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Marcellise, Chiesa Parrocchiale Cattedra di S. Pietro. Foto A. Scolari  30/01/2004

 

Scheda storica - Arch. Sergio Spiazzi

 

La Parrocchiale di San Pietro a Marcellise

 

"La chiesa parrocchiale, ampliamento dell'antica chiesetta romanica di cui resta la piccola sacrestia, su disegno dell'architetto Barbieri ha una bella facciata con attica ad est guardante lo stradone di accesso ed un elegante disegno architettonico a notte. Domina dalla sua elevata posizione il paese e solleva in alto uno slanciato campanile probabilmente di epoca romanica ma intonacato e rifatto con l'aggiunta di una cupola di rame".

 

Così inizia lo Stegagno nella sua "Guida" del 1928.

 

La parrocchiale di Marcellise è dedicata a S. Pietro in Cattedra festeggiato il 22 febbraio come ri­cordato dal Simeoni: "Sopra la porta est è murata un'iscrizione gotica in vorlgare su marmo rosso che riassume un legato fatto nel 1407 da Faxo di qm Francesco di Lavagno per limosine da distribuirsi nella festa di S. Pietro di Febbraio ... " festa della famiglia che già ai tempi dei romani si celebrava in quel giorno.

 

Nel Medioevo Marcellise dipendeva dal "Castrum Lavanei", come tutta la valle (chiamata di Lavagno) fino al Fibbio, con numerose corti e chiese. E' proprio nel confronto con l'omonima S. Pietro di Lavagno che i documenti rendono incerta l'origine di S. Pietro di Marcellise. Certa è invece una pergamena del 18 marzo 1179, che descrive una permuta di terreni fatta da Riprando Arciprete della Maggiore Chiesa Veronese, con Piacenza vedova di Rafaldo, nel territorio "Marcelisii” luogo detto "a sancto petro nic(z) abafa", indicando quindi i terreni vicini alla chiesa di S. Pietro, probabilmente costruita in tempi più remoti.

 

Nella visita pastorale del 1839 il vescovo G. Grasser scrive " ... ab immemorabili fuit erecta, ex aliquibus scriptis exurgit ante annum 1415 ... anno vivo 1820 fuit readificata...”.

 

La prima visita pastorale di cui abbiamo notizia risale alla domenica del 24 agosto 1460, sotto il vescovo Ermolao Barbaro e fu fatta dal vescovo Matteo, titolare di Tripoli e luogotenente del vescovo di Verona, alla presenza dei presbiteri Donato de Maffei, Gottardo di Santo Stefano di Verona ed il presbitero Carlo Arasmini di Pergamo, cappellano del vescovo tripolitano.

 

Quella che segue è la traduzione letterale della visita pasto­rale.

 

"Riconciliata la chiesa ed il cimitero per mezzo del prelibato signor vescovo e celebrata la messa in prima mattinata, viene concessa, l'indulgenza di quaranta giorni a chi visita la chiesa nella ricorrenza della visita pastorale.

Il corteo avvicinandosi, con i lumini in mano, al luogo dove viene conservata l'eucarestia vide che questa era custodita con cura, cosi il fonte battesimale, però i sacramenti ecclesiastici non così bene e rimproverò il rettore della chiesa perché doveva conservarli meglio, poi cresimò ...”non confirmatos confirmavit”. Fatto ciò procedette con l'inventario dei beni della chiesa trascrivendo quelli non ancora registrati. Per primo viene registrato un messale bello ed uno di poco valore, tenuto presso Pasio da Montalbano, del valore di 38 ducati, poi un calice con la patena d'argento del valore di 16 ducati; una croce d'argento bella, 36 ducati; una croce di rame; alcune tavole d'al­tare che sono tenute sopra il cro­cefisso in numero di quattordici; una pianeta fulgida di ' ... cita­nino cramusino .. .'; una pianeta di porpora fulgente, un' altra di broccato bianco fulgida; una cotta, un libro di canto e uno di antifona di modesto valore, un libro con l'ufficio del Corpo di Cristo; un libro dell' officiatura dei morti; un camice; un tabernacolo rivestito internamente d'oro e indorato del valore di 6 ducati; quattro piedi per tenere i ceri; due campanelli; quattro banchi con il gonfalone, un turibolo di modico valore; due tenagliette, una catena da fuoco, una tavoletta, una graticola (attrezzi che servivano per produrre le particole) poste '...in fabrica dumus          archipresbiteri...' ; un catino di rame; un armadio e una lettiga che era riposta nell'armadio; un minale (contenitore per misurare le granaglie); un corporale; una anconeta di rame e dorata; una anconeta di legno; una navicella dal calco d'oro; un aumadio nuovo depositato nella sacrestia ed una stola.

