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IL  VESTIRE

 

Di Eddo Foroni

 

 

A quei tempi, dagli anni ’30 in poi, in campagna si era quasi autosufficienti per il sostentamento: dall’orto si ricavavano le verdure e la frutta, dal pollaio o dal maiale la carne, per non parlare delle uova e del latte; non era così per il vestiario per il quale, quasi sempre, si doveva vendere il pollame o altri prodotti. Una cosa curiosa:

 

La donna, delle nostre parti, di solito dopo i 30 anni, vestiva di nero e in lungo. Portava sottane larghissime, il corpetto, che non era per niente civettuolo, le fasciava sgraziatamente il seno. Si muniva di un grembiule di durissima stoffa, praticamente quella che in seguito ha avuto successo presso i giovani: il jeans.

 

Ebbene, mi trovavo a Genova nel ‘47 ad un Campionato Italiano di Atletica, mi capitò di vedere in una vetrina la stoffa di cui sopra e, siccome dopo la guerra ci si vestiva solo con il “piano Marschal”, per cui si poteva avere solo qualche “straccetto” ogni anno con i punti della tessera annonaria, pensai bene di acquistarne 3 metri di bleu e altrettanti di marron. Era una stoffa con una leggera righina  e non in tinta unita come ora.

Mia sorella che era sarta, mi confezionò due vestiti, dimodoché fui il primo a Verona e forse al mondo, a sfoggiare pantaloni e giacca bellissimi di un tessuto tanto povero e grossolano, che tutti (dato anche che ero un ragazzo non male) mi invidiavano, senza sapere che era roba da …scaricatori di porto… e che mi faceva far bella figura su e giù per la via Mazzini ed in Brà.

 

    Questo però per i cittadini che cercavano di essere presentabili lavorando in Uffici o posti di riguardo,  ma …

         

Per l’uomo di campagna era diverso: aveva un solo vestito completo, quello delle feste, col quale  andava a Messa e all’uscita dalla Chiesa a passeggiare sulla Piazza del Paese o a prendere un bicchiere  dall’Osto. Doveva essere tenuto daconto perché serviva anche per i matrimoni e tutte le altre cerimonie. Era rigorosamente scuro con il “gilet”, la camicia bianca, la cravatta nera che era sgualcita, quando non unta e bisunta, perché tramandata per generazioni. Le scarpe nere, quasi sempre a forma di “polacchi” vale a dire oltre la caviglia, si allacciavano oltre alle busete con ganci di metallo ed erano di cuoio, più volte risuolate o con i “bolli” per i fori a metà della suola …sicuramente screpolate sulla tomaia per il sudore estivo.

 

         Per il lavoro invece non vi erano problemi: d’estate si stava scalzi e quando c’era freddo con un paio di sgalmare o stivali vecchi con tanto di fango che tenevano il tutto consolidato.

Quando il vestito sembrava ormai da buttar via, serviva invece per i ragazzi, dal più grandicello fino al più piccolo che se lo passavano man mano che non andava loro più bene per la crescita dell’età. La madre lo modificava  tagliando la parte maggiormente logora ad esempio  dove c’era la pessa  (la toppa sul sedere che di solito era la parte più consunta per le careghe di paglia delle osterie dove si giocava alla briscola o alla morra).  

I ragazzi erano pure loro di prammatica scalzi d’estate e con le sgiavare d’inverno. Queste erano di legno con la tomaia di cuoio di vacchetta, spessa e dura che doveva essere trattata con grasso perché si ammorbidisse un po’. Ma allora non si aveva la delicatezza….di adesso…e i piedi nudi avevano già di loro una spessa suola dura come la pelle di un elefante…

          Le donne portavano d’obbligo lo scialle e la veleta quando andavano in Chiesa: gli uomini e ragazzi da un lato, ragazze e donne dall’altro..

La testa doveva essere coperta e non vedersi i capelli, tenuti da un cucugnel di treccia girata a tondo e fermata da spille di osso.

