Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta (Giovanni Battista Caliari). Foto - Roberto Alloro.
Scheda Artistica - Dott. Roberta Patrizia Alloro, Dott. Roberto Alloro
La presenza delle quattro tele di Francesco Morone e Girolamo Dai Libri creò le condizioni perché, nella chiesa parrocchiale di Marcellise, nei primi anni trenta dell’Ottocento, si assistesse alla realizzazione del più spettacolare e significativo omaggio alla grande stagione artistica ed intellettuale del Rinascimento veronese.
Un’impresa
che, lungi dall’essere – com’è talora sembrato - uno sterile,
anacronistico ed apparentemente bizzarro esercizio di stile, rinnovava,
ampliandolo e completandolo, il messaggio teologico espresso da uno dei più
celebrati gruppi pittorici della nostra città.
Terminati da un paio d’anni i lavori di costruzione della nuova chiesa, mentre la comunità era impegnata ad arredarla, nel 1829 faceva il suo ingresso in parrocchia don Iacopo Dal Palù. La volontà del nuovo parroco era di ornare il tempio con quadri che potessero degnamente figurare accanto alle tele dei grandi maestri provenienti dall’edificio demolito. In particolare, al centro della sua attenzione vi erano proprio le opere di Morone e Dai Libri, la legittima proprietà delle quali era stata sancita nel 1822, al termine di una accesa lite giudiziaria proposta dai precedenti possessori, i conti Dal Pozzo.
Reperiti i mezzi economici necessari a finanziare l’impresa, il sacerdote «trovò il valor del Caliari che lo ha soddisfatto», come riporta un manoscritto di poco posteriore, e gli affidò la realizzazione di un ciclo pittorico che completasse e desse nuovo significato a quello dei due artisti cinquecenteschi. L’idea era davvero geniale. Le quattro pale più antiche formavano, originariamente, le portelle dell’organo della chiesa di Santa Maria in Organo e, in quanto tali, erano fisicamente e concettualmente inscindibili, pena la perdita dell’unità anche intrinseca del paesaggio e del messaggio teologico.
Il Caliari avrebbe dovuto realizzare quattro nuovi quadri in grado di integrarsi ad essi per stile, soggetto, impianto e significato. Ciò che prima era cantato a quattro voci, ora avrebbe dovuto essere intonato da otto, in un colto e sapiente gioco di specchi, citazioni e rimandi esaltati dalla giustapposizione incrociata dei dipinti (le tele moderne posizionate agli angoli tra controfacciata e pareti lunghe dell’aula; quelle antiche collocate di fronte, agli angoli tra pareti lunghe e muro dell’arco trionfale).
L’impresa, come si può intuire, non era affatto semplice ed il paragone con due dei maggiori artisti del secolo d’oro della pittura veronese poteva risultare devastante per la fama del pur molto apprezzato Giovanni Battista Caliari. Una volta definito il progetto era necessario scegliere i soggetti e decidere come realizzarli. Non sappiamo quale fu, in questa fase, il ruolo del committente e quanta la discrezionalità lasciata all’artista, se egli sia stato libero di scegliere a piacimento le opere dalle quali attingere, oppure se vi sia stata anche qui una precisa indicazione. Ciò che appare con tutta evidenza è lo strettissimo legame esistente tra ciascun dipinto antico e il proprio corrispondente moderno. In entrambi i gruppi, infatti, si riscontrano una coppia di profeti, una di sante, una di santi, e, infine, un episodio del Vangelo.
Lo stile, senza dubbio, non poteva che essere quello della scuola veronese del Rinascimento tanto amata e studiata dal giovane pittore che, difatti, si rivolse anzitutto al ricco catalogo di opere esposte nelle chiese cittadine. Le figure dei santi vennero scelte, talvolta copiate e liberamente accostate in funzione del soggetto rappresentato nelle tele di Morone e Dai Libri: così, ad esempio, alla coppia di profeti Daniele e Isaia viene giustapposta quella formata da Ezechiele e Geremia; alle due sante martiri Caterina d’Alessandria e Maria Maddalena si affrontano Lucia e Apollonia, copie di quelle dipinte da Giovanni Francesco Caroto sugli sportelli d’organo di Santa Eufemia; la tela con san Giovanni Evangelista e san Benedetto abate rimanda a quella con i vescovi Lorenzo Giustiniani e Zeno ripresi dalla pala di Girolamo Dai Libri nella chiesa di San Giorgio in Braida; alla Natività si contrappone la Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta.