 

Fatto l'inventario, il vescovo Matteo, chiamò a se alcuni uomini importanti del luogo e separatamente con giuramento furono interrogati sopra i capitoli delle visite, tra i quali troviamo presenti: Domenico Andrea Aburgo (del Borgo di Marcellise), Pietro Giovanni, Domenico Cre­scenti, Giovanni Guglielmo e Filippo Giovanni 'Massari' del luogo. Ciascuno di questi parlò bene di tutti, tranne che sul sacerdote presente, il quale era venuto da pochissimo tempo e quindi non avevano alcuna informazione, ma credono che sia buono. Di don Domenico (il precedente rettore) risposero bene su tutte le domande, asserendo anche che nessuno era stato scomunicato, nessuno era omicida, nessuno era un concubino pubblico, nessuno era incantatore ecc., nè alcuno si era impossessato di beni della chiesa e del popolo.

 

Ascoltate queste cose furono dopo convocati tutti insieme ed interrogati se per il bene della stessa chiesa volevano dire qualcosa d'altro e risposero che affidavano a se stessi la propria chiesa per fare una pala dell'altare maggiore e far fare un pavimento di assi di legno e un podio della casa della chiesa. Il vescovo, in quanto alla tavola dell'altare, rispose che voleva per prima cosa convocare il capitolo dei clerici prima di rispondere a loro e che quanto prima dovessero alcuni di questi stessi uomini venire a Verona in modo da provvedere quanto prima (alla pala dell' altare).

 

Invece per il pavimento determinò che dovesse essere fatto tramite i clerici e affidò al presbitero Gottardo, lì presente, ai massari della plebe di Lavagno ordinò che dei beni dei clerici e dello loro parti facessero il pavimento.

Quando don Leonardo di Casalmaggiore, rettore della stessa chiesa, si presentò innanzi al signor vescovo, lo stesso signor vescovo lo interrogò sullo stato e la condizione della chiesa e sulla vita dei parrocchiani della stessa chiesa. Dopo il giuramento a lui riportato per prImo, rIspose e disse che essendo stato da poco e nuovissimo dell'incarico di condurre la chiesa ignorava qualsiasi cosa”.

 

Con la nomina a vescovo di Verona di Giovan Matteo Giberti (1495-1543), le visite pastorali vengono condotte a breve distanza di tempo per controllare con severità la situazione ecclesiastica che era scaduta da diverso tempo. Infatti il Giberti "si propose di elevare il livello spirituale del clero inculcando con la parola e con l'esempio il dovere della residenza nella sede assegnata".

 

La prima visita del Giberti o dei suoi collaboratori a San Pie­tro di Marcellise è del 1529, poi seguono quelle del 1530, del 1532 e quella concisa del 1541.

Nella visita del 6-7 agosto 1529 troviamo come rettore Pietro Emo con gli introiti annuali di 40 minali di frumento, quattro plaustri d'uva, una baceda d'olio, dodici libbre di denaro, quattro minali di miglio, mentre il cappellano coadiuvatore è frate Alberto, che si presenta giovedì sette agosto, dicendo di avere 20 ducati di salario e 450 anime da comunione. Dopo l'inventario degli oggetti sacri della chiesa, tra cui troviamo un messale in carta pecorina, una pianeta di velluto bianca e nera, quattro candelabri in ferro, un baldacchino in tessuto grosso di vari colori ed il libro dei catecumeni, troviamo l'inventario della Confraternita della Beata Vergine, di S. Rocco e di S. Sebastiano.

La confraternita introita tre minali di frumento all'anno che distribuisce tra i poveri di Cristo e possiede: un calice, una coppa d'argento, un messale di carta comune e tre tovaglie, una pianeta " ... zambellotti ... " rossa con il suo camice fulgido, quattro candelabri d'ottone e due di ferro e un gonfalone, mentre tutti si confessano tranne Menino de Pi­loti e suo fratello Giacomo.