Solo molto tardi si cominciarono a tagliare i capelli e farli ondulati col fero da stoco che si doveva scaldare sulla fiamma e, prendendo ciocche di capelli, chiuderli come in morsa per farli ondulare. Qualche volta si bruciavano o cambiavano di colore …fumando.... Qualcuna faceva delle strisce di carta di giornale che annodava intorno alle ciocche di capelli bagnati e toglieva quando essi erano asciutti ottenendo dei ricci molto “compatti” come le attrici dei film di quei tempi.

      

La donna, nell’età giovanile vestiva con qualche vezzo. Doveva essere un po’ appariscente per invogliare i giovanotti alle Sagre del Paese dove si riusciva a trovare il “moroso” col quale discorar prima del matrimonio, e quindi qualche libertà era concessa: bustine o corpetti che lasciavano intravedere le forme che facevano …gola.. e, non è detto, che qualche spilla, orecchino o anello ci scappasse… Era tutta roba da banchetto, rigorosamente di vetro colorato ma che la fasèa colpo. Tanto colpo che quasi tutte le ragazze ci lasciavano le … penne con quelli venuti da fuori: i foresti, e dovevano in fretta e furia maritarsi perché altri divertimenti non c’erano se non un po’ de darse da far….tra ragazzoni coi capelli tirati a brillantina e sprovvedute servette o campagnarote con i capelli strinati dal  fero da stoco.

Il vestito da sposa non poteva che essere bianco, anche se la noissa era al 9° mese. L’importante era, dato che anche questo si passava da sorella a sorella o si imprestava, che fosse capiente di bacino … o avesse delle pens per le varie fasi della gravidanza che quasi sempre era tenuta il più possibile …nascosta… farisaicamente, poiché tutti in paese conoscevano la faccenda e malignando facevano finta … di niente.

 

Il vestito di cui sopra doveva anche servire per quando alla Sagra o in altra occasione c’era la Processione e le ragazze, tutte in bianco, portavano la Statua della Madonna. Quando il Parroco le  invitava a farsi avanti dopo gli uomini in gabbana bianco rossa, non diceva mai: “avanti le vergini” ma: “avanti come…sì ! “…sapeva bene come andavano le cose …tutto il mondo è paese…e, confessandole lui  !!!

 

A “Messa grande” in certe Parrocchie le Figlie di Maria prendevano posto intorno all’altare, questa usanza un po’ alla volta sparì per il motivo che si legge più sopra.

Sempre a “Messa grande” attorno alla balaustra dell’altare prendevano posto i Confratelli del Santissimo Sacramento. Erano i fedeli più devoti. Vestivano una lunga tunica rossa e sulle spalle avevano una mantellina bianca. In mano portavano un grosso cero e facevano la loro solenne entrata durante la funzione creando spavento nei bambini più piccoli.

       Le vecchiotte invece, non potendo invogliare più nessuno, mettevano in evidenza qualche collana di oro che era così vistosa da sembrare che pesasse quanto una catena da ancora, ma era vuota internamente e pesava pochi grammi. Era lunghissima fino oltre la cintura e non era mai coperta dal vestito o dallo scialle ma bene in …vetrina…

 

Questi gioielli non avevano età, erano ereditati da generazioni e lucidati col “Sidol” perché erano de oro mantoan, una lega di oro di scarso valore. L’importante era che “ che i fasesse colpo”……tra le comari.

 

           Quanti passi da gigante ha fatto la campagna,  “No l’è più la campagna de ‘na ’olta…” i dirìa se i vegnesse al mondo i nostri veci. !”  è un detto buono per tutti i tempi vero ?

 

 

I Giochi

 

 

      In campagna sia i bambini che le bambine  dovevano lasciare i giochi molto presto.

IL lavoro richiedeva braccia un po’ di tutte le età e quindi dopo i compiti, per chi andava a scuola, qualche volta solo fino alla terza elementare, essi dovevano occuparsi di mansioni che erano adeguate ai loro verdi anni. Tuttavia i ragazzini giocavano con el s’cianco, con le pice (biglie di terracotta colorata) a salta moleta se maschi,  le bambine con le pue  che erano parvenze di bambole fatte in casa con straccetti legati con lo spago per farvi la testa e le gambine e poi con una penna ad inchiostro due segni per gli occhi, il naso e la bocca.. (che fantasia la povertà ! )

 

Lo s’cianco era un gioco tanto semplice quanto entusiasmante. Gli attrezzi che si usavano erano: un bastone di circa 25 / 30 centimetri, ricavato da un vecchio manico di scopa, e un altro pezzetto di 10 / 12  centimetri che si doveva acuminare nei due lati come quando si tempera una matita, tutto qui!!!

