di Piero Piazzola
“Filò”:
perché questo nome?
“Il termine”filò” deriva, presumibilmente, da “filare”, cioè dal lavoro particolare che le donne andavano a fare d’inverno nelle stalle. Poi ha finito per stabilire gli incontri serali di varie persone nelle stalle, sia di montagna come di pianura, durante la stagione più fredda, per stare al caldo, per passare il tempo, per recitare il Rosario, per sentir qualche novità del paese o dei dintorni, per far piccoli lavori a mano, per parlare e per … sparlare. “Far filò” voleva dire anche quel discorrere del più del meno, tra vicini di casa, tra “contraenti”, cioè abitanti nello stesso gruppo di case, tra gruppetti di persone, tra parenti e amici di sera… per cui “filossàr” aveva questo significato: stare insieme; discorrere, chiacchierare; malignare, calunniare, spettegolare; raccontare, custodire e trasmettere le tradizioni, e … chi più ne ha né più ne metta.
Perché
nelle stalle?
Una volta non c’era il riscaldamento nelle case fintantoché funzionava il fuoco per preparare la cena, si poteva anche resistere: un po’ di calore il fuoco riusciva a diffonderlo, ma, quando esso si spegneva, le cose cambiavano, nelle case cominciava ad esserci tanto freddo. E allora, giunta la sera, dopo cena, la gente si rifugiava nelle stalle, al caldo. Quel caldo aveva qualche inconveniente, perché il bestiame della stalla, dove vacche e maiali coabitavano nello stesso ambiente, di solito molto piccolo e basso, produceva sì calore gratuito, ma contemporaneamente anche puzzo ... gratuito.
Ma tant’è, piuttosto che congelarsi nelle case si rischiava l’odore e un’aria un po’ deleteria alla salute, anche perché nella stalla si radunava la contrada, la corte. C’era insomma un po’ di … mondo. Varrebbe la pena di consigliare, a chi non ha idee del “filò”, di andarsi a rivedere in cassetta quel bel film di alcuni anni fa: “L’albero degli zoccoli”.
Si comprenderà allora che per costruire un paio di zoccoli si andava a rubare una pianta di notte; si ricorderà che la legna per far da mangiare, spesso e volentieri, si andava a tagliarla la sera per il giorno dopo e si potrà immaginare che razza di calore essa poteva produrre; prima doveva … scaldarsi ben bene lei, poi ….
Da
quanto tempo si faceva il “filò”?
Non
vorrei sbagliarmi affermando: da sempre. Si pensi, tanto per dare un’idea, che
il grande vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti, uno dei principali artefici
della riforma della Chiesa presso il Concilio di Trento (nel pieno Seicento),
tra i tanti difetti delle comunità della sua diocesi che egli riscontrò
durante le sue visite pastorali, non solo tra i fedeli ma anche tra gli stessi
sacerdoti, e che condannò con parole di fuoco, c’era anche quello dei
cosiddetti “filò”, perché essi, troppo spesso, degeneravano in tristi
ritrovi; e bollò anche i raduni, dopo le messe domenicali, nelle osterie (le caupones)
di uomini, donne e anche di sacerdoti; nelle osterie si andava a gara a chi
beveva di più e a chi raccontava le barzellette più boccaccesche.
Ma
venendo a tempi più vicini a noi, un’inchiesta agli albori dell’Ottocento,
portata a termine dalla Prefettura di Verona sulla situazione economica, sociale
e morale della popolazione veronese, si trova registrata anche l’usanza del
“far filò” nelle stalle, tanto in montagna quanto in pianura. Tant’è
vero che in certe grandi stalle di pianura, in modo particolare, il proprietario
(di solito un signorotto) esigeva, alla fine di ogni mese, da ogni famiglia che
interveniva al filò nella sua stalla, una piccola tassa per mantenere l’olio
della lanterna.
Come
era programmata la serata del “filò”?
