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Resurrezione di Lazzaro

 Giovanni Battista Caliari (copia da Giovanni Francesco Caroto).  Foto -  Roberto Alloro.

 

Scheda Artistica - Dott. Roberto Alloro

 

La parrocchiale di Marcellise conserva un numero eccezionale di tele - ben 13 - di uno stesso pittore, il veronese Giovanni Battista Caliari (1802-1850). Come ha messo in luce Roberta Patrizia Alloro nella sua interessante tesi di laurea, incentrata sulla biografia e sulle opere di questo maestro, la chiesa intitolata alla Cattedra di San Pietro «rappresenta un unicum nell’esperienza pittorica di Giovanni Caliari, una vera e propria fucina artistica senza paragoni nella sua restante produzione».

 

Infatti, a fronte di un corpus di circa 70 quadri di soggetto sacro - numero di tutto rispetto se rapportato alla prematura scomparsa del maestro non ancora cinquantenne - appare singolare che 11 delle copie da lui realizzate si trovino tutte nella chiesa marcerisana, insieme a due altre sue tele originali. Di questi 11 dipinti, quattro sono – mi si passi l’ossimoro -  vere copie ben realizzate di altrettanti quadri di artisti famosi del Cinquecento (due Tiziano, un Raffaello e un Caroto); i restanti sette sono pastiches, ovvero una sorta di collages realizzati componendo sulla stessa tela particolari ricavati da più quadri di autori anche diversi.

 

Una di queste quattro copie è la Resurrezione di Lazzaro, da un originale di Giovanni Francesco Caroto (Verona, circa 1480-1555) conservato nel palazzo Arcivescovile di Verona. Il dipinto, un olio su tela di cm 110x140, si trova almeno dal 1877 – come attesta un inventario di quell’anno – nella ex-sacrestia, ora cappella invernale, sopra la porta che conduce al coro, racchiuso da una modanatura in gesso.

 

Per comprendere compiutamente il soggetto del quadro ed apprezzare il genio di Caroto nell’avvicinarlo al gusto degli abitanti della città in riva all’Adige è assai utile rileggere il brano del vangelo di Giovanni che riporta l’episodio (Gv 11,1-44). Il pittore ripropone l’ambientazione rupestre suggerita dal testo giovanneo («...Gesù viene al sepolcro. Era una grotta e vi era stata posta una pietra»), ma preferisce dipingere un sarcofago invece di un anfratto, secondo la pratica funeraria più familiare ai fruitori dell’opera.

 

Chiamato dal gesto perentorio di Gesù, raffigurato sulla sinistra in veste rossa e mantello blu col braccio destro teso, il morto esce dal sarcofago – sofferente, grato eppur incredulo – e siede sul bordo dell’avello, impacciato nei movimenti dalle bende che gli legano i polsi e le caviglie. Alle spalle del Cristo vi sono tre dei discepoli che lo avevano accompagnato da Gerusalemme fino a Betània per “risvegliare l’amico che si era addormentato”. Sulla parte destra della scena, alle spalle del risorto, ecco le sorelle di Lazzaro. La più giovane, Maria, con la chioma fluente bene in evidenza, «quella che aveva unto il Signore con profumo e gli aveva asciugato i piedi con i capelli», libera il fratello dal sudario che gli avvolgeva il viso. La più matura, Marta, è ritratta con il capo velato mentre, incrociando le braccia davanti al busto, cerca di proteggersi dall’enormità dell’evento a cui sta assistendo. Alle loro spalle, il gruppo eterogeneo dei Giudei che, in visita dalle due donne per consolarle, le avevano  viste allontanarsi in fretta assieme a Gesù e le avevano seguite supponendo che andassero alla tomba per piangervi.

 

Oltre le figure in primo piano, il panorama è dominato dalla mole poderosa di Castelvecchio e del Ponte Scaligero visto da valle dell’Adige. Quattro persone percorrono la strada sterrata che si stacca dagli edifici annessi al castello e curva seguendo l’ansa del fiume. Alle pendici della collina, all’interno di una cortina di mura, si intravede di scorcio dal retro la chiesa di Santo Stefano. Da una porta nella cinta, decorata superiormente da una edicola con bassorilievo, un viottolo si inerpica zigzagando fin sulla scena del miracolo, collocata idealmente sul colle di San Pietro. Lungo il sentiero sostano piccoli gruppi di curiosi. In lontananza, sullo sfondo, colline e montagne. 

 

L’apparente serenità del paesaggio è però guastata dall’accadimento di eventi drammatici in Castelvecchio, testimoniati dalle dense colonne di fumo biancastro che promanano dalla torretta sulla seconda pila del ponte e da un altro punto oltre la torre più a sinistra. Si tratta forse di un riferimento ad episodi riportati dalle cronache connessi al passaggio di truppe straniere nel 1530. La firma dell’autore del dipinto, ossia il monogramma di Giovanni Francesco Caroto, e la data di realizzazione (mdxxxi, 1531) sono riportate sulle due facce dello spessore del coperchio del sarcofago. 

 

Il quadro di Caliari, assai fedele all’originale, differisce da esso per l’eliminazione di alcuni piccoli ma gustosi dettagli in riva all’Adige nei pressi del castello (un mulino fluviale vicino alla prima pila del ponte, alcune barche tirate in secca).

   

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