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25 aprile 1945: Gnochi sbatùi

 

 

di Piero Piazzola

 

    Non sono ancora passati per me gli ottant’anni d’età, ma mi ci manca poco. Prendo a spunto il Nievo con le sue “Confessioni di un ottuagenario”; ma non pretendo assolutamente di paragonarmi a lui, nemmeno alla sua ombra, perché le “confessioni” che ho già fatto, le mie, e che farò più avanti, nei miei ricordi scritti, non sono vere e proprie confessioni; sono solamente considerazioni, riflessioni, desideri e bisogno di aprire qualche piega della mente e dell’anima, di scaricarne fuori le scorie che, altrimenti, potrebbero inceppare qualche ingranaggio interno, intimo, potrebbero nuocermi.

 

A quest’età vorrei solo fare alcune osservazioni, su un giorno in particolare, in senso più lato su quei giorni che seguirono e che ruotarono attorno a una data storica, ad un passaggio epocale -io lo considero epocale-, al ritorno alla vita. Una di queste riflessioni  concerne un … simpatico compromesso che fa riferimento a quella giornata memorabile del 25 aprile. Qualcosa ho già scritto in merito anche in altre pagine.

 

Quel giorno, verso mezzodì, io con i miei compagni ... d’arme, ero di ritorno a Campofontana dalla Valle del Chiampo per un meritato (?) riposo che doveva preannunziare, chiamiamolo così, il congedo dalle … armi. La guerra era finita, le campane suonavano a stormo in tutti i campanili a cominciare da quello del mio paese per finire a tutti quelli che, dal piazzale della chiesa, spuntavano fuori, là, sui cocuzzoli dei monti d’intorno. Il suono di altre centinaia di campane ci giungeva anche dai campanili che non si potevano vedere o distinguere a causa dei rilievi montuosi che li sottraevano alla vista e altrettanto si dica da quelli del confinante Alto Vicentino; da questi ultimi, che non si vedevano, dato che spirava da mattina una leggera brezza primaverile, ugualmente si percepivano i suoni distinti e forti.

 

Campane a festa, a tutto volume, insieme a furiose raffiche di mitra e di mitragliatrici a salve, ultima eco di una guerra che stava chiudendo il sipario. 

 

Adesso, quasi sessant’anni dopo, mi tormentano lo spirito certe scene simili a quelle di allora che vedo alla televisione: popoli del vicino oriente che “spediscono” al cielo interi caricatori di pallottole in segno di protesta o di festa, secondo le circostanze. A cosa serve tutto ciò? La morte è morte; la gioia è gioia. A cosa servirono i nostri spari di allora? Passato il frastuono, la sfrenatezza, buona e sincera fin che si vuole, rimanemmo ancora con le nostre ansie, con le nostre inquietudini. Con tutte.

 

Rientriamo nel tema. Festa anche in famiglia quel giorno. Ma quale famiglia! Io e mia mamma, due poveracci che l’avevano scampata per un pelo; si può chiamar famiglia questa?  Eravamo ancora in casa dei Chini, per grazia di Dio, e per quel mezzodì mia mamma mi preparò nientemeno che il piatto più “succulento” che si potesse scegliere in un menu povero, di meschini, per un dì di festa: quello dei gnochi sbatùi o gnochi alla malghésa.  Piatto semplicissimo: acqua, un uovo e farina bianca. Si fa un pastone piuttosto sodo, lo si scucchiaia a piccoli “bocconi” nell’acqua bollente salata — scrivo “bocconi” per far capire che poi, una volta cotti, questi bocconi dovevano poter passare, senza strangolarsi, tra la cerchia dei denti e la gola.

 

Poi, quando si sono rappresi e affiorano, si scolano e vi si versa sopra un po’ di burro di quello buono delle nostre malghe, fritto, quasi bruciato, un po’ di formaggio grattugiato e … una manciata di allegria che di solito si accompagna alla fame. Alla fame dei vent’anni!

 

La festa c’è stata ugualmente quel giorno. Ma quella volta di burro fritto, quasi bruciato neanche l’odore. Non ce n’era un grammo; l’avevano requisito, manco a dirlo, “le forze di occupazione”. Bisognava ricorrere ad un altro condimento: lardo, fritto anche quello, quasi bruciato; ma non lo consiglierei a nessuno per mangiare i gnochi sbatùi. È tutta un’altra cosa. Punto e basta!

