Santi del mio paese
(anni
del 1930)
La
…..ssìa Angela
di Piero Piazzola
Prima
di entrare nell’argomento vorrei proporre una riflessione. Sono
dell’opinione - e non mi disturba di dirlo - che, per capire le fisionomie,
i tratti somatici, lo spirito, la genuinità, la freschezza umana dei “Santi
del mio paese”, cioè del personaggio (o dei personaggi, se, dopo questa
prima esperienza, ci sarà modo e tempo per parlare anche di altri) che tenterò
di illustrare, la prima conditio sine qua non per capirli, per entrare nelle loro
anime, è quella di aver provato ad essere stati poveri.
Per
dire “poveri” e dimostrare il significato profondo del termine “poveri”,
bisogna essere stati realmente poveri. In caso contrario non ha alcun senso la
parola. Non ha senso: vuol dire che la parola “povero” è troppo poco.
Quando dico “povero”, mi riferisco a certe famiglie che ho visto, con i miei
stessi occhi, mangiare, dormire, cucinare, fare i propri bisogni corporali,
pregare e soffrire, ammalarsi e morire, nello spazio di 15 metri quadrati (m
3,50 per 3,50 circa); vale a dire in un locale a piano terra - anzi, no!; sotto
il livello del terreno circostante, perché da fuori quando pioveva l’acqua
entrava dentro -, senza il camino per i fumi, senza il soffitto per appendervi
qualche oggetto, con un foro al posto di una finestra….
Vuol
dire: comprendere cosa significa alzarsi il mattino, accendere un fuoco accanto
al letto per prepararsi la colazione, (latte e polenta, magari presi a prestito
a quartarói e mai restituiti) prepararsi la colazione magari bruciando, pezzo
dopo pezzo, i mobili (se di mobili si può parlare)… Vuol dire: aprire la
porta - ma non proprio una porta - una tendina, esposta ai capricci del vento di
montagna, quello estivo e, soprattutto, quello invernale che è di tutt’altra
violenza…. Vuol dire essere “sfrattati” senza riguardi…. Vuol dire…
Io
non sono stato un “povero” come i figli di quella famiglia, cui ho fatto
cenno e della quale gò tegnù a la cresima un figliolo. No! Ringraziando Dio,
non ero povero, povero come loro. In ogni caso sempre un povero, uno dei poveri
del mio paese. E ve n’erano tanti, come v’erano anche quelle cinque sei
famiglie che ricche non erano, ma neppure povere, povere.
Riuscivano
sempre a far quadrare i conti meglio delle altre, perché avevano quattro
vacche. Ma quando le vacche vennero a costare un occhio fuori della testa perché
il fieno era aumentato a dismisura -quegli anni del Ventinove, Trenta -, anche
il latte non fu più un “bene” e allora anche quelle famiglie - qualcuna
tuttavia si salvò dal patatràc, perché si mise la testa tra le mani per tempo
e cominciò a ragionare - fecero ruzzoloni da non venirne più fuori.
Le
famiglie, invece, che non riuscirono a tirar le somme in positivo - oggi si
direbbe a far “quadrare i conti” - erano la maggioranza. Erano quelle che
per vivere andavano a bottega col libretto e il bottegaio, poveretto anche lui,
annotava, scriveva e… sperava. Erano quelle che, giorno dopo giorno, dovevano
far i conti con le galline.
Sì,
con le galline, con le loro uova. Perché le uova delle galline erano “moneta
di scambio”, soldi, in altre parole. Con le uova delle galline, le donne di
casa, la suocera in modo speciale, - la suocera nei nostri paesi di montagna, in
una famiglia patriarcale, come lo erano le nostre famiglie di quasi un secolo
fa, “manovrava", vale a dire amministrava il portafoglio, anche quello del
marito in molti casi; insomma era lei la vera “Capofamiglia” e badava a
saldare le piccole spese, proprio con le uova delle galline -; le piccole spese
erano il tabacco e le sigarette per il marito, la farina e la polenta, il sale,
l’olio per il lume, il petrolio (quando entrarono in uso le lucerne), le
minuterie dell’abbigliamento, le chincaglierie, le bigiotterie ecc..