 

Il quattro luglio del 1530 la visita pastorale indica la chiesa par­rocchiale di San Pietro di Marcellise tra i confini della gente di San Briccio di Lavagno dove troviamo ancora Pietro Emo quale rettore e don Alberto di Anzio quale coadiuvatore per 14 ducati " ... litterarum ignarus et circa multa diffamatus". Le anime a comunione sono 450, su un totale di 900, ad esclusione di Berto Cristano che si rifiuta di comuni­carsi.

Nella chiesa troviamo tre confraternite. La prima si è costituita in onore del Santissimo Sacramento, la quale non ha nessun paramento sacro; ad essa il vescovo concede 80 giorni di indulgenza la prima domenica di ogni mese, il Corpus Domini, durante la settimana santa ed il giorno di Pasqua. La seconda confraternita si è formata in onore e reverenza della Beata Vergine, San Rocco, San Sebastiano e Pietro ed ha come beni un affitto annuo di tre minali di frumento oltre a paramenti e beni mobili, alla quale il vescovo concede l'indulgenza la seconda domenica del mese e in tutte le feste della Beata Vergine e per tutto l'anno.

La terza Società si è costituita sotto il vocabolo della Misericordia, ugualmente di nessun valore e che non ha niente di beni immobili a cui lo stesso vescovo il sesto giorno della settimana concede un'indulgenza di 80 giorni ai fedeli che visitano l'altare di S. Antonio, che dovrà essere eretto nella chiesa, ed altri 80 giorni nel giorno di festa del santo.

Nella visita sono segnalati presenti i nobili Domenico Marioni e Giovanni Antonio Mona, proprietari di vaste aree agricole nella valle di Marcellise e dei casamenti del Brolo Marioni e Casa Pozza. Inoltre troviamo il massaro Do­menico Brixiano ed i consiglieri: Guglielmo Alberti, Andrea Composta, Francesco de Andreis e Filippo de Musti, questo ad indicare l'importanza che le famiglie nobili cominciano ad avere all'interno del mondo religioso anche con la costruzione d'altari privati e cappelle gentilizie.

 

Nel giugno del 1532 troviamo rettore ancora Pietro Emo, mentre la parrocchiale è condotta da don Alberto di Anzio, ma dipendente della pieve di S. Briccio di Lavagno. Ha sempre 450 anime fa comunione ma solo 600 parrocchiani (trecento in meno rispetto a due anni prima) e tutti si dichiarano confessati e comunicati eccetto Giulio figlio di Tommaso de Broilo soldato, Alberto Cristiano e Sebastiano figlio di Cristoforo del Burgo.

Nella visita pastorale del 14 settembre 1553 troviamo ancora rettore "perpetuus' Bartolomeo de Marchi che continua a perdere anime (da 450 a 256) e confraternite (probabilmente gli altari sono stati consegnati ai nobili Marioni e Mona) a discapito di Santa Maria Belverde che conta ben 500 anime a comunione. Questo porta ad una controversia tra la parrocchia di San Pietro ed il monastero di san Nazaro e Celso e la chiesa di S. Briccio, tanto che il vescovo ordina a don Bartolomeo de Marchi di stilare nel mese di ottobre in un registro tutte le decime che la gente di Lavagno e don Cristoforo curato del paese di Lavagno devono alla chiesa di San Pietro.

 

Agenore Bertagna in "San Martino '80" ricorda che il primo registro dell' archivio porta la data del 26 luglio 1579, mentre fu eretta a parrocchia nel 1562.

 

Nell'estimo del 1653, presentato da don Andrea Camerlato, rettore di quel tempo, la chiesa godeva di diverse decime che costituivano le entrate più consistenti della parrocchia come: frumento, uva, miglio, olio, stroppe ed agnelli "... et di una porzione n'ha d'ogni dieci uno... ". Oltre alle decime, la chiesa di S. Pietro era proprietaria di diverse pezze di terra (a dir la verità di poco conto) sia attorno all' edificio sacro, sia in altre località della valle, come la pezza di terra " ... arativa stima ducati 50 et parte prativa con morari, et altri arbori congiunta alla detta chiesa ... " che confina verso mattina con il signor Bernardo Brezzoni, o quella di un campo e mezzo " ... in circa dietro alla Chiesa con olivi, verso una parte confina l'Heredi del Sig. Giovannino Marioni, verso sera la via vicinale stima ducati 50 e rende ducati 6 di netto ... ".