 

Si giocava in due ragazzi o in due squadre da una base: la mare che era un grosso sasso e, siccome bastava dare un colpo col bastone ad una delle estremità dello s’cianco, perché questi prendesse il volo, si doveva essere bravi e sferrare contemporaneamente un altro violento colpo allo stesso per farlo andare lontano. Si dichiarava ad occhio la distanza da esso compiuta, se l’altro contendente riteneva che era stata eccessivamente azzardata, si controllava la distanza effettiva adoperando come strumento di misura il bastone da 25, 30 cm., e se era stata data per eccesso, il battitore perdeva il posto e lasciava il gioco all’altro. Ciò accadeva anche se chi batteva  sbagliava l’ultimo dei tre colpi consentiti a far alzare lo s’cianco.

La partita la vinceva chi raggiungeva un certo punteggio concordato. Logicamente occorreva un po’ di spazio per non ammaccare l’occhio…di qualcuno…spero di essere stato esauriente.

Questo gioco sembra essere ritornato di moda perché si tornano ad organizzare tornei con squadre e di Quartiere, e della nostra Provincia.

     I giochi con le pice erano essenzialmente due:buseta e, cerchieto.

Per giocare a buseta si scavava una buca sul terreno con il calcagno della scarpa, poi da una certa distanza i partecipanti cercavano di centrare la buca, rigorosamente facendo leva con l’indice sul pollice (uno scricio), i più evoluti adoperavano il medio. Chi ce la faceva prendeva tutte le pice sul campo.

Se al primo colpo ciò non riusciva, cominciava a tirare il concorrente più lontano, il primo che entrava in busa  prendeva tutto. .

Per giocare a cerchieto si tracciava un cerchio al cui interno ogni giocatore metteva un certo numero di pice deciso in precedenza. Esse venivano scelte tra le meno amate perchè  anche per le pice ognuno aveva le sue predilette.

 

Poi si cominciava a tirare nel cerchio da un punto stabilito: rigorosamente indice o medio-pollice. Il primo che  colpiva una picia buttandola fuori dal cerchio poteva continuare fino a quando non sbagliava.

La regina delle pice era la marmora una particolare pallina che, per un suo incantesimo interno, aveva il dono di colpirne un’altra occupandone il posto alla fine del tiro. Per questo motivo, siccome toccava al padrone della marmora  continuare a colpire, era come se una volpe si fosse intrufolata in un pollaio. I più poveri si servivano invece di sassolini rotondi di ruscello.

 

      Il gioco delle pice cominciò a morire quando ad esse furono sostituiti i tappi delle bottiglie di birra o aranciata che portavano sul retro la foto del campione di ciclismo preferito. Si estinse definitivamente quando le pice di terracotta furono sostituite prima da palline di vetro con all’interno strisce colorate e poi da palline di plastica con all’interno la foto dei campioni più amati del momento.

 

      Più sofisticato era il gioco con le sfere che otturavano le bottiglie in vetro delle “gazzose”, erano di un vetro smerigliato che sembrava trasudare, ma siccome le bottiglie erano recuperabili, si potevano avere solo quelle che andavano rotte. Poi con la “Coca Cola” le cose cambiarono perché la bevanda era in …lattine.

     

Si giocava anche a fare delle capanne con le alte erbe o arbusti, alla pega che sarebbe la peta dei cittadini: segni disegnati sul terreno o col gesso. Per quest’ultimo gioco c’erano alcune regole fisse, ma altre si concordavano al momento.

Si giocava anche, come in città, se si trovava un cerchione di bicicletta che si faceva rotolare con una manovella di filo di ferro.

 

Con un mucchietto di polvere si poteva anche fare il gioco di piantare sullo stesso un temperino gettandolo in molti modi come da un certo regolamento.