Terminata
la parca cena, messi a letto i bambini più grandicelli, le donne e gli uomini
si riunivano nella stalla. Le donne con dei figlioli piccoli a letto non
potevano andare in stalla se a casa non restava qualcuno a sorvegliarli; e
quegli allora andava pure lui a dormire oppure si salvava davanti al focolare
bruciando i sòchi, per risparmiare legna da ardere.
I
“filossiéri”, chi erano? Le donne che andavano a “filò” di solito si
portavano dietro qualcosa da fare: la molinèla per filare la lana,
oppure il guindolo per far e disfare le matasse, aghi e filo per ponciàr,
ferri da calze o da maglie. Le giovani donne, se erano da marito,
procuravano di mettersi a posto la dota; gli uomini, quelli più anziani,
andavano a sdraiarsi nel fenàr (un angolo contenente il fieno per la
giornata); quelli più giovani badavano ad aggiustare attrezzi da lavoro o a
fabbricar qualche arnese utile per la casa e per la stalla (sésti (cesti),
dèrli (gerle), restèi (rastrelli), forche, spassaóre (scope),
scagni (scanni) per mungere, arbi (trogoli di legno scavati nel
tronco di una pianta nel cui incavo si versava il mangiare dei maiali ecc.). Poi
c’era il solito “competente” in “lettura” che leggeva a puntate
qualche libro famoso, quasi sempre all’indice (“I Miserabili”, per
esempio, “La sepolta viva” ecc.) oppure raccontava fatti accaduti o sentiti
narrare da altri, spesso stravolgendone i contenuti.
Ma
tant’è, quel “pubblico” di allora — la terza elementare era il massimo
dei titoli di studio che un poveraccio di lassù poteva guadagnarsi, magari
frequentando la scuola per sette-otto anni — molto spesso, non conosceva tanto
di più di ciò che gli si raccontava; casomai aggiungeva a quello che
raccontava il “contastorie” le sue esperienze personali. Sta, di fatto, ad
onor del vero, che mentre il “filò” degenerava molto spesso in un luogo di
maldicenze e di pettegolezzi, specialmente sulle ore tarde, quando i ragazzi
erano già stati avviati a letto, altrettanto si deve dire che fortunatamente
esso, per quei tempi, fu l’unico canale di trasmissione e di diffusione di
cultura; della povera cultura di allora, ma sempre di una forma di cultura che,
altrimenti, sarebbe andata perduta.
Poi, quando tutta l’assemblea era presente e prima che i più giovani tagliassero la corda per sottrarsi alla recitazione delle preghiere, la donna più anziana — di solito la padrona della stalla — “attaccava” il Rosario, seguito dalle Litanie, dalla prima all’ultima, con tutte le invocazioni, accompagnate da una lunga sequenza di preghiere in ricordo di gente della contrada, del paese, dei dintorni, recitate in latino, che a voler ripeterne qualcuna si rischia di cadere nel blasfemo, nel turpiloquio. Un semplicissimo esempio:
Santa
mia, mena diei,
mora mora, mori ame.
Sbregàr
la ciòca: ossia il
fidanzamento.
Ma
nel “filò” si combinavano anche i matrimoni. I “morosi” si ritrovavano
al “filò”, chiacchieravano, si davano appuntamenti per la domenica, per la
sagra nei paesi vicini e nel proprio paese, per incontrarsi quando la ragazza
andava a custodire il bestiame al pascolo; insomma, per mandar avanti il
“rapporto” iniziato, che, in altri termini, altro non era che un preludio
bello e buono al fidanzamento. Ma bisognava andar nelle case a far “filò”
con la morosa, se si voleva che il rapporto avesse un seguito. I genitori
della ragazza pretendevano di prendere contatti visivi e anche “parlati” con
el moroso: in casa, non nella stalla.