 

    La festa la facemmo ugualmente, io e mia mamma, quel mezzodì in casa mia. E fu un vero pranzo ... nuziale. La guerra era finita. Questo contava; e questo era il condimento più gradito, più stuzzicante. Ho scritto “nuziale”, perché in un certo senso eravamo riusciti a sposare di nuovo … la vita.

 

    La vita quel giorno mi è parsa proprio più bella, più seducente ancora della più bella donna che io abbia mai visto. Io di belle donne ne ho viste pochine, ma non mi sono neppure preoccupato granché di vederne; ma mia moglie e qualche altra bella creatura femminile, che mi ha accompagnato lungo l’arco della mia carriera, quelle sì che le ho viste e sono state le più belle donne del mondo.

E ci brindammo anche, sopra ai gnochi sbatti, quel giorno, con un paio di bicchieri di … graspìa; un brindisi speciale, no? Un brindisi al “Buon Dio” che ci aveva permesso di gettare l'ancora sulla riva del 25 aprile.

 

25 aprile: Festa della Liberazione! 18 anni. Sono passati quasi 60 anni. Oggi scrivo queste paio di righe che traggo da un mio curriculm vitae, ancora allo stato di manoscritto, per ricordare quel momento. Ma spesso mi domando: che cosa furono per me a quei tempi: la Liberazione, la Guerra partigiana, la Libertà, la Democrazia, l’Uguaglianza, i Diritti civili e via dicendo? Allora ne avevo capito qualcosa dello spirito, dei valori, degli ideali? 

 

No! Purtroppo, no. Troppo giovane, troppo lontano dal grande mondo, dove di queste cose si parlava da tempo, troppo fuori della politica di allora.

Non sono il solo a dirlo. Mi viene in aiuto il prof. Francesco Guarienti, che nel 1994 ha rilasciato un’intervista al giornalista J. P. Jouvet: «Le confesso che non fu una scelta maturata attraverso riflessioni e convinzioni ideologico-politiche. Ero troppo giovane perché avessi già una coscienza profonda, radicata in questo senso, sebbene …». Una dichiarazione che condivido pienamente, perché anch’io mi sono trovato a riflettere sulle stesse cose. Poi la coscienza maturò; ma un anno di tempo e di riflessioni non potevano offrire un qualcosa di più appagante per organizzare convinzioni, per forgiare obiettività.

 

Nessuno parlava di politica al mio paese. Solo di guerra. Quei due, tre antifascisti che c’erano in paese e che potevano comunicare qualche considerazione, qualche indirizzo, magari a senso unico, tenevano le orecchie ben diritte. Tanto diritte che qualcuno, fascista dichiarato per i 25 anni precedenti, quando capì come si andava mettendo il conflitto, hinc et illico, corse a cambiar camicia. E nessuno fiatò. Io ero giovane e non m’interessavano i colori delle camicie; dovevo salvare la pelle; quella era la mia politica, la mia camicia da indossare il più presto possibile. E non mi vergogno di aver badato solo alla pelle, allora; e ho fatto di tutto per salvarla. Come ero in grado di fare, ovviamente; con tante contraddizioni interiori, con tanti punti interrogativi, con tanti “ma” e con tanti “se”; eppure con altrettanto spirito sincero e schietto.

 

Tutto il resto verrò a capirlo solo dopo, molto più tardi. Comincerò a capirlo, ma a livello istintivo, fondamentale, senza imbrogli e malizie, dopo le disavventure, dopo i giorni bui, dopo i guai che mi sono capitati e che, grazie a Dio, ho superato con un buon concorso di circostanze e con altrettanta buona stella. Ma della Resistenza, della Guerra di Liberazione, della Libertà, della Democrazia, ancora adesso, riferendomi a quei tempi, mi sforzo di racimolare i concetti scollegati di allora e, con altrettanta difficoltà, quelli più profondi che turbinavano nella mia testa.  Piero Piazzola, alias “fulmine”.

