopo ogni salmo si spegneva successivamente una candela, lasciando accesa alla fine soltanto quella centrale al vertice, che veniva nascosta dietro l’altare, alludendo alla sepoltura di Cristo. Al termine della cerimonia i presenti procuravano rumore battendo le mani o utilizzando tradizionali strumenti di legno - da noi le ràcole - per rievocare il tremore che scosse la terra quando Gesù spirò. A quel punto, nel silenzio, la candela rimasta accesa e nascosta dietro l’altare veniva ricollocata sul candelabro, a segnalare la conclusione dell’Ufficio delle Tenebre.

 

Il testo del Responsorio IX del terzo notturno era il seguente:

 

Caligaverunt oculi mei a fletu meo

quia elongatus est a me

qui consolabatur me.

Videte omnes populi

si est dolor similis

sicut dolor meus.

O vos omnes qui transitis per viam,

attendite et videte

si est dolor similis

sicur dolor meus.

I miei occhi sono offuscati dal pianto

perché mi è stato strappato

colui che era la mia consolazione.

Popoli tutti, considerate

se c’è al mondo

un dolore simile al mio.

O voi tutti che camminate per questa via,

fermatevi e considerate

se c’è al mondo

un dolore simile al mio.

 

I responsorî sono fra i momenti più suggestivi della liturgia e hanno ispirato autentici capolavori musicali. A partire dalla metà del XV secolo, infatti, schiere di compositori si sono cimentate nel suggestivo rito dell’Officium Tenebrarum, anche in ragione del testo drammaticamente espressivo delle lamentazioni.

 

L’Ufficio delle Tenebre si inseriva a pieno titolo nella religiosità “sentimentale” in voga nel XVIII secolo, che puntava al coinvolgimento emotivo individuale dei fedeli. Questa particolare liturgia cessò ufficialmente nel 1955, con la riforma liturgica, ma fu celebrata almeno fino agli anni Settanta del Novecento. Da qualche anno a questa parte viene riproposta soprattutto come completamento filologico dell’esecuzione musicale.

 

Ecco, dunque, la fonte dell’iscrizione posta sul capitello del Cristo, ma questo non è sufficiente – in mancanza di altri riscontri - ad interpretare il capitello come un segno della celebrazione dell’Ufficio delle Tenebre anche a San Martino Buon Albergo.

 

L’associazione tra Crocifissione e il O vos omnes, infatti, è frequentemente attestata nel panorama artistico, come mostra ad esempio la pala rinascimentale di Andrea Della Robbia nella cappella delle Stimmate nel santuario francescano della Verna (Ar). Ci basti, in attesa di altre indagini, aver gettato uno sguardo su una pratica liturgica che potrebbe essere stata in uso anche nel nostro paese e potrebbe aver lasciato tracce monumentali nel “capitello del Cristo”.

 

Pubblicata su "Qui San Martino", numero 249, anno XXXVII, aprile 2012, pp. 14-15"