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Orchi, Fade e Anguane...
Avvertenza di A.Solati.
Storie
di un’altra vallata.
A
prima vista queste storie della Valle di Illasi sembrerebbero non riguardarci. Se però andiamo a leggere il fascicolo Festa del Campagnol del 1994 opera dello stesso Maestro Piero Piazzola ci accorgeremo che moltissime famiglie sanmartinesi sono proprio originarie di quella vallata o in generale della Lessinia, tanti cognomi sono addirittura toponimi di piccole contrade.
Probabilmente
molti giovani, o meno giovani, ricorderanno di averle sentite dalla nonna o
dalla mamma a cui le aveva raccontate la nonna. Anche questo è un modo per non
dimenticare le nostre radici.
Per
chi non se li fosse procurati a suo tempo, i vari fascicoli della Festa del
Campagnol sono consultabili nella Biblioteca “Don Milani”.
Notizie
sui cognomi sanmartinesi, ad opera della stesso Autore, si trovano anche in
numeri passati del giornale Parrocchiale “Qui San Martino”.
Orchi, fade e anguane nell’immaginario popolare della Lessinia
di
Piero Piazzola
Premessa
Il
territorio oggetto della nostra esplorazione.
Per
cominciar a capire come mai in alcune zone della Lessinia sussistano ancora
leggende e “storie” che riferiscono d’esseri immaginari, creati in pratica
dalla fantasia popolare, come gli orchi, le fade, le anguane e via dicendo,
bisogna prendere conoscenza con il territorio specifico in cui queste leggende
si sono sviluppate e tramandate, da generazione a generazione, nei racconti dei
“filò”. Cominciamo, allora, a tracciare un rettangolo ideale sulla carta geografica tra l’alta Lessinia e l’alta Vallata del Chiampo (vedi cartina allegata).
In
alto, a sinistra, un angolo cade pressappoco nel punto in cui si legge “Casara
Broletto”, una baita presso i Tracchi. A destra della figura, un altro angolo
si fissa in località Lovati di Valdagno. L’angolo sud, a mattina, si può
fissare nei pressi di Contrada Bacchi di Vestenanova. Quello a sud, ma a sera,
invece, si troverebbe vicino alla contrada Zambelli di Cerro Veronese.
Dentro
questo rettangolo si notano i paesi che hanno saputo conservare e divulgare le
“storie” che andremo ad accennare. Essi sono: nella Valle del Chiampo,
Crespadoro e più a nord, Calpodalbero e Durlo.
A
mezzogiorno, nella fascia più bassa, si collocano quelli di Bolca, Sprea e
Badia Calavena; nella banda più alta, quelli di Campofontana e di San Bortolo
delle Montagne. Nella valle del Progno–Illasi, i paesi di Sant’Andrea, Selva
di Progno e Giazza.
Andando
poi verso sera e salendo lungo il lato ovest del rettangolo, si registrano i
nomi di San Mauro di Saline, Roveré Veronese, Velo Veronese e Camposilvano
Le
creature della fantasia popolare
In
alta Val d’Illasi, nel Veronese, sul fondovalle più settentrionale, si
adagiano tre località di particolare interesse per il tema dell’immaginario
popolare: Badia Calavena, l’antica ‘‘Abato’’ dei Tredici Comuni Cimbri
Veronesi; Sant’Andrea, frazione del precedente capoluogo, anticamente detta
‘‘Sprea cum Progno’’; Selva di Progno, la cimbrica ‘‘Prunge’’;
Giazza o ‘‘Ljetzan’’, simpaticissimo paesino dove ancora nei conversari
si usa il taucias garèida, antica parlata della bassa Germania.
Sulla
dorsale che s’innalza tra questa vallata e quella vicentina ad oriente, vale a
dire l’alta Val del Chiampo, si attestano alcuni altri centri abitati, quali
Bolca, famosa in tutto il mondo per i suoi meravigliosi pesci fossili che
risalgono a circa 40 milioni di anni fa; San Bortolo delle Montagne, nel passato
meglio conosciuto come San Bortolamio Teutonico o Tedesco, per l’insediamento
dei coloni tedeschi durato fino ai primi dell’Ottocento; Sprea, frazione di
Badia Calavena, nel secolo scorso conosciuta per il suo parroco, don Luigi
Zocca, ‘‘botanico e guaritore’’, che l’ha retta fino agli anni
Cinquanta; e infine, Campofontana, il più alto paese della Lessinia e della
provincia di Verona.
Tornando
ancora a valle, ma verso mattina, segnatamente in Val del Chiampo, si incontrano
un paio di nuclei abitati, cui fanno capo un certo numero di contrade, e cioè
Durlo, pure essa antica comunità cimbra che conserva numerosi toponimi e
cognomi di matrice altotedesca; Campodalbero, all’estremità settentrionale
della vallata, press’a poco sul medesimo parallelo di Giazza; entrambi in
comune di Crespadoro. Fatta conoscenza con questi luoghi proviamo a incontrarci
con le figure degli esseri immaginari che si sono caratterizzati maggiormente
nella memoria della gente.