La
...ssìa Angela
Bisogna
scriverlo proprio così l’appellativo, perché al mio paese la “z”e le
“s” dolci nel dialetto non ci sono, mentre quelle sonore sono proprio sonore
e si adoperano anche là dove non necessiterebbero.
Era
conosciuta con questa espressione dai parenti, dai paesani, dai marcanti
da le Teze, - che è tutto dire -, dai trafficanti di cose e di minuterie
delle più svariate specie e qualità, dai forestieri, dagli escursionisti, dai
cacciatori, senza dire poi dalle donne del paese e di paesi vicini, dalle
comari, dai preti (per i quali nutriva una sacra fissazione, una devozione
viscerale, quasi un culto); mi fermo qui, perché finirei per non dire
effettivamente quello che meritava di essere detto di lei. Era insomma una santa
donna. Lo dicevano tutti. Perché santa?
Un
po’ di storia non farà male.
Il
marito aveva “fatto” la guerra di Libia nel 1911, richiamato nel 1914, era
stato fatto prigioniero dai tedeschi nel 1917 e spedito prigioniero in Boemia
dove aveva sofferto tutti gli stenti possibili e da cui era tornato malato. Lei rimase vedova quando suo figlio aveva appena 14 mesi perché il marito le
era morto appena un anno dopo il matrimonio, affetto da epatite causata, come
stabilì … salomonicamente il governo di allora, dal vino, quando tutti
testimoniarono che di vino non ne beveva. Ma una ragione per non assegnare la
pensione a una povera vedova ci voleva. E la …ssìa
Angela ingoiò anche questa disgraziata decisione.
Il
suocero, maestro elementare, andato in pensione proprio quell’anno, era
titolare di una licenza di osteria e non trovò di meglio che cedergliela alla
nuora. La quale, rimboccatesi le maniche, suo malgrado, per campare la vita e
allevare il figlioletto, si mise a far l’ostessa.
Un
mestiere per niente facile in un ambiente di montagna dove i montanari, una
volta la settimana, il dì di festa, un bicchiere di vino (quando si trattava
solo di un bicchiere), dopo la messa domenicale se lo permettevano. E costoro
erano i più bravi, ma forse sarà meglio dire i più poveri. Quelli che, appena
usciti di chiesa, si compravano …un cartoccio di castagne (diése schei) e
per digerirle un buon bicchiere di vino - quando era buono - era l’unico mezzo
e il più efficace e forse anche legittimo ... perché tra l’altro rimediava
l’attesa di una settimana trascorsa ad acqua fresca.
La
...ssìa Angela rimediò subito alla
disgrazia d’essere rimasta sola, senza l’ombra e l’appoggio del marito
alle spalle, con il guadagnarsi la fiducia e la simpatia della gente; di tutta
la gente: degli ubriaconi, come dei bestemmiatori, della gente tranquilla che
giocava la sua partita a carte, come dei meschini che avevano tutti i motivi per
attaccar briga, per baruffare, per rompere bicchieri, vetri, sedie...
L’
Angela non aveva paura di niente, di
nessuno. Il suo mestiere era quello e lo faceva con grande rispetto per gli
altri ma anche con grande energia, con grande riguardo a non offendere nessuno
ma nel contempo senza farsi sopraffare da nessuno. Come faceva? Rimane un
mistero. Sapeva sedare baruffe anche molto violente con un linguaggio sereno e
affabile e con una delicatezza di atteggiamenti e di condotta che anche a me,
che ero piuttosto furioso quando mi facevano saltar la mosca al naso, ha
insegnato a ragionare e a trattare con molto rispetto e riguardo gli altri.
Ci
sarebbero centinaia e centinaia di piccoli episodi da descrivere o, quantomeno,
da citare, per offrire la misura della bontà e dell’altruismo di questa
donna. Vediamone qualcuno.
Negli
anni Trenta e seguenti, quando la situazione economico-finanziaria dell’Italia
(e del mondo intero) segnò quei brutti sconvolgimenti politici e finanziari che
coinvolsero anche i piccoli e già malridotti risparmi dei montanari, la …
ssia Angela aveva messo
da parte qualche soldino per via dell’osteria. Molti ricorsero a lei per
piccoli prestiti che poi restituirono - quando li restituirono -, ma sempre ...
approssimativi e non proprio del tutto rigorosi; però anni e anni dopo, quando
le cose erano già cambiate di molto e con poco si rimediava al debito
contratto.