 

Altra terra garba e vegra di due campi " ... in contrà della sosevena ... " confinante con i signori Delli Andrei, Luchese delli Iseppi e Arancero Ferro, non viene stimata " ... perchè del tutto infelice, ne' si può render fertile ... ", mentre un’altra pezza di terra “... vegra di circa campi 4: in contrà dell'AIbarelle può valer ducati o: il campo perché nulla si può cavar, et li O vala O, et è aggravata dall'obbligo di 2 messe".

 

A rendere più consistenti le entrate ci pensano però alcune famiglie come i Manara, con il livello perpetuo degli eredi di Antonio Manara, o i Muselli con il livello perpetuo di due minali dovuto dagli eredi del signor Giacomo Muselli, ed altri, con livelli perpetui in denaro o prodotti della terra, come troviamo nel testamento del signor Brunelli del 1595 o quello del signor Galuzzi del 1623.

 

Il complesso parrocchiale, come già accennato, viene completamente riedificato dall' architetto Giuseppe Barbieri (famoso a Verona per il Cimitero Monumentale ed il Municipio) tra il 1820 ed il 1827 in forme neo classiche. Il progetto dell' architetto Barbieri definisce gli spazi all'esterno, con una facciata neo classica, e all'interno con una continuità di stile che investe tutti gli elementi dell' edificio sacro. L'unica navata della chiesa è arricchita di elementi decorativi e pittorici sempre intonati con il gusto neoclassico della struttura.

La chiesa di S. Pietro contiene diverse opere d'arte tra le più preziose del territorio sanmartinese. Nel 1720 G. Battista Lanceni, descrive le opere pittoriche della vecchia chiesa che in parte sono state conservate nella ricostruzione della nuova.

A pag. 164 scrive: "La pala maggiore è S. Pietro con altri Santi, ed alcuni Angelini: Opera d'Alessardro Marchesini. Altra di sant'Antonio del medesimo. Una dalla parte dell'evangelio, cioè S. Antonio Abate, ecc. Opera di Giò Ceffis. Nell'altare laterale della detta parte, la Pala del Rosario e suoi Misteri, San Carlo, ed altri Santi:

Opera di Santo Creara. Dirimpetto, altro Altare con alcuni Angelini in ofizio di corteggio alla vergine: Opera di Giulio Carpioni".

 

Da questa descrizione sono escluse le opere più importanti dell' edificio sacro che sono le "portelle" di Francesco Morone (1474-1529) e Girolamo Dei Libri (1472-1555) che arrivarono nella parrocchiale di Marcellise agli inizi del 1800 (forse nel 1807), provenienti dalla città all'epoca delle spoliazioni e dispersioni francesi.

Questi quadri, dipinti nel novembre del 1515 su commissione dell' abate Cipriani, servirono da ante all' organo della chiesa di S. Maria in Organo.

Le quattro tele rappresentano i "Profeti Daniele e Isaia" e i "Santi Benedetto e Giovanni Evangelista" di Francesco Morone e le "Sante Caterina e Dorotea” e la "Natività" di Girolamo Dai Libri.

"Tutti e quattro i dipinti sono caratterizzati da dolci ed ariosi sfondi di paesaggio, con le colline veronesi e scorci del Lago di Garda, elementi riscontrabili in quasi tutte le opere di questi due artisti del rinascimento veronesè".

Lo Zannandreis scrive del Morone " ... si è accostato molto alla maniera di Girolamo dai Libri ... suo amicissimo e come fratello, col quale ei prese a lavorare insieme le portelle degli organi di S. Maria in Organo ....”.

 

L. di Canossa ricorda la " ... leggenda che le portelle, siano passate alla chiesa di Marcellise dopo aver sostato per vari anni presso i contadini della casa Pozza o portatevi dalle soldataglie francesi. Queste infatti recandosi a foraggiare nelle nostre campagne si sarebbero servite delle preziose portelle per farne ripari laterali ai carri.

Senonchè il loro vandalico divisamento sarebbe stato frustrato dall'uso vigente presso i nostri contadini, di assicurare il fieno sul carro, mediante un lungo palo legatovi sopra.

Lasciate pertanto le portelle, divenute inutili al nuovo servizio di sponde da carro, presso i contadini, questi se ne sarebbero serviti per un pollaio, disponendole, fortunamente, in modo che i polli non le danneggiassero irremediabilmentè".

