di Piero Piazzola
Una
giornata di scuola elementare degli anni Trenta
L’aula
e il banco
Al
mio paese, ho cominciato ad andare a scuola, a sei anni, nel 1930. Inutile dire
che anche quella piccola scuola — è un paesetto di montagna, il mio, a 1223 m
s.l.m. — aveva i suoi banchi per gli scolari, come tutte le scuole di questo
mondo; ma quelli là, del mio paese, erano alti, scomodi, senza alcun criterio
di praticità e di adeguatezza alle norme sull’igiene e sulla crescita del
bambino; sembrava che fossero andati a comperarli proprio ... nel terzo mondo.
Sotto i piedi una specie di solaio di stecche, staccate l’una dall’altra; un
graticcio, insomma, sconnesso e malandato. In fondo all’aula, e in controluce,
la cattedra per la maestra e una pesantissima lavagna.
Ho
detto “in controluce”, perché il paese d’inverno era (ed è) piuttosto
freddo e le finestre, ubicate a mezzodì, quando c’era il sole, davano se non
proprio un po’ di calore, almeno la sensazione di tiepido. La stufa in cotto
— non c’era di meglio allora sul mercato — emetteva nuvole di fumo da
tutte le fessure, perché il tiraggio era scarso. Mancava, infatti, un camino a
mezzodì e mancava anche quella sensazione di caldo che il sole ti lascia quando
batte sui vetri. E le maestre, ben incappottate, stavano da quella parte, vicino
alle finestre, a goderselo loro, prima che gli altri, quel po’ di calore che i
vetri riverberavano. In fondo all’aula, ovviamente, gli alunni i batèa
bròche, come si diceva; cioè avevano freddo. Anche perché i maestri non
ti lasciavano tanto margine per scaldarsi col gioco.
La
stufa era collocata a mezza stanza, a ridosso di una parete, quella più fredda,
sulla quale battevano i venti di tramontana, quelli invernali in particolar
modo; aveva un tubo lungo e stretto che andava fino alla parete opposta; gli
stradini che la istallarono presumevano che così potesse scaldare di più; al
contrario, essa perdeva troppo calore lungo il percorso a causa di un tiraggio
insufficiente.
Torniamo
al banco di scuola. Sulla parte più alta del banco, dove terminava il piano
inclinato (che non si alzava perché era fisso), un foro, largo circa due
centimetri, idoneo ad infilarvi il bicchierino, il vasetto per l’inchiostro;
ma di solito v’era solo il foro. I bicchierini, in vetro, con un bordo
superiore adattatato a tenere saldo il contenitore dell’inchiostro nel banco,
erano spariti quasi tutti. Qualcuno si rompeva (erano di vetro!!), qualche
altro, invece, si prestava a qualche scherzo (come quello di farvi dentro la pipì)
e a dispettucci tra scolari, come quello di riempirlo di carta assorbente. Un
brutto pasticcio quest’ultimo, della carta assorbente, perché quando vi
intingevi il pennino, esso s’intabarrava di peluria, come un eschimese, e non
ci potevi più scrivere. Delizia degli alunni!
Scuola
… e castighi
Gli
scolari, distinti in maschi e femmine, sistemati in banchi differenziati —
proprio come facevano in chiesa, dove le donne prendevano posto nella parte
inferire della navata, distaccate dagli omini, per non
dar occasione di … scandalo! — erano distribuiti in ordine di
statura, cosicché i più alti e, molto spesso, i meno svegli, finivano in fondo
all’aula nei banchi più alti. Ma accadeva anche che uno scolaretto piccolino,
ma meno sveglio, fosse mandato in fondo all’aula nei banchi più alti, tanto
che, quasi quasi, scompariva alla vista. E diventava lo zimbello di tutti,
insegnante compreso; — allora i maestri non ci mettevano tanto a metterti in
ridicolo, a farti fare la figura del pirla; e guai a chi reclamava —.
Alcuni alunni andavano a scuola fino a 14/15 anni per far le quattro elementari;
mica perché fossero scemi, ma più per un certo tornaconto della famiglia che
non aveva trovato lavoro per loro; a scuola, almeno, erano fuori dai piedi per
una mezza giornata.
Gli
scolari dei primi banchi, di solito, erano i più benvoluti dalla maestra o dal
maestro; le femmine dalla maestra, i maschi dal maestro. Un banco particolare
— chissà mai perché — era diventato el
banco dei àseni, là in fondo all’aula. Il castigo più brutto era quello
di finire in quel banco.