       Alla Sagra di San Luigi c’erano sempre i giochi nel cortile della Chiesa come la corsa dei sacchi, il gioco della mosca cieca, quello delle pignatte da rompere, l’albero della cuccagna che impegnava però i più grandicelli e la giostra a cadene dove si poteva girare in tondo attorno ad un palo, essa era chiamata anche con l’elegante nome di calcinculo ed è sopravvissuta fino a poco tempo fa.

 

Si poteva volare verso l’alto dando un vigoroso colpo di gambe o essendoci seduti dietro alla ragazza preferita, dopo averla raggiunta, spedirla verso l’alto con un vigoroso colpo di braccia.

      Qualche volta c’erano anche giochi che richiedevano un certo ingegno. Ricordo come fosse oggi che, essendo venuto dalla campagna in città a 3 o 4 anni, mi venne portata una automobiletta di legno sulla quale potevo montare e pedalando, andare.

I miei zii, di qualche anno più anziani di me però, non erano stati capaci di progettare il volante, e quando giravo il manubrio a destra essa svoltava a sinistra…Un gioco ingegnoso senz’altro che li avrà impegnati per quasi tutte le vacanze da scuola (il fratello più grande era falegname, ecco perché avevano il legno e gli attrezzi per l’allestimento…)

        Quando si aveva una certa età e si poteva andare in bicicletta, in campagna si andava all’Osteria a giocare con i pari età a carte o alla morra, che era il gioco di gran voga, mettendo, per prudenza, uno sulla porta, per vedere che non passasse un Carabiniere: la morra era un gioco d’azzardo proibito.

         La domenica pomeriggio si poteva giocare con la palla, che non era una partita calcio, ma una specie di tennis o di tamburello, però anziché con la racchetta si rimandava la palla, che veniva da una distanza da 50, 60 metri, con l’interno della mano a pugno. Era un gioco bellissimo ormai in disuso perché le mani per la forza dell’impatto diventavano gonfie. Figurarsi ora che anche i maschi vanno dalla…”manicur”..(si dice così ?)

         Si giocava anche a bocce: al punto o a “baccalà” che consisteva nel fare punti  scagliando una boccia in mezzo ad un cerchio dove vi erano due bocce che si dovevano, se capaci, colpire e gettare fuori del cerchio stesso, se si prendeva invece un bastone di ferro, davanti al cerchio, si faceva “baccalà” e si perdeva un punto.

 

        Più che un gioco invece era un divertimento, la sera, stando sdraiati su di un sacco davanti alla stalla, riuscire per primi ad intravvedere una stella e, dopo, in bicicletta andare alla molonara in mezzo ai campi sotto un capanno di frasche a mangiare una fetta di “anguria” o di molon, il melone, sentendo dal suono che emanava un cricio sul frutto se era buona o meno…..in lontananza le rane e i grilli nella notte afosa, stellata….e tante zanzare…. 

         Io invece  non abitavo in Via Condotti ne ai Parioli, ma a San Bernardino, vicino alle case popolari, eravamo in tantissimi ragazzi: i compagni della mia classe alle elementari erano ben 53, (contro i 15, 20 di adesso..) e giocavo con mille giochi, i più disparati.  State a sentire….

Erano giochi poveri, ma quanto eravamo felici di quelle conquiste! Ora i giovani sono annoiati, hanno tutto, e non hanno più il gusto che noi provavamo quando si ottenevano, dopo tanti sacrifici le cose che desideravamo. Ci capiamo?

         

Noi che abitavamo in città, eravamo più “emancipati”, o meglio, potevamo svagarci di più perché nelle ore che dedicavamo ai giochi in campagna, i nostri coetanei mungevano le vacche o facevano altri lavori pesanti. I giochi erano molteplici sia per  i maschi che per le femmine.

Il gioco maschile più sofisticato di tutti era quello con i caretini a cuscinetti. Bastava avere tre cuscinetti vecchi con le sfere anche mezze consunte, un’asse lunga circa un metro, larga 40 centimetri, un paio di bulloni, un manico di scopa e si costruiva un veicolo che in discesa prendeva una velocità da far …rabbrividire. Vi era un cuscinetto a sfere davanti, inserito nel manubrio che era un pezzo di scopa e sempre inseriti dietro, in un altro pezzo, due cuscinetti che mantenevano in equilibrio il caretin. Era uno spasso ma si poteva andare solo dove c’era una strada liscia o asfaltata perché in mezzo alla polvere od ai sassi esso si affossava.