Tra
gli anni Cinquanta e la fine del Sessanta del secolo passato, col metodo delle
registrazioni su nastro magnetico dalla viva voce degli adulti, oppure
servendomi della collaborazione di alcuni insegnanti di scuola elementare, erano
nativi del posto e che abitavano ‘‘in loco’’, interessati, quindi, pure
essi, a ricercare, riscrivere e dar nuovo valore all’etnia, ho potuto
raccogliere circa 150 leggende o, meglio, ‘‘storie’’, come si usava
chiamarle in termini popolari; racconti, tutti brevissimi, sintetici, al limite
della favola esopea, che riguardano essenzialmente tre (o quattro al massimo)
tipologie differenti di esseri fantastici che ‘‘abitavano’’
prevalentemente la zona citata: le ‘‘Genti Beate’’ o ‘‘Sealagan
Laute’’ di Giazza; le ‘‘Fade’’ di Sprea, Badia Calavena, Bolca e San
Bortolo delle Montagne; le ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bele butèle’’ di
Campofontana; le ‘‘Guandàne’’ di Durlo e di Campodalbero e, infine,
l’‘‘Orco’’ e il “Basilisco”. Più a sera, i dintorni di
Camposilvano, Velo Veronese e del Vajo dello Squaranto, erano abitati invece
dalla “Fade”, ma di natura e di costituzione fisica molto dissimili dalle
“Fade” di Sprea, Badia Calavena, Bolca. Di queste creature delle zone di
Camposilvano e dintorni, Attilio Benetti ha scritto un volumetto molto prezioso.
Le
“Fade” di Sprea
«
Le Fade delle nostre parti erano creature umane, a volte buone, a volte cattive
e dispettose, e si potevano trasformare anche in animali di varie specie. Prima
del Concilio di Trento vivevano in libertà e si mescolavano alla popolazione
del paese. Certe volte si celebravano anche matrimoni tra Fade e uomini del
posto, che però non sapevano che le loro mogli fossero anche streghe, ma tali
matrimoni finivano sempre male.
Quando
le Fade facevano del bene, salvavano persone da animali imbizzarriti e
insegnavano alla gente a lavorare il latte e i suoi derivati come il formaggio,
il burro, la ricotta e la scòta (siero). Quando erano arrabbiate,
invece, diventavano cattive e dispettose. Tagliavano le trecce alle donne,
ingarbugliavano le matasse e i gomitoli di lana, si divertivano a disfare calze
e maglie che le donne avevano preparato la sera nelle stalle a ‘‘filò’’,
tagliavano a pezzetti i vestiti, la biancheria e altri capi di vestiario riposti
negli armadi, sporcavano il bucato nei mastelli, mescolavano la farina col riso
e la pasta, rubavano animali da cortile (ma non i maiali, animali immondi),
cucchiai forchette, coltelli, rompevano i piatti, facevano i nodi nelle lenzuola
oppure le stracciavano, mettevano nei materassi chiodi, legni, sassi, aghi da
cucire; incantavano e facevano parlare le bestie, i buoi, le mucche.
Mangiavano
carni di uomo e, di notte, nei cimiteri, facevano balli e banchetti. Di giorno,
invece, vestivano bene, con gonne lunghe di seta, grembiuli neri con ricami e
pizzi, in testa portavano belle cuffie e fazzoletti di pizzo, ciabatte di
velluto ai piedi e grandi mantelli scuri sulle spalle. Questi mantelli servivano
loro, di notte, quando lasciavano le loro case per andar a partecipare alle
riunioni nelle caverne. Durante le riunioni ballavano al suono di gigli e
gelsomini.
(Silvana
Perlati di Badia Calavena – 1971)
Le
“Fade” di Bolca
Le
Fade erano donne misteriose che vivevano nelle caverne e mangiavano carne umana.
Avevano il volto da donna, portavano lunghi abiti, erano piccole, robuste e
brutte. I loro piedi avevano gli zoccoli come i cavalli o le vacche; così non
si riusciva mai a sapere dove andavano a nascondersi di notte e le mani erano
come quelle delle scimmie, tutte coperte di pelo.
Di
giorno vivevano nelle caverne oppure si nascondevano sotto le pietre degli orti.
Se qualcuno alzava una pietra trovava un rospo o un serpente.
Al
sabato si trasformavano sempre in rospi o serpenti. La sera, dopo l’Ave Maria,
tutti dovevano restare chiusi in casa o in stalla, perché quelle uscivano dalle
caverne in cerca di cibo. Quando passavano davanti alle stalle delle contrade,
dove la gente andava a far ‘‘filò’’, gridavano: — Gh’è bràghe sui
scani? (cioè: ci sono uomini?). Se non v’erano uomini entravano e portavano
via le donne e i bambini e poi li mangiavano nelle loro caverne.