Di
castighi speciali poi ve n’era qualche altro, come quello di andar a finire
dietro la lavagna, di essere mandati fuori della porta. Quest’ultima
punizione, comunque, era un po' rischiosa per i maestri, perché qualcuno che
s’interessava poco di scuola, tagliava la corda e, per le maestre, diventavano
veri e propri grattacapi andare a riguadagnarlo. Il paese è grande, cioè vasto
come territorio, pieno di prati e boschi, e lc contrade sono lontane una
dall’altra; ci vuole un bel po’ di tempo a piedi per andar a ripescare un
fuggitivo. In macchina?… Ma non ce n’erano automobili allora.
Il
castigo più duro da sopportare era quello di metterti ginocchioni, con le mani
sotto i ginocchi, e talora con la sabbia sotto le mani. Mi pare di ricordarmi di
un solo caso, mio personale. Quelli degli altri furono molto più numerosi. Che
cosa vuoi farci! La scuola, allora, era fatta anche … di sabbia sotto i
ginocchi.
Alle
otto cominciava la lezione. Oddio; non si parlava di lezione vera e propria. Il
solito dettatino d’occasione, i soliti pensierini di stagione, la poesia per
le ricorrenze annuali, religiose e non, la lettura sui libri di testo — il
libro di lettura si comprava dall’alunno promosso l’anno prima e puoi
immaginare in che stato lo trovavi, dopo essere passato tra due, tre mani — ,
il problemino, la numerazione (che me la facevano mio nonno o il parroco, quando
andavo a casa, tant’è che un bel giorno la maestra mi scrisse sul quaderno: 4
a Pierino, 9 al parroco. Sacrosanta verità; non racconto frottole), le solite
tiritere per rievocare le ricorrenze storiche del regime, gli immancabili
complimenti a chi governava la povera Italietta e poi giù nel cortiletto
a far quattro salti, ma non troppo in libertà.
Giochi
in cortile
Erano
giochi guidati, pressappoco come quelli di una riunione ... premilitare per
bambini maschi di sette/otto anni, futuri balilla, poi degli avanguardisti, ecc.
ecc.. Ed è capitato anche che per la terza elementare i maestri, sotto
pressione dei gerarchetti locali, obbligassero i nostri familiari a farci
costruire un fucile in legno, un “moschetto” per essere più precisi, con
cui fare esercitazioni, ginnastica ... da guerra. Io, con un moschetto in legno
che m’aveva fatto mio zio, con tanto di canna nera e calcio marrone, col suo
otturatore … fisso, si capisce, facevo la figura di uno scolaro…
straordinario; tanti altri avevano un bastone colorato di nero, oppure
un’assicella a forma di fucile. Ma cosa vuoi mettere il mio? Mi invidiavano
tutti... A me, però, facevano solo rabbia. Tant’è che finirono per rendermi
in giro: “Pieréto, Pieréto, s-ciopéto perfeto”, parafrasando
quell’altra famosa frase del regime: “Libro e moschetto, fascista
perfetto”
Chi
non faceva ginnastica “militare” giocava alla sua maniera, alla maniera
della gente del mio paese: cioè alle brassè, (una specie di lotta
greco-romana … da montagna), oppure a far “campanò, a “saltamoléta
che vegno,…, a “far campanil”, cioè a chi resisteva di più a testa
in giù e gambe in aria, e a mille
altre forme di giochi popolari …proprio da montagna. Ricordo sempre con grande
simpatia e anche con un po’ di rabbia, perché non li apprezzavo, mi facevano
rabbia: Roco, Gusto, Mussa, Pèndola, Crestan e altri spilungoni,
che gareggiavano appunto a far el campanil e ci restavano là, immobili,
come statue di marmo, anche per delle mezze ore. Io non ero capace neppure di
… star in piedi se … Dio non mi aiutava.
A
grandi linee, le elementari passarono così, con gli alti e i bassi di tutti i
giorni e di tutti gli anni di quei tempi. Alti e bassi che qui, dato il poco
spazio, non è possibile annoverare.
Giochi
… in libertà
Terminata
la scuola tornavo a casa, la scuola distava circa 500 metri da casa mia. Mia
mamma mi faceva fare subito i compiti, anche perché c’era di stanza la
maestra a casa mia che poteva controllarmi, e poi via fuori sulla piazza a
giocare a nascondino (ciupascondi),
alla base (quattro angoli), a brucio
(la classica péta), all’uomo nero.
Ma
il divertimento più ambito era quello del sércolo.