   

Nella foto: L’autore, in tenuta paramilitare,

 posa per una foto ricordo insieme a un compaesano.

 

 

Partigiani .... caduti dopo la liberazione

 

 25 aprile! Giorno della liberazione. Lo festeggiammo anche noi, come da per tutto, col suono a distesa delle campane, con gli spari dei nostri mitra, con altre “scemenze” da ventenni che adesso mi fanno sorridere e anche un po’ arrossire. Ma era la fine della guerra e qualche stupidata si poteva anche commetterla. Troppa la contentezza! Eravamo ritornati proprio quel giorno al nostro paese da una missione nelle valli del Chiampo  e dell’ Altissimo, finita bene per quasi tutti noi, non certo per Attilio che rimase ferito a un gamba e il Comando di Brigata aveva disposto che si tornasse a casa per qualche giorno di relax, in attesa di un richiamo per rientrare eventualmente in azione.

 

    Non facemmo neppure in tempo a rimetterci in ordine, a misura d’uomo e a riordinare le idee, che improvvisamente arriva una disposizione perentoria da parte del Comando di Brigata di tornare immediatamente in quel di Arzignano, armati di tutto punto, e di dirigersi verso la località Guaina, suoi monti di Montorso. Partiamo, tutti e a piedi ovviamente — non avevamo mezzi di trasporto noi, poveri partigiani —, ci dirigiamo verso la zona di Montorso, non prima di esserci fermati un istante ad Arzignano dove il comando aveva organizzato la spedizione … punitiva. Cos’era successo?  

   

Erano già trascorse quattro buone giornate dalla fine della cosiddetta “Guerra”, così almeno si diceva e così almeno credevamo e speravamo tutti. 

 

Di guerra, invece, ce n’era ancora e per qualcuno di noi essa non terminerà più; per due nostri compagni non ci sarà più la Liberazione, non ci sarà mai la Pace, non ci sarà più il rientro in famiglia.

 

Alla Guaina c’era una bella villa, isolata, circondata da un terrapieno e da una siepe. Là dentro un gruppo di “SS”, armati fino ai denti, con fucili di precisione, decisi a vender cara la pelle, aveva stabilito provvisoriamente la propria residenza senza il regolare permesso…dell’autorità. Ti viene da ridere? Anche a noi sfuggì un sorrisino sotto i baffi, quel pomeriggio, perché pensavamo che quei quattro disperati, a nostro parere, avevano sbagliato indirizzo a insediarsi lassù, sulla dorsale di una montagna che non aveva comunicazioni agevoli verso nord; perché, al contrario, le vie più comode verso la madrepatria passavano per le valli, non attraverso i monti, che, insomma, come si dice: avevano fatto male i conti, che li avevano fatti senza l’oste. In questo caso l’oste dovevano essere i partigiani. Invece, altro che conti! Li avevano fatti bene, ma solo fino al momento di pagare lo scotto.

Andiamo con ordine. A metà strada tra Arzignano e Montorso, si stacca una strada che conduce alla Guaina appunto. A me, a Luciano, il mio compagno di “imboscamento” dell’inverno passato, se si può dire così, e a Costantino, viene affidato il compito di un rigido piantonamento della strada di accesso alla Guaina; tutti gli altri, una cinquantina di partigiani dei distaccamenti di Campofontana e di altre località, s’incamminano con tutte le cautele verso la postazione dei tedeschi. Dopo un paio d’ore di snervante attesa da parte di tutti noi, di noi tre in particolare, che non potevamo né vedere né sentire cosa stava succedendo lassù sulla collina, attesa che, probabilmente, si può solo addebitare ai movimenti di avvicinamento e di accerchiamento della villa-bunker, sentimmo due fucilate secche, agghiaccianti, distaccate l’una dall’altra di qualche minuto, e poi un silenzio incredibile, pure quello di qualche minuto. Non un grido, non un segno di smarrimento, non un indizio di disgrazia per il momento, perché tra noi tre e i reparti operanti c’era una montagna di mezzo con tutte le sue componenti orografiche e naturali.