Qualche
volta, però, se un uomo andava in giro di notte, era ugualmente preso dalle
Fade e trascinato nelle caverne. Era ucciso e una sua coscia era poi attaccata
alla porta della sua casa. Le Fade, dopo il Concilio di Trento, furono castigate a vivere dentro le caverne e anche adesso là dentro ci sono ancora i loro spiriti. La gente racconta che quando furono maledette dal Concilio, si disperarono e si attaccarono alle sporgenze interne delle caverne lasciandovi sopra le impronte delle mani e delle dita, che ancora adesso si possono vedere. Una di tali grotte in cui esse vivevano si chiama “Grotta dei Damati” nei pressi di Badia Calavena.
(Gli
alunni di Sprea — 1970)
Una
“Fada mamma” di Bolca
Una
donna di Bolca sposò un uomo di Badia Calavena. Dal loro matrimonio sono nate
due figlie e tutta la famiglia passò alcuni anni felici e contenti. Un giorno
la moglie disse al marito: — Non toccarmi mai le mani mentre mescolo la
polenta —. E Il marito non le toccò più le mani. Ma le voleva tanto bene che
un giorno, per scherzo, gliele toccò le mani mentre stava mescolando la
polenta.
La
moglie subito si trasformò in un uccellino e volò via. Passarono due, tre mesi
e un giorno quell’uomo tornò a casa dai campi, verso sera, e restò
meravigliato quando entrò in casa, perché vide che la sua casa era tutta in
ordine, pulita e lavata, e le figlie gli assicurarono che era venuta la mamma e
aveva fatto tutte le faccende di casa. Allora chiese alle figlie da che parte
era andata via la madre.
Le
figlie gli risposero che era andata nell’orto dentro il rosaio (roseto).
L’uomo andò nell’orto, scavò per terra vicino al rosaio e trovò una
bestiolina. Ma non sapendo che bestia fosse la schiacciò sotto il tacco delle
scarpe. Da quel giorno la donna, che era una fada, non si fece più vedere e la
casa tornò nel disordine e nella miseria.
Le
“Fade” dei Massalonghi
Sotto
la contrada Massalonghi (di SS. Trinità) c’è una caverna in mezzo al bosco.
Una volta in quella caverna si riunivano le fade per mangiare carne umana e,
davanti alla caverna, c’era un pozzo di pura acqua fresca. Di giorno le fade
uscivano dalle caverne per tirar su acqua dal pozzo. Di notte, invece, uscivano
per andare in giro nelle case e nelle stalle.
Prima
di entrare in una casa o in una stalla chiedevano — Gh’è braghe sui
scani? (Ci sono uomini seduti sulle panche?). Se le donne, dal di dentro,
rispondevano — Braghe non ghe n’è (Non ci sono uomini), le fade
entravano e facevano dispetti e rubavano bambini e donne.
Un
uomo della contrada non credeva a queste storie e non credeva che ci fossero le
fade. Una sera rispose lui con la solita frase — Limpe, lampe, pòrteme
anca a mi la me parte. La sera seguente trovò sulla porta di casa sua una
gamba di bambino attaccata ad un chiodo. Spaventato aspettò che si fosse di
nuovo buio e come la sera prima, alla stessa ora, rispose — Limpe, lampe, pòrtete
via la to parte. La mattina seguente sulla porta non c’era più la gamba
del bambino.
Se
ci spostiamo poi a Bolca, verso mattina, comunità cimbra più vicina
all’antico comune vicentino di Durlo, cimbro pure esso, dove le ‘‘Fade’’,
quando ve ne sono, sembrano essere state importate dai paesi vicini e sono
considerate più sulla falsariga di ‘‘Strie’’ o ‘‘Stroliche’’,
v’è una narrativa che converge tutta verso le più miti e semplici ‘‘Guandàne’’
e i racconti di quel paese le fanno risultare molto umane, molto donne, molto
madri, molto creature di questo mondo. Si legga la leggenda della Fada di Bolca
che ogni tanto torna a casa a rivedere di nascosto le sue bambine, a mettere in
ordine e a far pulizia.
Le
‘‘Anguane’’ o ‘Bèle butèle’’ di Campofontana Erano molto belle e somigliavano esteriormente in tutto alle altre donne del paese, vestivano, però, sempre di nero. Lavoravano di notte e tendevano delle grosse funi di canapa dal loro covolo fino alle purghe di Bolca, di Durlo e di Velo Veronese; sopra quelle funi distendevano il bucato ad asciugare e alla mattina le donne andavano al Pozzo dei Seràldi a portarsi a casa il bucato bell’e pronto. Di giorno non si facevano mai vedere, si nascondevano nel loro cóvolo o in altre caverne della montagna, perché quando suonava l’Ave Maria della mattina, non potevano più andare in giro a fare il loro lavoro. Cominciavano, invece, a lavorare, di sera, dopo il suono dell’Ave Maria. Le nostre donne raccontano che esse potevano mettere al mondo anche dei bambini che si portavano in giro di notte assieme. Dicono anche che una volta c’erano molte fontane nel paese e davano tanta acqua; le Anguane mantenevano costantemente aperte queste vene. Dopo il Concilio di Trento si nascosero nei Covoli di Velo e, da allora, tutte le fontane si sono inaridite. (Lina Roncari di Campofontana — 1965).