La
…ssia Angela non si lamentò
mai neppure con coloro che non restituirono più il prestito; non chiese mai un
soldo d’interessi; non volle mai terra in cambio del prestito da quelle
famiglie che non erano riuscite a saldare il loro impegno. Poteva diventare una
delle maggiori proprietarie di terreni del suo paese. Rimase sempre quella che
era stata: la pòra …ssia Angela,
dicevano.
Una
donna che la carità, quella che si fa con delle mani che coinvolgono anche il
cuore quando si muovono, lo chiamano a collaborare, non la carità che si
predica; la carità lei la faceva a ogni piè sospinto. Talvolta non si può
neppure parlare di carità, perché le sue mani arrivavano anche dentro nel
profondo del cuore di chi aveva bisogno dell’aiuto materiale, nel senso che
accompagnava il gesto della carità, del dare, con le parole, con quella sua
voce discreta e suadente, che diventava raccomandazioni, iniezioni di fiducia,
indicazioni a migliorarsi, richiami a cambiar vita anche.
Una
donna che amava gli uomini come glielo avevano insegnato i Vangeli, Dio, la sua
fede, la sua missione, come le aveva indicato San Paolo in quella splendida
lezione di “amore” che inviò ai Corinti (13,1-8): « …se non ho la
carità, io sono un bronzo che suona o un cembalo che squilla…. se non ho la
carità io sono un niente… la carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera,
tutto sopporta …».
La
...ssìa Angela amava veramente tutti gli uomini e amava anche gli
animali, perché per lei un animale era una creatura di Dio e le creature di Dio
dovevano essere privilegiate, dovevano essere trattate come tali, come opera
delle sue mani: in altre parole, sfamarle, tenerle pulite, ricoverarle,
accarezzarle… Sì anche accarezzarle. Non parliamo di un gatto o di un cane
che potrebbero anche catturare una certa simpatia più degli altri animali, ma del
maiale, della capra, delle galline e via dicendo.
La
gatta che teneva in casa - per far un esempio - era una gatta ladra, veramente
ladra; approfittava di tutto e di ogni momento di distrazione della sua padrona
per portarle via salame, formaggio, bistecche, polli interi, come quella volta
che gliene rubò uno, sgranfignandolo dalla pentola in ebollizione. Ma si
era affezionata all’Angela e la seguiva da per tutto: quando andava a Selva di Progno
a prendere la corriera, quando si recava a Durlo o in un altro posto a far
rifornimento di verdure, di frutti, di altri generi alimentari.
La
seguiva, proprio come un cane, a una distanza di circa una diecina di metri,
fuori della strada che batteva lei; ogni tanto riappariva ai lati a
testimoniarle che c’era, che la seguiva, e si faceva sentire con un suo
miagolio tutto particolare come quando un gatto chiede di prestargli attenzione.
Talvolta dubitò che si trattasse per caso di qualche diavolo che l’aspettasse
o di qualche anima di parenti che invocassero aiuto dall’aldilà.
Ma
il parroco, al quale una volta chiese consiglio per scrupolo di coscienza, gli
rispose: Ringrazia il Signore,
invece, che ti fa conoscere di esserti vicino mandandoti sempre qualcuno o
qualcosa a scortarti. Così succedeva con il cane. La seguiva e le portava la
borsa, orgoglioso di esserle utile, proprio come un … “cristiano”.
Il
maiale? Anche al maiale voleva quel “bene” che si vuole ad un animale quando
si alleva da piccolo e poi ti dispiace sacrificarlo per sfamare la gente. Ogni
anno comprava un maialetto e lo allevava con quelle cure che, per modo di dire e
fatte le debite riserve, si prestano ad un bambino, ad un ragazzino. Gli portava
da mangiare - e non ti dico come glielo preparava e che cosa faceva per
farglielo gustare; sì proprio gustare - e attendeva che il porchetto se lo
mangiasse con comodo; intanto lo accarezzava sulla schiena come a conciliargli
lo spuntino e poi lo “invitava” dolcemente a rientrare nel porcile, con
parole che lei sola conosceva e che la bestiola poi memorizzava alla sua
maniera.