Un cerchio di ferro, ricavato dall’orlo di un vecchio paiolo quando non
serviva proprio più per far la polenta, veniva fatto rotolare sulla strada
accompagnandolo con un ferro terminante a U e un manico per tenerlo in mano.
Vinceva chi faceva più strada senza ribaltarlo. A sera, infine, a letto
prestissimo e senza tante coccole.
Una
volta, a proposito del sércolo, con
un altro ragazzo della mia contrada siamo andati, così giocando con
quell’attrezzo, fino alla Cancellata, a un chilometro da Selva di Progno e
ritorno; otto e otto sedici chilometri di strada; tre ore di libertà non
autorizzata. Al ritorno non c’erano gli archi e la banda comunale ad
attenderci. Avevamo fatto una grosso sconfinamento e la festa finì piuttosto
male. Da quella volta dovetti rinunciare per sempre anche al piacere del sércolo;
mia mamma lo vendette al primo strassàro che passò dal mio paese. El
strassàro era quell’ambulante che andava in giro per i paesi a
raccogliere bagattelle, stracci, ossi, ferro vecchio, rame, unghie e pelo di
maiale; tutto ciò, insomma, che l’economia della famiglia non riteneva più
proficuo.
….quei
due!
Bisogna sapere che le scuole elementari del mio paese erano state comprate dal Comune e adattate a scuole in un villino che fu del noto pittore impressionista, Vittorio Avanzi, di Verona. Ma bisogna anche sapere che le maestre che rischiavano (sic!) l’avventura di venire ad insegnare al mio paese, a Campofontana, se si trovavano in due e se andavano d’accordo, nessuna migliore sistemazione che quella di accasarsi nel villino del povero pittore, anche se il fabbricato era un po’ fuori mano. Lì avevano a disposizione camere, cucina, scuola, soffitta, pozzo per l’acqua (piovana, s’intende), cantina e anche una piccola stalla per il maiale e per le galline.
Il villino del pittore Vittorio Avanzi.
Nella foto, il pittore è seduto sopra un sasso nei pressi del villino.
Campofontana: Nido sull’Alpe (ossia Campofontana)
(Olio su tavoletta di Vittorio Avanzi – 1910 circa). Collezione Piero Piazzola
Ma nel nostro caso, ci disinteressiamo
degli altri locali e andiamo a vedere la cantina. La cantina era spaziosa e ben
arieggiata, per cui vi si poteva accatastare la legna per le stufe e per la
cucina economica. E in cantina — sempre che le due maestre andassero
d’accordo, come dicevamo in apertura — si poteva conservare anche un po’
di vino. La cantina era sempre fresca perché scavata nella roccia. Botti non ve
n’erano, ma damigianette sì e quelle contenevano vino, di quello buono. Le
maestre si trattavano bene e il vino era una sostanza che
aiutava a veder le cose in maniera un po’ più … spensierata.
Frequentavano
la scuola anche due ragazzini, uno dei quali un mio parente, che, a prima vista,
potevano sembrare solo un po’ sbarazzini, ma in realtà la scuola non la
vedevano di buon occhio. Giocavano, scherzavano sempre e in ogni momento; per
questo la maestra, meglio le maestre, un bel giorno decisero di metterli in
castigo per vedere se si decidevano di cambiare comportamento e divenire più
seri. Giù in cantina, quindi, chiusi a chiave e le maestre via a mangiare.
Ma
come avranno fatto ad ubriacarsi? Il fatto me l’ha raccontata il mio parente,
uno dei due … sborniati.
Per
nulla avviliti di trovarsi chiusi a chiave in una cantina, fatto un rapido giro
d’ispezione al locale, hanno subito adocchiato la damigianetta, ma si sono
trovati in difficoltà per mescere il vino: mancava un qualsiasi recipiente per
raccoglierlo. Al mio parente venne in mente la baréta (il berretto): la
piegarono in modo tale che nella parte superiore si formasse una piccola
incavatura; e ci provarono. Trovato
che il sistema funzionava, un sorso a me un sorso a te, centellinata dopo
centellinata, finirono ubriachi fradici, tanto che le maestre, nel pomeriggio,
quando decisero di andar a controllare se i due avessero cambiato modo di
comportarsi, li trovarono ubriachi. Ma il guaio peggiore per quelle due poverine
venne dopo, quando si trattò di riportarli a casa e in quelle condizioni.
Meglio
non parlarne. Si saranno guardate bene dal mandare ancora alunni in castigo giù
in cantina. Questo è poco ma sicuro.