Le
‘‘Guandàne’’ di Durlo e di Campodalbero
Nella
tana delle ‘‘Guandàne’’ abitava una bella ragazza che aveva lunghi
capelli biondi: si chiamava Ittele. Di notte se ne andava in giro per i monti su
di un cavallo bianco. La sua tana si trovava giù nel vajo che va a Campodalbero.
Un
giorno un uomo ritornava a cavallo dal paese di Valdagno e quando fu nel vajo
sentì una voce di donna che chiamava a voce alta: — Uomo con la cavalla
nera! Dite a Ittele che Uttele sta male. L’uomo non sapeva chi fosse
Uttele, ma conosceva bene la ragazza che per ringraziarlo gli diede una ciocca
dei suoi capelli biondi. Uttele era un’altra guandàna amica di Ittele.
Molto
tempo dopo, lo stesso uomo passò un’altra volta per la medesima strada e di
nuovo sentì la stessa voce che disse: — Uomo dalla cavalla nera! Dite a
Ittele che Uttele è morta. L’uomo allora andò da Ittele a raccontare
quella notizia misteriosa. Ittele ci restò male per la notizia.
Da
quel giorno la giovane donna non fu più vista in quel posto. Però la gente
dice che la vedevano tutti i venerdì che si pettinava.
Le
‘‘Genti Beate’’ o ‘‘Sealagan Laute’’ di Giazza
Abitavano
nella valle alta di Fraselle, sotto la Roccia dei Capretti (Kitzarstuan),
dove si trova una spelonca chiamata delle “Genti beate” appunto. Esse davano
la caccia a uccelli, caprioli, vipere, e altri animali e con le loro carni si
cibavano.
Qualche
volta però scendevano anche in paese, in processione, soprattutto durante la
Notte dei Morti, tenendo in mano un tizzone acceso che, poi altro non era che un
braccio di un morto che bruciava.
Rapivano
anche donne, uomini e bambini li uccidevano e li mangiavano crudi. Portavano
vestiti che davanti splendevano come il sole, ma dietro erano fatti di scorze
d’abete. Una volta, alcuni giovani tentarono di rubare loro questi abiti, ma
caddero a terra, morti fulminati.
Le
Genti Beate facevano il bucato per la gente del paese e tiravano una lunga fune
dal Monte Grola al Monte di Campostrin e alla Roatebant (Sengio rosso);
sopra questa fune stendevano la biancheria ad asciugare al sole.
Esse
andavano avanti e indietro su questa fune, perché c’erano tanti uccelli che
andavano a posarsi sulla biancheria e la sporcavano. Per spaventarli gridavano a
squarciagola: ‘‘Sciua, ra, ra...’’, cioè: Volate via, via, via.
(Raccolte
dagli alunni del m.o Giulio Boschi, a Giazza, nel 1968).
Alcune
considerazioni
Mi
preme fare alcune considerazioni sulle creature immaginarie e porre in evidenza
il fatto che in un così piccolo territorio, le identità, i ruoli, l’habitat,
le stesse vocazioni lavorative delle streghe nominate, i loro comportamenti
esteriori, cambiano di valore e d’ìmportanza tra una valle e l’altra, tra
una dorsale e l’altra; si differenziano a tal punto che danno vita a
sostanziali difformità tipologiche, quasi come se quelle creature fossero un
riflesso delle identità morali delle singole popolazioni che le hanno volute,
immaginate e create, in certo qual modo, così.
Vediamo,
per esempio, il diverso modo di essere Fada nella favolistica che compare
tra Badia Calavena e Sprea, due località a neanche un chilometro di distanza
tra loro in linea d’aria; di essere Anguana a Campofontana e Sealagan
laute a Giazza, località a un chilometro circa di distanza.
Probabilmente a Badia, località di fondovalle, più a contatto con la
civiltà moderna che procedeva in lento ma costante cammino anche verso la
montagna, le fade non paiono così sanguinarie come quelle di Sprea,
paesino in dorsale, per secoli tagliato fuori dal cosiddetto ‘‘consorzio
umano’, o di certe località ai margini del comprensorio comunale, oppure
lontano dalle vie di comunicazione più importanti. Si legga la storia delle fade
dei Massalonghi, una contrada di SS. Trinità (Badia Calavena).
Le
fade di Sprea anche se le leggende le descrivono riccamente vestite, ma
mostruose, ributtanti, se si considera che hanno piedi terminanti a zoccolo di
cavallo o di caprone o di vacca, portano le mani sempre coperte di mezzi guanti,
perché sono pelose all’eccesso, corpo compreso.