Il fidanzamento, presso le popolazioni di origine cimbra della Lessinia aveva luogo in un modo molto strano. Un mese prima delle pubblicazioni ufficiali in chiesa e in comune, il padre del futuro sposo (con lo sposo insieme, che era poi suo figlio), a notte fonda, senza far pubblicità, si partivano da casa e andavano a casa del padre della futura sposa. La madre della ragazza, intanto aveva preparato una cenetta, una bella gallina (una ciòca, cioè, bella grassa), cotta a lesso. Tutti sedevano a tavola e, dopo alcuni discorsi del più e del meno, di carattere generale e locale ma che nulla avevano a che vedere con gli obiettivi di quella sera, e dopo la rituale domanda del padre dello sposo al padre della sposa se era contento di dare la mano della figlia al proprio figliolo, il padre della sposa agguantava la gallina, preparata sul tavolo, la impugnava per le gambe e la sbregàva (la spaccava in due o in più pezzi) e ne dava un pezzo ad ognuno dei convitati. Non v’era bisogno di coltelli o di forbici per quell’occasione. La proposta di matrimonio era così suggellata con un documento non firmato, ma ugualmente valido perché consacrato dalla tradizione. La tradizione diventava … cerimoniale, rito, culto.
Una
“dota” di quei tempi.
Quando
una ragazza trovava un fidanzato e v’era la certezza quasi assoluta che
sarebbe andata all’altare con lui, cominciava a prepararsi la dote, la
cosiddetta dota. E la dota la preparava nei tempi convenienti: di
sera: in casa o in stalla, durante la giornata: nei ritagli di tempo. Ci
lavorava anche di domenica, dopo essere stata alla Messa del mattino — la
prima, quella che frequentavano le donne, perché dopo esse dovevano restar a
casa a preparar da mangiare e a dare il cambio agli uomini per la messa seconda
— e al Vespero, nel pomeriggio. Tuttavia non si creava tante illusioni la
futura sposina, perché la consistenza della dote era piuttosto contenuta,
misera.
Ecco
un elenco incompleto di capi di dota che una sposa dell’Alto Vicentino
portò con sé quando si maritò: 1 cocietta di nogara (lettino); 1
caldiero da liscia (mastello da bucato); 1 paio lenzuoli canapa; 3
camicie lino; 2 camicie usate; 2 bustine usate; 3 cottole in sorte; 3 abiti in
lana in sorte; 1 veleta; 1 sciallo; 8 paia calze; 1 materasso a penna; 1 coperta
operaia; 1 armadio noce; 1 pontapetto oro; un pajo buccole oro. Ma questa
era già una dote … di classe.
Bisogna
tener presente, per inciso, che nell’elenco delle spese del matrimonio era
necessario aggiungere anche quelle del sacerdote per la celebrazione delle
nozze, dei campanari per l’accompagnamento con le campane a distesa durante il
tragitto da casa della sposa alla chiesa e poi nei momenti più importanti della
messa. Bisogna anche ricordare che in taluni paesi, era fatto obbligo allo sposo
di donare al parroco un fazzolettone rosso, come quello che usavano quelli che tabaccava,
e alla futura suocera un paio di pianele (babbucce). Varrebbe
sicuramente la pena di riferire anche i sinonimi dialettali con cui veniva
soprannominata spiritosamente — ma sotto sotto v’era la cruda realtà della
miseria — la dote: la pégora, i puldi. “Pègora”, perché
talora era tanto misero il volume della dote che si poteva avvolgere in una
pelle di pecora; “puldi” (pulci), perché le cose che stavano per tanto
tempo ad aspettare il dì del matrimonio, rischiavano di diventarvi
“alloggio” di pulci.