La
capra? S’era comprata una capra da latte. Il latte era veramente necessario,
quello di capra in modo particolare, perché si riteneva che un bambino avesse
bisogno anzitutto del latte materno, ma poi dovesse essere sfamato e cresciuto
con latte di capra. Macché latte di mucca! E in casa sua c’erano parecchi
bambini: i nipoti. La capra aveva guadagnato un posto di primo piano in casa
sua. Altro che un cane! E si era affezionata a lei nella stessa misura che un
cane si affeziona al padrone e ne coglieva tutti i movimenti, anche quelli del
viso, i toni della voce, i richiami. Ma quella non era una capra. Era un diavolo
a quattro zampe; un connubio di cane e di animale intelligente.
Dov’era l’Angela, lì c’era la capra. La accompagnava sino in chiesa, sull’ultimo gradino della scalinata e lì la attendeva, se c’erano le porte chiuse. Sennò, tentava anche di entrare. Anche durante la processione? Sì, anche durante la processione.
Per esempio, quella del Corpus Domini, ricorrenza che una volta si
celebrava con tutta solennità. Come quella volta, appunto, che, dopo aver
chiuse per bene le porte dell’osteria (come era d’obbligo in certe
manifestazioni religiose particolarmente importanti come questa processione
appunto) anche l’Angela se n’era
andata al Vespero dimenticando però di chiudere nel serraglio la capra. Sul più
bello che la processione passa davanti alla porta del
stalòto (portico), ecco farsi strada la capra che si mette a seguire l’Angela,
lì di fianco, come un cagnolino. La povera donna, che ci teneva tanto alla
processione, fu obbligata a prendersi la bestia per la
canàola (1)
e riportarla entro il suo steccato.
Ma
con tutta naturalezza e senza imprecare. Seguitò imperterrita, invece, a
recitar preghiere, quelle stesse che i fedeli in processione stavano recitando a
voce abbastanza alta, tanto da essere recepite anche a una certa distanza, fino
a quando non riuscì più a coglierne le parole. Ma per conto suo continuò
nonostante tutto con altre preghiere. Perché la ... ssia
Angela pregava tanto.
Pregava
per tutti, indistintamente per tutti. Poveri o ricchi, canaglie o brava gente,
creditori o debitori. Per tutti. Tenne per non so quanti anni un registro dove
annotava i debiti (piccoli debiti) degli avventori che non pagavano il bicchiere
di vino, la trippa, il piatto di ossi bolliti. Quando essa morì, il registro
era ancora là con tutti i nomi dei clienti inadempienti. Mai si lamentò di
loro. Piuttosto preferiva recitare una preghiera per loro.
Pregava
prima di andare a letto di sera e prima di alzarsi la mattina. Teneva sempre un
rosario in mano e, con quello in mano, si addormentava, e talvolta quella corona
addirittura andava a finire in fondo al letto. Perché prima o poi doveva pur
dormire. Pregava e talvolta russava. La bocca però pregava. Pregava anche
quando si metteva ad asciugare i piatti, i bicchieri, i cucchiai ecc... E
pregando si addormentava con un piatto o con un bicchiere o con un pugno di
cucchiai in mano. Povera donna!
Non
puoi sapere quanto mi siano costate queste sue note biografiche, e quanto avrei
preferito che le scrivesse un’altra persona, perché probabilmente quella
avrebbe disegnato meglio i contorni e dipinto meglio la figura di quest’anima
da paradiso. Io non ho potuto - o meglio, non ho saputo - fare di più. Ho
tracciato solo una sinopia della figura e dell’anima della … ssia
Angela. Ma dentro quei segni, un’altra persona avrebbe potuto stendere
dei colori, delle tonalità, delle sfumature più consoni, più adeguate a tanta
creatura. Voglio dire un narratore consumato che non fosse proprio … suo
figlio.
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(1) Il termine canàola indica quell’arconcello di legno che i pastori e i vaccari fabbricano con le loro mani e che pongono attorno al collo di capre, pecore e vacche per tenerle attaccate alla mangiatoia. Alla canàola è attaccata una corda o una catena che a sua volta si aggancia alla mangiatoia (la grépia o grùpia). La canàola ha la forma di una U ed è ricavata da un giovane pollone di pianta facile da curvare con l’acqua bollente o con il fuoco. L’archetto è tenuto chiuso da una chiave, detto ciavaròto, che blocca l’arconcello in modo che l’animale non possa liberarsi.