 

Poi, di lì a qualche momento, una rabbiosa sparatoria, urla altissime di smarrimento e insieme di trionfo. Poi passano in fretta e furia, nel silenzio più ossessionante, due barelle, confezionate alla spicciolata sul posto con rami di albero e frasche di un verde lussureggiante che contrastava maledettamente con le vittime che vi erano adagiate sopra.

 

Seguono gruppi di partigiani che accompagnano i due malcapitati dalla sorte, e quasi subito dopo una trentina di “SS”, con le braccia legate dietro la schiena, disgustosi da vedersi, e altri partigiani che li sorvegliano.

Tutto era finito così; ma intanto i nostri due compaesani, Marcello e Gregorio, erano passati nell’al di là senza salutarci, senza incaricare qualcuno di salutare le famiglie, senza mostrare un sorriso di compiacimento per quello che avevano fatto, per quello che avevano contribuito a fare. Colpiti da una pallottola, di quei fucili di precisione, qui sulla fronte, appena sopra gli occhi: s’erano alzati sull’argine, su quel terrapieno che abbiamo citato dianzi, solo quel tanto da poter prendere la mira. Una pallottola gli ha bloccato il dito sul grilletto, a tutti e due. Poi i funerali, poi la memoria, poi il saluto di noi tutti.

Nella Foto: I familiari delle due vittime

 accanto alla tomba dei propri cari.

 

    E quelli delle “SS”? Furono portati in prigione ad Arzignano e andammo a guardare anche noi le loro facce.

 

Là dietro le sbarre, i loro occhi erano molto più buoni. Le loro labbra si atteggiavano a un sorriso. Troppo tardi forse. Non so che fine abbiano fatto. A me è bastato poter intravedere nei loro sguardi un invito all’indulgenza e forse alla generosità.

 

    Dopo un paio di giorni tornammo ancora in Val del Chiampo e questa volta proprio a Chiampo e dintorni, perché ci era stato segnalato il passaggio di una ennesima colonna di tedeschi che tentavano il rientro in Germania passando lungo la vallata, diretti a Crespadoro, Campodalbero, Monte Marana e Recoaro. Marciavano a gruppetti. Tattica sbagliata, adesso che ci penso e a cose fatte; ma allora forse era la scelta migliore per tentar di sfuggire al controllo e ai punti di controllo. Chissà perché avevano scelto questo strano modo di fuggire. Ritenevo che sarebbero stati molto più sicuri se avessero fatto quadrato, un po’ come avevano fatto qualche giorno prima quelli delle “SS” con le amare conseguenze che avevano provocato. Subito dopo capimmo la ragione di quel contegno che non aveva nulla a che fare con la strategia. Avevano gli zaini pieni di soldi italiani; di quelle carte da mille lire che molti ricorderanno ancora. A chili. Avevano gettato le armi nei fossi, si erano tenuti una pistola, ma avevano fatto bottino.

 

    Io e Costantino — che poi sarebbe diventato mio cognato — fummo i primi ad accorgerci che qualcosa non andava per il verso giusto, che essi avevano escogitato qualche imbroglio per farla franca. Ne fermammo quattro che alzarono puntualmente le mani, come agnellini, ci consegnarono le pistole e finsero di rimettersi a camminare. Noi avevamo l’ordine di disarmare solamente. Costantino, fiutando un comportamento ambiguo, provò ad alzare uno zaino ad uno di loro. Leggerissimo; troppo leggero rispetto al peso del bagaglio di un soldato e di un soldato che scappa e che tenta di arrivare a casa. Lo aperse e vi trovò il malloppo.

 

    Fu una fregatura per quei quattro e per altri che vennero dopo di loro. Non so quanti sono stati fermati, ma più tardi il comandante della brigata ci confessò che erano stati recuperati parecchi milioni e che essi sarebbero serviti a pagare alcune spese del battaglione e a riparare alcuni danni. A ogni partigiano che aveva sequestrato uno di quegli zaini-cassaforte regalò cinquecento lire. Era una bella somma allora. Il valore di quelle “carte da mille”, però, durò ben poco, soppiantato dalle “Amlire”, la moneta americana.     

 

Un prete cimbro e un soldato tedesco, angeli incoronati

 

Don Domenico Mercante e Leonhard Dallasega.