Anche questo gioco è tornato da poco de moda: da qualche anno si fanno addirittura i campionati italiani in discesa e proprio nel veronese da Nesente a Novaglie.

 

           Avevamo anche comportamenti molto trasgressivi, dei veri teddy boys. Ve ne faccio alcuni esempi.

Si andavano a suonare i campanelli delle affittanze degli ultimi piani specie dalle vecchiette. Se dall’androne qualcuna si affacciava a chiedere chi fosse a suonare, noi in coro rispondevamo “Siora, la se lava i piè !” …e via di corsa… Mettevamo uno stuzzicadenti nei campanelli che poi suonavano in continuazione.

 

Qualche volta di sera, dopo la lezione di catechismo, con i sassi rompevamo le lampadine in strada a rischio di essere rincorsi dai vigili che ci …aspettavano al varco.

Si giocava anche con le sfiondre, fionde che con i sassi  uccidevano le povere lucertoline sui muri. (barbarie giovanili).

 

Se passava lentamente un camion o un carro per strada ci attaccavamo dietro costringendo il guidatore a fermarsi ed inseguirci riempiendoci di  parolacce.

Quando avevamo qualche “palanca” andavamo a comperare il “carburo” quello per le lampade ad acetilene o per i cannelli ossidrici e facendo un buco sul bussolòto interrato, con un fiammifero tenuto lontano lo facevamo esplodere e saltare ad una certa altezza.

Qualcuno ci ha rimesso qualche pezzo del corpo, in questo giochino!!!!!!

Altri arrotolavano fino a farla appuntire una striscia di carta di giornale la  infilavano in una canna cava e soffiavano, la pirola, forte per colpire il copin, la nuca, della gente, qualche volta anche il maestro quando era di spalle, rivolto alla lavagna….

Altre imprese dei più discoli erano quelle di mettere nelle tasche delle bambine i rospi trovati nell’erba o le lucertole vive. Il divertimento era quello di vedere le loro espressioni nel sentirsi muovere in tasca le bestioline inserite furtivamente.

I più tranquilli invece giocavano col moscolo, la trottola per intenderci, che era di legno ed aveva la brocheta alla base, si faceva girare vorticosamente con un colpo di scuria o stròpa con uno spago al culmine.

 

      Non mancavano anche le lotte tra le “case vece” e le “case nove” a suon di sassaiole.

Spesso si impersonavano i personaggi mitici di Salgari: Sandokan, le tigri di Mompracen, il Corsaro nero, le storie del West. Quanta fantasia, quante invenzioni!!!

 

Era solo uno svago per far passare il tempo e non c’era nessuna cattiveria. Era una contesa tra compagni di classe o di scuola, tutti amici con i quali si andava a giocare anche al Patronato dai preti, o al Cinema Esperia detto Miola  perché tra un tempo e l’altro del film si mangiavano le miòline: i semi abbrustoliti e salati delle zucche… Altro che hamburger!!!!

 

Il divertimento più grande era quello di battere il pavimento di legno con i piedi e fischiare, con gran fracasso, quando arrivavano sul più bello “i nostri” nelle guerre con gli indiani…o si vedeva qualche bacio sfuggito alla censura dei preti.

 

D’estate il Cinema era chiuso per la calura e ci si divertiva (obbligatoriamente dopo le Funzioni) ad andare in campagna a vedere …”i morosi” che se scrioltolava su l’erba.

Diventati più grandi, per cui si poteva usare la bici del pare, si correva all’Adige per il bagno nelle canalete o sul Lago di Garda a Ronchi di Peschiera, con un panino in tasca e, da bere, l’acqua dalle fontanelle che si trovavano strada facendo.