Quando
tutto era pronto per il trasferimento della dote a casa dello sposo, qualche
giorno prima del matrimonio e di sera, il futuro marito, el noìsso,
arrivava a casa della sposa con un cavallo e la grója (carretta per il
trasporto del fieno, senza sponde) o con un carretto se di “buona” casa,
caricava il tutto e, accompagnato da lei o dalla madre, la portava a casa
propria. El noìsso, da parte sua, come volevano le tradizioni, doveva
badare al comò, più conosciuto come armàro, al mobilio della
camera nuziale; mobilio che si riduceva in due cavalletti di legno, con delle
tavole per sostenere i materassi de scartòssi, sopra i quali v’erano quei
de péna (penna possibilmente di oca), un attaccapanni ricavato da certi
rami contorti di piante e fermato alle travi; due sedie impagliate, un buféto,
una cassapanca.
Il
matrimonio e …
la
sbàra
E
la mattina del matrimonio gli invitati, i nossiéri cioè, si radunano
tutti in casa della sposa. Lo sposo — così voleva la tradizione — sale da
solo in camera, prende in braccio la sposa e la porta giù al piano terra. Poi
partono tutti: davanti il padre della sposa con la figlia, dietro lo sposo con
suo padre e dietro ancora il corteo. Corteo che all’uscita della contrada è
costretto subito a fermarsi, perché è stata preparata la sbarra, un’altra
usanza cimbra. Un palo, camuffato da fasci di legna, sbarra la strada, guardato
a vista da uomini travestiti da guardie con il fucile in mano e da donne
mascherate da streghe. Pretendono il lasciapassare. Gli sposi devono fermarsi,
mostrare i documenti, firmare un registro, e bere un intruglio di liquidi non
proprio piacevole. Poi si avviano alla chiesa. A piedi, accompagnati dal suono
delle campane in terso, cioè in concerto. Anche nel ritorno alla casa
dello sposo fanno la sbarra, seguita da un cerimoniale sulla porta di casa: la
trovano sbarrata da una scopa che la sposina deve prendere e maneggiare con una
certa abilità, perché dal suo gesto, la suocera capisce se è donna di casa o
meno.
I
concertisti, i campanari, vengono precettati già molto tempo prima, con un
contratto che la tradizione ripete categoricamente: un litro di vino per ogni
campanaro, una paga di 100 lire ciascuno, un “boccone” a casa dello sposo la
sera, non importa se devono adattarsi a mangiarlo in cucina o nel locale
dell’acquaio o se consiste solo di ossi lessati o di crauti con qualche avanzo
di carne. Ma il boccone deve esserci o non è più tradizione. E vino ancora,
quello senza misura….
Terminata
la cerimonia religiosa, nel programma non può mancare una visita all’osteria
dove non si contano i bicchieri tracannati. Tanto, è tutta la settimana che si
fa astinenza. E certe occasioni, come questa di un matrimonio, non sono molto
frequenti e non bisogna proprio trasgredirle.
Il rapimento
Quando i genitori di lui, del futuro sposo, vengono a capire che ormai non c’è più niente da fare per distoglierlo dal matrimonio con quella… e che ormai è lei e non un'altra la ragazza che ha scelto, ma che, purtroppo, quella non ha una solida scorta di mezzi e di denaro, cominciano a mettere i pali tra le ruote … allo sposo, al figlio.
Allora
si verificava — torniamo a un tempo passato, perché oggi questa circostanza
non si ripete più con quelle ritualità di una volta — la fuga. Il promesso
sposo organizzava di notte il rapimento della ragazza, d’accordo con la
fidanzata e con un paio di amici fidati e l’appoggio di una famiglia
“allineata”, si direbbe oggi, per ospitare temporaneamente la fidanzata. La
ragazza veniva portata a casa di
uno dei due amici e affidata alla mamma di lui. E vi rimaneva finché le cose
non prendevano una piega diversa. Il più delle volte cedevano i genitori del
ragazzo e allora lo sposalizio, in una forma meno importante e col muso longo,
si celebrava. Se i suoi genitori, invece, s’intestardivano, la situazione
peggiorava. La nuova famiglia peraltro partiva ugualmente.