 

«La Resistenza è stata una scelta che ha consentito posizioni molteplici, come anche la testimonianza qui riportata dimostra: dai fronti dell’eroismo a quelli della sommessa pietà. Ma ci sono momenti in cui le distinzioni si riducono a un perentorio aut-aut; o dalla parte della luce o da quella delle tenebre. Un giovane soldato tedesco, padre di quattro figli, conosce l’alternativa di quell’ora. Gli vogliono far commettere un’infamia: uccidere un prete innocente. Erompe il suo “No!”, tante volte strozzato nella gola. Egli è dall’altra parte, accanto al prete, libero nella morte eroica ».

                                                                                                                                                          

Questa introduzione che Antonio Collo, studioso di storia contemporanea ha reso pubblica, comparve anonima su “L’Italia” di Torino nel giugno 1959.

È il 27 aprile del 1945. I tedeschi sono in fuga verso il Brennero. Un colonna di paracadutisti risale la valle del Progno - Illasi, in direzione di Passo Pertica, nel gruppo del Carega, da cui, poi, scendendo lungo la vallata di Ronchi-Ala, si potrà guadagnare la provinciale per il Brennero. Che voleva dire: guadagnare la strada più sicura per tornare nella terra d'origine; riguadagnare la libertà … dimenticare una guerra terribile.

 

La colonna punta su Giazza, il paesino che chiude la lunga Val d’Illasi, dove è parroco da un paio d’anni, don Domenico Mercante, nativo del paese. Come aveva fatto in altre occasioni quando v’era da mettere a rischio la propria persona per strappare alla fucilazione dei giovani, si fa incontro ai soldati per convincerli a evitare eventuali scontri armati con i patrioti che sono appostati sulle montagne circostanti.

Sarà questa l’ultima volta che i parrocchiani di Giazza vedranno il loro parroco.

 

I paracadutisti tedeschi, per garantirsi le spalle, lo prenderanno come ostaggio e, fucili puntati alla schiena, lo trascineranno con loro fino a Muravalle, vicino ad Ala, al bivio con Pilcante.  Don Domenico chiede un sorso d’acqua che gli viene negato. Poi solo il crepitio lancinante di una mitragliatrice seppellisce nel cratere di una bomba il prete e con lui un soldato della Werhmacht. Perché un soldato? Perché era cattolico e s’era rifiutato di uccidere un sacerdote. Era Leonhard Dallasega, nativo di Proves, in alta Valle di Non, il 15 ottobre 1913, sposato e padre di quattro figli. Mentre infuriava l’odio e la vendetta, due anime si univano per l’eternità in un atto d’amore e di ideale sublime.

 

                                             

Vintissète de April: in Paradiso / se spalanca le porte! Un vento novo / el im­pìssa le stéle a una a una /e mile campanili i se raduna... / Gh'è du angeli novi che riva, insieme: / uno, italian, la tònega da prete, / l'altro, todesco, con l'elmeto in testa... / In paradiso ancó l'è na gran festa!/ Con ale de cocal, tabar de luna, / i è rivadi col cor pien de alegria / volando piassè alti de i confini, / tegnendose par man, come butini...

 

Questo il sunto di un’altra notizia "giornalistica", mai pubblicata, ma apparsa sul quotidiano "La gazzetta del Pa­radiso" del 27 aprile 1945. Si usa questo linguaggio, asciutto, popolare, senza re­torica, lassù in Paradiso, anche quando si tratta di registrare la venuta di due nuovi angeli.

 

Venivano, quei due, tenendosi per mano, dal Trentino, e più propriamente da una buca di una bomba d'aereo, caduta mesi prima, proprio sul bivio della strada che porta a Ceré, in quel di San Martino, nei pressi di Ala. Venivano pro­prio di là, da quella buca, dove avevano fatto amicizia, all'ultimo momento, ma solo con gli occhi e con un lungo sospiro, un attimo prima di uno sparo. Là avevano intonato un canto: Osanna!