        

Quando il tempo di scuola lo permetteva, dopo le ore di lezione, e prima di andare a casa per i compiti, ci fermavamo sui prati dei bastioni e, mettendo al posto delle porte da calcio le nostre mantelle, giocavamo ore e ore fintantoché non sopravveniva il buio. Essendo il campo ristretto nello spazio, noi in tanti, e due squadre a giocare, contavamo a decine i “gol” magari 55 a 40, ed eravamo accaniti, tanto da non arrenderci  a perdere la partita. Solo quando proprio non ci vedevamo più, rimandavamo la contesa al pomeriggio successivo.

Prima di rincasare, sudatissimi, cercavamo di rimetterci un po’ in ordine, specie nelle scarpe che erano infangate e mal ridotte, e allora col fazzoletto ed un po’ de spuacio  cioè saliva, rimediavamo il tutto scansando quindi qualche ceffone da parte dei genitori, che erano oltretutto in pensiero per il…ritardo…

           Dala Ana, che era la fruttivendola del quartiere compravamo le cioccolate Zani, non per la cioccolata, ma per le figurine che ogni confezione conteneva: in esse erano effigiati i grandi dello sport, Bartali, Coppi, Magni, Nuvolari, Meazza e Piola: i nostri idoli. Con esse ci giocavamo in mille modi e ne avevamo delle centinaia.

 

Ora sono ricercate dai collezionisti, la più rara era quella del “feroce Saladino” valeva un sacco di soldi !! Le bambine  erano per natura molto più tranquilla.

 

Giocavano alle mame  ai dotori.

Le più “sportive” giocavano alla peta, alle pice, alla corda, (gioco che si svolgeva con diverse modalità e in cui bisognava mostrare riflessi piuttosto pronti), a nascondino, a corarse drio, al giro tondo, a ruba bandiera, ai quattro cantoni, ai pegni.

Un gioco fantasioso e singolo era “ Il tesoro”. Si trovava un punto di terreno nascosto, si scavava una piccola buca, vi si riponevano piccole cose: fiori, perline e altro, in modo “artistico”, ci si metteva sopra un pezzo di vetro rotto e si ricopriva il tutto con  terra. Per giorni si andava “scoprire” il proprio tesoro beandosi del piacere di vedere attraverso al vetro quello che c’era sotto! Era  una  specie di riproduzione statica del caleidoscopio, oggetto amatissimo da entrambi i sessi..

Per chi poteva “spendere” c’erano anche dei grandi fogli di cartone dove era riprodotta una bambola da ritagliare ed i vestiti che si potevano farle indossare.Si potevano acquistare altri cartoni con la stessa bambola ma vestiti diversi. Insomma la Barbi è stata inventata in Italia!!! Arrivate alla pubertà le ragazzine facevano solo comarego.

L’argomento era “certe cose” cioè quanto avvertivano di “misterioso” e la curiosità le spingeva a voler conoscere senza avere coraggio di chiedere ai “grandi”. Si parlavano sottovoce negli orecchi con il pudore di allora.

Le notizie, essendo riferite da altre coetanee, erano delle più fantasiose: ad esempio le più informate sostenevano che i bambini nascessero uscendo …dall’ombelico. Come si facesse a mettere in cantiere i sopraddetti bambini era top secret o quasi, anche lì l’immaginazione si sfrenava, ma niente paura: “Lui” lo avrebbe insegnato al momento opportuno.

Con questo bagaglio di conoscenze, la ragazza di città affrontava tranquilla il suo futuro.

      Si era ormai al tempo non più dei giochi ma dei primi “filarini” d’amore, le prime occhiate al ragazzo piacente, le prime illusioni, anche le prime delusioni, che però lasciavano il tempo che trovavano… insomma la vita che da millenni nei sentimenti sembra essere immutabile….

      Invece in appena un paio di generazioni la società è cambiata completamente sarà opera del progresso, delle conquiste tecniche di vario tipo, del benessere etc….. in bene o in male ? Ma !

 

Certo che ‘na ‘ olta  non vi erano le stragi del sabato, della domenica e del lunedì mattina, per aver  bevuto un qualcosa in più, fatta una canna o uno spinello, ingerito l’extasi …

Si viveva semplicemente, si moriva normalmente, intendo in modo naturale.

 

C'era una volta