Ma
sono anche quelle che banchettano spesso e volentieri con il loro signore,
Belzebù, il diavolo, negli antri e nelle caverne e riportano alle case cosce e
resti delle loro vittime. Esse non hanno accolto con una certa ‘‘rassegnazione’’
il verdetto del Concilio di Trento; si sono ritirate sì nelle caverne, ma hanno
lasciato in esse il segno della loro disperazione e, a quanto pare, ancora vi
dimorano, ostinatamente trasgressive, recidive alla condanna della Chiesa.
Le
Anguane, invece, sono sparite dalla circolazione, con naturalezza,
portando con sé il segreto della ricchezza delle acque, del modo di far
scaturire nuove vene acquifere nel territorio. Le Genti Beate, pure esse,
sembrano essere entrate nell’al di là della loro esistenza, ma senza creare
traumi infausti e senza accusarne esse stesse.
A
Campofontana una leggenda sulle ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bele butèle’’
andava sulla bocca di tutti negli anni Trenta/Quaranta. L’ho sentita
raccontare io stesso quand’ero bambino e, poi fatto adulto, l’ho potuta
raccogliere anche da altre bocche e sempre con qualche variante diversa
e ne ho tratto una leggenda.
L’ “ORCO” NEI RACCONTI DELLA FANTASIA POPOLARE IN LESSINIA
COME
ERA E CHI ERA L’ORCO?
L’Orco,
da quello che abbiamo potuto appurare attraverso i racconti che circolavano
durante le sere dei “filò” nelle stalle o che abbiamo raccolte dalla viva
voce di ragazzini e di adulti, a Campofontana e in altri paesi vicini,
l’Orco, secondo la nostra mentalità di umani, era un personaggio di
sesso opposto a quello delle Fade, delle Anguane, delle Genti Beate. Ma era
tuttavia un essere difficilmente classificabile in campo sessuale e fisiologico,
date le sue continue e inimmaginabili trasformazioni.
Ho
ritenuto, quindi, di completare questo quadro di “scienza magica”, tra
virgolette, con alcune indicazioni
circa la sua fisionomia, se per fisionomia significa dare un volto ad un essere
del genere, con tutte le sue inclinazioni comportamentali, considerate nella
moltitudine confusa delle apparizioni che la gente ha registrato sul suo conto.
Ma chi è l’Orco? Com'è fatto? Dove
lo trovi? Le leggende che riguardano l’Orco non riescono a stabilire con esattezza com'era fatto oppure se avesse, al di là dei suoi molteplici e strani camuffamenti occasionali, un suo volto ben specifico. Ora si presenta sotto forma di bastone, poi, più in là di qualche chilometro, oppure a distanza di qualche ora, di notte o di giorno non importa, diventa cavallo, scrofa, pecora, lupo, anitra e via dicendo. Una volta si cela dietro il volto e il corpo di una bellissima fanciulla, un’altra volta in un brutto e rattrappito vecchio. Ora è bambino, ora uomo adulto, ora antenato barbuto; ora gigante, ora nanerottolo; ora persona distinta e garbata, ora invece un essere grossolano e volgare.
L'orco si trasforma in una scrofa con in suoi maialini
disegno di A.Norsa
Quando
lo ritiene opportuno diventa fiamma, incendio, fumo, fuoco, grandine, fulmine,
vento, uragano. Oggi si fa sentire con un prolungato lamento, domani con un
canto, e dopodomani come una voce che viene dall’aldilà o ancora come il volo
silenzioso di un folletto o quello violento di un rapace.
L’Orco
non privilegia un’abitazione fissa, in
una località ben determinata; cioè non ha una sua “casa”, se si può
chiamare casa il luogo, l’antro, la roccia dove abitare come, al contrario,
avveniva per le Fade ecc., che avevano quasi tutte una loro sede fissa, per
compiere le loro tregende o per ricoverarsi di notte o per il ritiro settimanale
d’obbligo.
L’Orco
non ha caverne, anfratti, grotte, covoli, voragini. Lo s'incontra da per tutto e
sempre occasionalmente. Se credi di ritrovarlo nello stesso posto il giorno dopo
che è apparso in una data località, ti sbagli di grosso. Appare or qua or là
senza un preciso riferimento geografico e ambientale. Lo s’incontra qua e là,
dove meno l’aspettiamo; sul monte, come in valle, in un prato o in un bosco,
in una radura, accanto alle caverne, come presso le case, persino nelle
vicinanze dei cimiteri; preferisce spesso gli argini delle strade meno
frequentate, i ponti sopra i torrenti, i margini delle pozze di abbeveraggio del
bestiame, i macigni isolati, i cespugli più folti, i bordi di un campo
coltivato, i sentieri più accidentati e occultati dalla vegetazione.
Non
lo incontri mai però sui crocevia (simboli della religione), mai nelle
vicinanze di capitelli religiosi, mai nei pressi di chiese, chiesette e oratori,
croci o altri segni della fede. E la creatura più ambigua e strana che si possa
immaginare. Sparisce al primo accenno di un segno di croce, si volatilizza
addirittura alle prime parole di una preghiera, di un’invocazione, di una
giaculatoria.