 

Lo Stegagno descrive, nella guida del 1928, come i Dal Pozzo avessero citato nel 1819 la Fabbriceria di Marcellise per la restituzione dei quattro quadri già da dodici anni in custodia o deposito di don Girolamo Pellegrini, parroco dal 1797 al 1819 della chiesa di S. Pietro di Antiochia. La causa fu vinta dalla Fabbrice­ria di Marcellise, la quale risarcì ai Dal Pozzo duemila lire.

Lo Stegagno descrive in modo certosino e completo la quantità e la qualità delle opere d'arte contenute nell' edificio sacro.

Oltre a quelle descritte dal Lanceni nel 1720 e alle quattro tavole del Morone e del Dai Libri, dopo l'ampliamento del 1827, la chiesa s'arricchisce di nuove opere perlopiù copie di celebri quadri.

Solo la tela di Giulio Carpioni, descritta dal Lanceni e rappresentante "La vergine con angeli", non viene più citata da nessun storico, forse trafugata o semplicemente collocata in altro luogo.

 

Numerose sono le tele dipinte da Giovanni Battista Caliari (Verona 1802-1850) che riproducono opere di altri artisti famosi. Cinque di queste si trovano attorno al portale maggiore d'entrata: in alto al centro "L'incontro di Gesù con la madre 'sul Calvario", copia da Raffaello; ai lati le sante "Apollonia e Lucia" copia tratta da Giovanni Caroto (1495­1555); i profeti "Ezechiele e Geremia" copia da Francesco Mo­rone (1474-1529); la "Visitazione di Maria da parte di S. Elisabetta" e "Lorenzo Giustiniani (Euprepio?) e S. Zeno" copie tratte da Girolamo Dai Libri (1472-1555).

Nel primo altare di destra troviamo una grande tela raffigurante un miracolo di S. Antonio da Padova "mentre ricompone il piede che la madre aveva tagliato al giovane disteso a terra sanguinante", copia del Caliari tratta da Tiziano Vecellio (1490-1576).

 

Vicino altri due quadri di piccole dimensioni, sempre del Caliari, i quali rappresentano: S. Agostino tratto da Giovanni Bat­tista D'Angelo detto "Del Moro" (?-1632) e S. Benedetto, copia tratta da Pasquale Ottino (1570­1630).

Lo Stegagno attribuisce al Caliari anche la tela raffigurante "La Madonna, S. Antonio Abate e S. Pietro" nella quale si identificano figure tratte dal Caroto e da Girolamo Dai Libri. Altro quadro attribuito al Caliari lo troviamo in sacrestia, il quale rappresenterebbe "S. Antonio che fa parlare un bambino per attestare l'innocenza della madre" copiato dal Tiziano.

Altra opera del Caliari citata dallo Stegagno è "La resurrezione di Lazzaro" tratta dal Caroto.

Mentre le due tele del presbiterio rappresentanti "Gesu che cammina sulle acque" e "Cristo che consegna le chiavi a S. Pietro" datate 1814 non possono essere attribuite al Caliari, in quanto il pittore a quell'epoca aveva solo 12 anni.

Altre opere importarti sono citate dal Simeoni nel 1909 come la statua di S. Pietro in Cattedra (1660) opera del Sughi che avrebbe scolpito in legno anche una Immacolata (secondo altare a destra) dorata dal Rancani.

Inoltre troviamo una "Annunciata" di Polidoro da Caravaggio, una "Adorazione dei Magi" alla maniera di G.B. Cignaroli, un "S. Faccio" attribuito al Brusasorzi ed un "S. Valentino" di ignoto.

Un discorso a parte meritano i quindici quadretti raffiguranti i "Misteri del Rosario" che il Lanceni nel 1720 attribuisce a Santo Creara (1571-1630).

Infatti recentemente, nel 1974, in occasione della mostra "Cinquant' anni di pittura veronese", la critica indica in Claudio Ridolfi (1570-1644) l'autore di detti quadri ed in particolare per la "base rosata della gamma dei colori e nel diminuito spessore della pasta pittoricà'.

Un altro ciclo è costituito dai quattordici quadretti della "Via Crucis" opera del pittore Agostino Ugolini (1754 - 1824). Ultimo, ma certo non meno importante, è l'organo, opera del XVIII secolo di Gaetano Amigazzi, ricomposto secondo uno stile neoclassico per il nuovo edificio del 1830.

 

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