 

E pensare che di strada ne avevano fatta assieme! Un'intera giornata. Senza mai parlarsi; erano su due sponde opposte. Non potevano conoscersi. Forse non avevano avvertito che erano tutti e due credenti e che questo fatto li avrebbe uniti eternamente in un viaggio verso il serto del martirio. Quello vestito di nero, il prete, indubbiamente e apertamente, con la sua tonaca, legalizzava e manifestava la sua Fede; l'altro invece, in divisa militare, agli or­dini di un'egemonia tirannica e devastante, non azzardava confessare la sua. Quelli erano i tempi. Tempi per guardarsi da lontano. Non s'erano mai visti prima e tutti e due disperavano, uno più dell'altro. Uno soprattutto, il prete. Fino all'arrivo in quella buca al Bivio per Ceré.  

 

Una volta là dentro, all'improvviso si videro, s’intesero, si cercarono a vicenda, uno nella mano dell'altro e, insieme, si avviarono sulla strada verso l'eroismo. Il soldato in maniera forte come quell’altro in abito talare. Avevano bisogno tutti e due di Cielo, di prendersi per mano, di non perdere di vista il Cielo, perché il Cielo è lì, ma non è facile raggiungerlo da soli. Quello sparo indicò loro la scalata più veloce e marchiò a fuoco sulla pelle, indelebilmente, un salvacondotto per arrivare alla cima. Si die­dero mano, per arrivare insieme, per non perder tempo, per far la salita più spedita.

 

E arrivarono in un giorno di festa. In Cielo è sempre festa quando arriva qualcuno che ha scalato la via più spedita, cha ha dato il suo sangue per la Verità, quella con la lettera maiuscola. E ne arrivano tanti, ogni giorno, di quelli che te­stimoniano quaggiù la Verità con la vita. Loro l'avevano offerta tutta; il sangue l'avevano versato tutto, fino all'ultima goccia, là in quella buca. Lui, Leonhard, perché non aveva accettato di fucilare il suo "compagno" di fede, il prete; l'altro, il prete, don Domenico, perché doveva essere la vittima di un qualcosa, non si sa cosa, forse dell'odio, forse di una convenienza, di una garanzia.

 

Ed era stato portato via di violenza, un po' come fece Abramo col proprio figlio Isacco, là sul Monte Moria, ma con ben altri propositi. Là c'era da offrire una prova solenne di fede in Jahvè; qua, invece, il tornaconto di sacrificare qualcuno per salvar la pelle a un gruppo di fuggiaschi. Qualcuno doveva ben pagare il pedaggio per un ritorno incolume dei soldati alle proprie case. Chi meglio di altri? Il prete. E chi si è rifiutato di utilizzarlo a protezione di una fuga? Il soldato. Servirono perfettamente tutt’e due.

 

È questa la fine della storia di quei due inconsapevoli eroi, uno più eroe dell'altro, martiri uno più dell’altro. È questa la fine di don Mercante, che doveva arrivare in cielo per un’altra strada che non fosse quella comune che batte la maggior parte dei mortali. Non in punta di piedi, ma accompagnato da una scorta, come quando si muovono i grandi della terra. Non poteva don Domenico morire in un letto; non poteva prendersi una malattia e morire in pace. Partì in cerca della centesima pecorella. La trovò in quella buca del Bivio per Ceré.

 

E questa fu pure la fine della storia semplice, quasi oscura, senza grandi turbamenti, senza tante medaglie, del soldato Dallasega, rimasto per tanti anni ignoto; un soldato della Werhmacht, aggregatosi a un gruppo di paracadutisti, privi di scrupoli, per tornar anche lui nella sua Val di Non. Ebbe la fortuna di trovar sulla sua strada un don Mercante, un prete che lo guardò negli occhi e che, presolo per mano, lo scortò fino in cielo e fece festa con lui e con gli angeli. Senza di lui, forse, non sarebbe stata festa piena in Paradiso, neanche per don Mercante. Ora, là nel cratere del bivio per Ceré è rimasto sepolto solo il triste ricordo di quella raffica di fucili.

   

Passo Pertica

 

Al Passo Pertica è stato eretto un monumento in memoria dei due martiri che passarono per quella mulattiera per andar incontro al martirio. Nella cappellina di Giazza, accanto alla chiesa, don Domenico e Leonhard, uno vicino all’altro, raccontano ancora la storia dell’ultimo percorso verso la gloria.

  

 

                

C'era una volta