Appare
ai viventi quando meglio ritiene, dove meglio gli pare, in situazioni disperate
— e allora diventa anche “altruista”, cosa piuttosto strana per un Orco
—, come pure in occasioni della più stupida circostanza.
Non
è sempre benevolo; spesso è burlone, capriccioso; qualche volta, come ho detto
prima, diventa servizievole, spesso coraggioso, collaboratore, solidale. Ciò
nonostante, il rovescio della medaglia lo dipinge anche come un essere
dispettoso, spregevole, villano.
Nessun
altro “personaggio” fantastico uscito dai racconti che ho potuto raccogliere
conosce, meglio di lui, le debolezze delle sue vittime; nessuno spirito tra
quelli della nostra cultura, meglio di lui, è più rapido ad abbandonare il
campo delle sue bravate e delle sue apparizioni quando c’entra in qualche modo
un seppur piccolo indizio di religiosità. Queste, in forma sintetica e generalizzata le caratteristiche dell’Orco che ho tratto dalle varie descrizioni di fatti e di ‘‘storie’’ raccolte in quegli anni di cui ho fatto cenno in apertura.
E, a conferma delle mie ricerche e a quanto scrissi sopra, ecco qui alcune di
quelle “storie” che andavano per la maggiore nei racconti delle nostre nonne
e nelle serate dei “filò”, nelle stalle o nelle case davanti al fuoco che
scoppiettava felice perché gli avevano … regalato un sòco da bruciare.. L'ORCO...UOMO
Nano
o gigante che fosse, l’Orco era una essere fortissimo che si batteva per far
ridiventar savie le persone prepotenti. Sembra quasi che avesse un compito
educativo e si dedicasse ad atti di solidarietà. Sono queste prerogative
dell’Orco che ho riscontrate a Sprea, a Campofontana, e a Selva di Progno.
Ecco un esempio raccolto da Lina Roncari di Campofontana, nel 1966. « Quando sento parlare della località Nasselóche (in cimbro significa “buso del Nàsse - luogo bagnato, ndr) mi ricordo una storia che mi raccontava mia nonna. Un uomo della contrada Pelosi di Campofontana e della famiglia detta dei “Stiléti”, era cattivo e faceva del male alla gente; aveva la fidanzata in una contrada di Campo di Fuori. Una sera, tornando a casa, dopo essere stato a “filò” dalla “morósa”, sul dosso della Nasselóche incontrò un uomo, un giovane molto forte e robusto, che cominciò ad offenderlo. Botta e risposta, si azzuffarono e, a rotoloni, andarono a finire giù nel fondo della Nasselóche. Lo Stilétti, ormai sfinito, esclamò: — Dio mio, come sono ridotto! Allora quel giovane robusto e forte mollò la stretta e sparì all’improvviso. E la gente assicura che quello era l’Orco che voleva dare una lezione al giovanotto cattivo »..
L'orco diventa un uomo altissimo e poi si trasforma in una enorme vampata di fuoco
disegno di A.Norsa
L'ORCO...CAVALLO
A
Sprea e a Campofontana si raccontavano storie dell’Orco che si trasformava in
cavallo o in altre cose. Una di queste leggende, raccolta da Claudio Bottacini
di Sopra, racconta:
«
Un uomo andava verso la sua stalla per governare il bestiame.. La stalla era
molto lontana dall’abitazione. Fuori nevicava. Terminato il suo lavorio, si
mise in strada per fare ritorno a casa, ma ad un tratto fu investito da una
forte raffica di vento e neve che lo colpì al viso tanto da fargli perdere, per
un attimo, la vista; ma nell’infuriare della bufera, vide venirgli incontro un
bel cavallo nero. L’uomo, che teneva sempre con sé un coltello per tutte le
necessità, lo tirò fuori e gli andò incontro, pronto difendersi. Ma, quando
fece per alzare il coltello, il cavallo si drizzò sulle zampe posteriori e
scomparve. Appena la bufera si calmò un attimo, poté vedere che il cavallo
galoppava velocemente su nel cielo diretto verso mattina. Poi gli dissero che
quello era l’Orco ».
Gina
Dal Dosso di Selva di Progno, negli anni Sessanta, mi raccontò un’altra
leggenda in cui l’Orco si trasformò in cavallo.
«
Un giovanotto di Campofontana, tornando a casa dal mercato settimanale che si
teneva il mercoledì a Badia Calavena, nelle vicinanze di Selva di Progno, dove
cominciavano i scùrsoli per tornare al
paese, vide in un fraticello lì vicino un bel cavallo che stava pascolando. Il
giovanotto, pensando che per arrivare in modo migliore e più in fretta al suo
paese, non ci fosse niente di meglio che saltar a cavallo del .. cavallo. Gli
saltò in groppa e, tra sé e sé, pensò: — Ho trovato chi mi porta a casa
senza far tanta fatica. E tutto andò liscio fino a quando arrivarono in cima
alla montagna. Il cavallo, allora, diede un forte strattone alla briglia tanto
da buttare il cavaliere a terra. Si trasformò subito in una gran fiammata di
fuoco che si dileguò in un attimo dietro un altro monte. Quando raccontò la
storia a casa sua gli assicurarono che quello era stato l’Orco ».