Ogni
scelta ha una precisa motivazione teologica, che si va ad aggiungere a quella
originaria: vediamo così rappresentati i quattro profeti cosiddetti
“maggiori” dell’Antico Testamento (Daniele, Isaia, Ezechiele, Geremia), al
fondatore dei Benedettini corrispondono i vescovi “fondatori” del
Patriarcato di Venezia e della chiesa veronese, la Natività è prefigurata
dall’episodio della Visitazione.
Anche la dimensione delle otto grandi tele conferma il desiderio della committenza di affiancare agli splendidi quadri rinascimentali altrettanti dipinti “moderni” nel segno di un progetto unitario. I restauri eseguiti sulle pale più antiche, infatti, hanno portato alla luce porzioni di pittura ripiegate sul retro del telaio per farle rientrare, come i lavori ottocenteschi, in specchiature aventi tutti le stesse misure.
Ulteriore testimonianza di tale unità sono gli otto piccoli monocromi collocati nella parte alta dei muri perimetrali dell’aula recanti attributi o simboli legati a quanto raffigurato nelle pale sottostanti, secondo uno schema che Caliari utilizzò anche nell’altare delle Devozioni dipinto nel 1833 per la chiesa di San Carlo presso l’Istituto Maschile “Don Nicola Mazza”.
Fatta questa lunga premessa, necessaria per apprezzare appieno portata e significato dell’aggiunta ottocentesca, iniziamo con questa scheda l’esame dei quattro quadri che formano il ciclo di Caliari partendo dalla Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, databile al 1833 circa.
Il racconto evangelico è quasi traslitterato in immagini: una matura Elisabetta, dal volto segnato dal tempo, accoglie con affettuoso slancio Maria, giovane e bella, sulla soglia della propria casa, caratterizzata da una ricca facciata degna dello status di suo marito Zaccaria, un sacerdote del tempio. Sulla sinistra, in secondo piano, fa capolino un altrettanto giovane Giuseppe, con un fardello sotto il braccio ed il bastone fiorito nella mano. Alle spalle delle tre figure si apre un bel paesaggio lacustre, modellato su quelli tipici di Girolamo Dai Libri, ricco di colline e di edifici. Tra questi, un tempio romano e un mastio medioevale, elementi ricorrenti nelle opere del Caliari, che ama l’accostamento di architetture di epoche differenti.
Sopra le due donne, inginocchiati su una morbida nuvola, vi sono tre angioletti, due dei quali recano ciascuno un cartiglio ove si leggono a sinistra le parole pronunciate da Maria: Magnificat anima mea Dominum, a destra quelle di Elisabetta: Et unde hoc mihi veniat mater Domini mei ad me. Le montagne azzurrine e il cielo terso sullo sfondo richiamano quelle dipinte da Girolamo Dai Libri e da Francesco Morone nelle tele cinquecentesche che stanno di fronte. Nel monocromo soprastante è raffigurato lo Spirito Santo in forma di colomba fulgente.
Allo stato attuale non siamo in grado di stabilire se questo dipinto di Caliari, come pure quello con i profeti, sia un pastiche, ossia un copia-incolla da opere più antiche, oppure sia opera originale.
Secondo
un inventario del 1877 conservato presso l’archivio parrocchiale, egli avrebbe
copiato i personaggi di questi due quadri da opere del Morone di cui, però, non
siamo a conoscenza.
Qualche
anno più tardi, nel 1838, Caliari affrontò nuovamente e in modo del tutto
originale il tema della Visitazione per la chiesa di Monteforte d’Alpone in
cui, rimanendo nel solco dell’ispirazione rinascimentale ma libero dai rigidi
vincoli incontrati nella chiesa di Marcellise, seppe dimostrare una volta di più
tutta la sua straordinaria bravura.