L’oratorio di Santa Toscana a Marcellise
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Artistica - Dott. Roberto Alloro
L’edificio, a pianta rettangolare, sorge lungo via Borgo Marcellise. La facciata, rivolta ad occidente, è scarna ed essenziale. Sopra la porta d’accesso una nicchia voltata reca un affresco mal conservato con il Crocifisso deposto.
I montanti del portale recano ancora, ben leggibili dopo la caduta di ampie porzioni delle tarde ridipinture a finto marmo, una fitta trama di antichi graffiti. Date, disegni, lettere in cui si distinguono numerose stelle a 5 punte, sia sul montante di destra sia su quello di sinistra, e qualche lacerto di frase: 1536 Adì 16 Aprille… Adì 16 setembro 1556… Mani anonime ma non incolte tracciarono quei segni e quelle lettere sulla pietra tenera gialla, relitti di fatti ed episodi evidentemente degni di nota ma inesorabilmente inghiottiti dal tempo.
Saliti alcuni gradini si entra nell’aula di piccole dimensioni con l’antico pavimento in mattoni. Lungo le pareti, prima del tavolo che funge da mensa eucaristica e dell’altare moderno in marmo in bianco, poche coppie di sedie impagliate. La luce entra solo da due finestre aperte nella parete meridionale e squarcia come lam la penombra densa e fresca. Su una mensola tra le due aperture vi è una statua in legno policromo raffigurante santa Toscana in abito gerosolimitano (saio francescano, mantello nero, velo bianco), con il Crocifisso nella mano destra e il Vangelo nella sinistra. Dal polso destro pendono un grappolo d’uva ed una spiga, frutta e messi sulle quali si invocava il patrocinio e la protezione della santa.
Il tono semplice e quotidiano dell’ambiente e dell’arredo contrasta con l’inaspettata visione del sontuoso affresco che occupa tutta la parete di fondo, in cui è rappresentato un monumentale altare marmoreo a doppio ordine sovrastato da un cornicione a due spioventi da cui pende un pesante velamen che scende dietro e ai lati dell’altare, secondo stilemi artistici ben attestati nelle maggiori chiese di Verona, Santa Anastasia e San Fermo Maggiore su tutte.
Il fregio a girali che decora il cornicione, di gusto assai elegante, mostra su ciascuno spiovente due figure mitologiche alate affrontate intente a suonare il flauto e tronchi di cavalli rampanti. La “macchina” dell’altare, che nella finzione artistica si immagina or ora mostrato allo sguardo dallo scostamento del velame, è di una complessità compositiva ed iconografica straniante se rapportata alla semplicità attuale del luogo che la ospita. Sopra la semplice ma elegante base in marmi policromi si articola l’alzata in due registri, anch’essa realizzata con intarsi di marmi preziosi screziati di giallo e di verde. Al centro del registro inferiore vi è una nicchia voltata in cui era originariamente collocata una statua con la Madonna in trono con il Bambino. Su ciascuno dei due lati tre pilastri scandiscono due edicole in cui sono raffigurati altrettanti santi. Questa partizione è ripetuta con lo stesso ritmo nel secondo registro, che ha al centro – sopra la nicchia – due angeli nudi con la lancia nella sinistra e la destra a reggere un candeliere.
Sopra l’architrave del secondo ordine vi sono due coppie di are con funzione di acroteri. Due putti che suonano la tromba (del trionfo? del giudizio?) sono appoggiati con la schiena ai due elementi più esterni.
Negli otto scomparti sono raffigurati, secondo Luciano Rognini, rispettivamente – da sinistra – nel registro superiore sant’Antonio da Padova, san Bonaventura, Tobiolo e l’Angelo, san Simonino; nel registro inferiore san Ludovico vescovo(?), san Rocco, sant’Onofrio e san Francesco d’Assisi. Alcune tracce di colore superstiti intorno a san Rocco e a san Francesco rivelano che accanto a ciascuna delle figure era scritto anche il nome del soggetto, in modo da consentirne l’identificazione.
L’oratorio è citato, con intitolazione alla beata Vergine Maria, già nella relazione della visita pastorale del vescovo Giovanni Matteo Giberti del 4 luglio 1530, mentre bisogna arrivare a quella del vescovo Sebastiano Pisani I del 18 aprile 1657 per trovare i primi cenni a questa decorazione pittorica: «Inde visitavit simplicem et perantiquam ecclesiam Sanctae Thuscanae di ratione domini Francisci Ferri notarii cum unico altari, ad quod celebratur cum portatili nimis angusto, cui pro icona imago beatae Mariae Verginis lignea picturis et aurolenita sedens in loculo sive fornicem inscrivitur, cum imaginibus aliorum sanctorum a lateribus parieti depictis» («Poi visitò la semplice ed assai antica chiesa di Santa Toscana di proprietà del notaio Francesco Ferro, con un solo altare al quale si celebra con un portatile eccessivamente piccolo, il quale altare ha per icona un’immagine della beata Vergine Maria in legno dipinto e dorato seduta in una nicchia con immagini di altri santi dipinte sulle pareti ai lati»).
Il programma iconografico ideato dalla committenza è degno di attenzione, accostando santi tipici della campagna (san Rocco) ad altri la cui devozione era ed è tuttora molto diffusa (sant’Antonio da Padova, san Francesco d’Assisi) ad altri che oggi ci sono meno familiari, ma la cui presenza può raccontare molto della religiosità del tempo e di chi promosse il lavoro. Particolare menzione merita l’immagine di san Simonino, il culto del quale è legato al clima di antisemitismo che agitava l’Europa nella seconda metà del XV secolo.
Dopo alterne vicende legate alle parabole economiche dei vari proprietari ed essere giunto «diroccato» all’epoca del catasto napoleonico, agli inizi del XX secolo l’oratorio è stato acquistato dagli attuali proprietari, la famiglia Ferrari, che ne hanno promosso con liberalità il restauro conservativo attento e scrupoloso.