Un
terzo raccontò simile me l’ha riferito Griso Costantino di Campofontana negli
anni Sessanta.
«
In contrada Grisi di Campofontana vivevano marito e moglie. Il marito esercitava
il mestiere del carrettiere; quindi possedeva un cavallo e un carretto. La
moglie, che si chiamava Marianna, invece, era una brava donna di casa. Dopo
parecchi anni di questa vita a due, capitò che una sera, mentre il marito era
lontano con cavallo e carretto per gli affari suoi, Marianna sentì scalpitare
furiosamente un cavallo giù nel cortiletto, davanti alla sua casa. Dal rumore
che provocavano i suoi zoccoli sul lastricato di pietra, Marianna capì che
doveva trattarsi di un cavallo molto grosso, non certamente quello del marito
che ormai conosceva in tutti i suoi tratti. Dopo un po’, stanca di star a
sentire quello scalpitio, si girò dall’altra parte per tentar di dormire, non
senza aver fatto prima un bel segno di Croce e di aver recitata la sua solita
litania di preghiere. A quel punto, quella bestia, con i ferri degli zoccoli
fece un fracasso tale che ne tremò tutta la casa. Poi tutto tornò tranquillo.
Quando raccontò l’avventura, il marito le affermò che si era trattato
dell’Orco ». L'ORCO...FUOCO
Abbiamo
già letto la leggenda del ragazzo che vide il cavallo dileguarsi nel cielo in
una vampata di fuoco. Con il termine “fuoco” intendo tutti i possibili e
risaputi aspetti, piccoli o grandi, di fiamme, di fuoco, di vampate, eccetera.
In questa serie di racconti includerei anche le trasformazioni dell’“Orco”
in luci, vento, nuvole. Facciamo allora qualche esempio per confermare la
teoria. Certo che non riuscirò evidentemente ad accontentare la gente di San
Martino Buon Albergo con “storie” che si riferiscono alla montagna lessinica
che abbiamo dietro le spalle. Ma, se il “sito internet” serve anche per far
conoscere culture diverse da quelle locali, credo che a qualcuno sicuramente
piacerà leggere queste memorie se non altro per divertirsi e per far paragoni
con altre “civiltà” padane o non padane.
Una sera un uomo di Sprea stava tornando a casa dai lavori nei campi. S’era
fatta notte fonda ed egli allora accese la lanterna. Dopo un po’ di strada si
accorse che la fiammella era diventata un omino rosso, rosso fuoco; dopo un
altro po’ di tempo, l’omino ridiventò fiammella. Si stropicciò gli occhi
allora per assicurarsi di non aver le traveggole.
Dopo un altro pezzo di strada vide accanto a sé un’ombra con i corni lunghi;
ma quella sparì quasi subito. Fece un altro tratta di strada verso casa e,
stranamente, rivide l’ombra di un mostro, una specie di cavallo con la testa
di un uomo. Spaventato si diede a correre fino a quando arrivò davanti ad un
capitello della Madonna. Quell’ombra, allora, improvvisamente sparì in una
spaventosa fiammata di fuoco e di fumo. Gli assicurarono che era stato l’Orco».
(Raccontatami
da Ernesto Anselmi di Sprea, anni Sessanta)
A
Durlo ho raccolto un’altra storia di questo tipo che dice:
« Un contadino, dovendo recarsi sui
monti dove portava tutti i giorni il bestiame a pascolare, una bella mattina si
accorse che davanti a lui, sul medesimo sentiero, stava camminando un’altra
persona, la quale, man mano che procedeva per la strada, con un grosso bastone
percuoteva rabbiosamente le piante più vicine all’argine e, ad ogni colpo,
esse emettevano un lungo lamento. Il contadino, allora, lo rimproverò per
quello che faceva alle piante. Ma lo sconosciuto scomparve nel cielo
trasformandosi in una piccola nuvola nera che assomigliava a una strana bestia
con la coda lunga e biforcuta, forse un basilisco. Ma il contadino che
non sapeva che cosa fosse un basilisco, quando arrivò a casa raccontò quello
che gli era capitato e gli dissero che era stato l’Orco ».
L'ORCO...BASTONE
In
tutte le aree da me considerate ho
potuto costatare che l’Orco il più
delle volte si serve di un normalissimo bastone per far le sue bricconate.
Bricconate che, in fondo in fondo, non sono nient’altro che bambinate stupide,
innocenti, senza criterio. L’Orco, infatti, in questa zona della Lessinia che
ho studiato io non si presenta mai come un essere malvagio.