Il
parroco del mio paese, nel 1867 trascrisse un documento di denuncia, da parte di
Antonio P. fu Gio Batta, di un avvenuto rapimento di una certa Angela S., che
aveva già data la sua adesione alla pubblicazione delle nozze con un certo
Cristiano T. di Marco, presenti i testimoni e “compari” del ragazzo. Antonio
fece mettere al parroco per iscritto quanto segue: « Voi sarete testimoni
che io in questa notte ò levata Angela S. fu Antonio e depositata in una
famiglia di qua, intendendo con questo che sieno fermate le pubblicazioni
incominciate tra la stessa e Cristiano T. fu Marco…».
Nelle
pagine del registro dei matrimoni che seguono apprendiamo che l’Angela di lì
a poco passò a nozze proprio con l’Antonio P. che l’aveva rapita.
Probabilmente, in precedenza, essa
aveva accettato di far le pubblicazioni con il Cristiano, pur di sottrarsi a una
vita di violenze e di servilismo in casa sua. Presentatasi la soluzione che le
avrebbe permesso di avere una vita più dignitosa in una famiglia più educata,
aveva giudicato liberatorio il rapimento. Lei aveva 22 anni; Antonio, invece,
27. Giovanissimi per quei tempi.
E
concludiamo quest’altro intervallo del “…cammin di nostra vita” di un
tempo, lassù tra le montagne dei Cimbri, con un’ennesima ritualità che
privilegiava il maschio, rispetto alla femmina. Settimana Santa, Pasqua, Fonte
battesimale nuovo. Il primo bambino
maschio che nasceva nel periodo pasquale, oppure subito dopo la festività della
Pasqua — dobbiamo ricordare che a quei tempi i neonati dovevano esser
battezzati nel giro di una settimana o poco più — aveva diritto di vèrzar
el fonte, cioè di avere la prerogativa di essere battezzato per primo dopo
il rinnovo dell’acqua battesimale; cerimonia che aveva luogo il sabato santo.
Per
tale occasione cambiavano anche le ritualità collegate alla cerimonia. Tant’è
che se una famiglia non aveva i mezzi per sostenere tale spesa, doveva cedere ad
un’altra il diritto. Ma perché questo? Perché bisognava affrontare qualche
spesa in più
Consuetudine
voleva che la famiglia del neonato (fortunato) dovesse regalare alla chiesa un
agnello di un certo peso. L’agnello, convenientemente ingrassato, il giorno
del battesimo, veniva bardato con fiocchi, campanelli e nastrini multicolori,
condotto in chiesa insieme al neonato, alla comare, al padre, a due o tre
“Confratelli del Santissimo”, vestiti di tutto punto con la loro
caratteristica divisa, che reggevano una croce, due torce e il secchiello
dell’acqua santa, e alle autorità del luogo. Non mancava la consueta frotta
di ragazzini che si attendevano alla fine la mancia da parte dei compari, che in
quell’occasione particolare doveva essere più sostanziosa. Anche il parroco,
per quell’occasione, si lustrava: indossava il camice bianco al posto delle
normale cotta e stola. A cerimonia ultimata, tutti, fatta eccezione per i
ragazzini, si fermavano all’osteria a far un po’ di festa.
E
l’agnello poveretto? L’agnello veniva donato al parroco che, qualche
settimana dopo, lo faceva scannare e poi cucinare dalla perpetua; quindi
organizzava una cena in canonica, alla quale invitava, a spese sue, tutti coloro
che erano stati presenti alla cerimonia del vèrzar el fonte, fatta
eccezione per il neonato e per la sua mamma; mamma che doveva starsene in casa
per una quarantina di giorni (la Quarantìa) e, quando ne usciva, doveva
essere riammessa alla Chiesa, perché “impura”. Povere donne!
Chi
scrive — ed è quel bambino col berrettino alla marinara — è stato
testimone di un cerimoniale di questo tipo, e ne può esibire una prova
fotografica. Gli altri: la suocera (nonna materna), la comare con il bambino, il
padre del bambino, il nonno paterno, il parroco, il sindaco del paese. (anno
1930).