Ecco
un’altra “storia” che mi ha raccontata mia mamma, Angela Guidese, sempre
negli anni Sessanta. « Un uomo della contrada Roncari di Campofontana una volta dovette recarsi alla malga Scorteghére sui Monti Lessini Centrali. Dopo essere passato per Giazza ed aver affrontata la dura salita delle “Gósse”, si inoltrò attraverso i pascoli dei Pàrpari. diretto alla malga. Essendo ancora molto il cammino da fare, a un certo punto raccolse da terra, per appoggiarsi, un bastone, un ramo secco che si era staccato da una pianta. Ma più andava avanti e più quel bastone pesava, Stanco di portarsi dietro un peso che continuava ad aumentare, giunto nei pressi di una pozza, di quelle dove vanno ad abbeverarsi le mucche, ve lo buttò dentro accompagnando il gesto con una parolaccia. E subito, dal centro della pozza, vide alzarsi dritto in verticale il suo bastone che, sghignazzando, gli disse: — Hai visto? Te l’ho fatta! Mi hai portato fin qui. Era l’Orco, naturalmente ».
Un bastone, gettato in mezzo ad una pozza, diventa subito un "Orco"
disegno di A. Norsa
« Una volta l’Orco a Selva di Progno si fece
trovare lungo l’argine del sentiero da un montanaro che stava tornando a casa
dal lavoro in un fagotto di tela bianca che conteneva altra biancheria. Il
montanaro lo raccolse con un certo piacere e se lo portò fino vicino a casa,
tribolando non poco, perché quel fardello continuava ad aumentare di peso e la
strada era diventata piuttosto scoscesa e maldestra. Quando quel poveraccio
decise di fermarsi un attimo a tirare il fiato, deposto l’involto lì vicino a
sé, ebbe un forte sobbalzo, perché dal fardello uscì una gran vampata di
fuoco che polverizzò tutto il contenuto e senza lasciar traccia di ceneri e di
fumo. A casa, quando raccontò il fatto, gli risposero chiaro e tondo che era
stato l’Orco ».
(Raccontata
da Claudio Baldo di Sprea).
Infine,
sul tema dell’Orco che si trasforna in fuoco, ecco un’ennesima versione di
Gina dal Dosso di Selva di Progno (anni Sessanta).
« Un giorno un ragazzo di un paese vicino al
suo, passando per una strada che andava verso casa, vide appoggiato a un muro un
bel bastone di frassino, ben lavorato e lustro. Lo prese in mano e, cammina
cammina, si accorse che man mano che proseguiva sulla sua strada, il bastone si
faceva sempre più pesante. Portò pazienza ancora per un po’, fino a quando
cioè non fu più capace di portarlo. Allora lo gettò via, giù per un burrone,
esclamando: — Ma va’ al diavolo! Il
bastone, che altro non era che l’Orco, si trasformò in una grandissima
fiammata e dirigendosi rapidamente verso il cielo gli disse:
— Lifufù, lifufù, te l’ho fatta!. Lo spirito, trasformato in
bastone, era stato astuto a farsi portare fino a quel punto ».
L'ORCO...ANATRA
Nelle
pagine precedenti abbiamo sentito raccontare “storie” dell’Orco che si
trasforma in fuoco, in cavallo, in bastone, in bagaglio di roba ecc. Elencherò,
adesso, alcune altre “storie” in cui l’Orco si trasforma in qualche
animale da cortile, di quelli che tutti conoscono, oppure in un gigante, oppure
ancora in una signorina, e via dicendo.
Domenico Tornieri di Campofontana, che già
conosciamo, mi raccontava negli anni Sessanta: «Da giovane avevo sentito raccontare che alla Nasselóche di notte si vedeva una stranissima e grossa anatra che correva dietro ai giovanotti … prepotenti, quando andavano a trovare la fidanzata nelle contrade di Campo di Fuori. I giovanotti buoni, invece, li lasciava passare senza far loro paura. Un giovanotto più bricconcello degli altri fu avvertito di stare attento, perché da quelle parti c’era e circolava l’Orco. Ciò nonostante lui si mise a ridere e a sfottere. Allorché una bella notte egli dovette passare da quel posto, gli comparve improvvisamente davanti un’anatra enorme che si mise ostinatamente a seguirlo. Il giovanotto tentò più volte di cacciarla via, ma quella si trasformava dapprima in un uomo piccolissimo, ma robustissimo, poi in un vero gigante che terrorizzava. Il giovane, a quella vista, fuggì gridando: — Non sarà mai detto che io passi ancora per quel posto! ».
L'Orco si trasforma in un gigante che fa scappare a casa il contadino
disegno di A. Norsa
L'ORCO...SIGNORINA
Sintomatica
e ricca di significato quest’altra leggenda che poteva uscire solo dai “filò”
di Sprea. È anche l’unica versione in cui l’“Orco” esce da una
fenditura nella roccia di un monte.
«Un uomo, recatosi un giorno a falciare
l’erba in un prato di sua proprietà piuttosto lontano da casa, durante una
pausa del lavoro, vide uscire da una roccia un uomo con una gran barba, il quale
si fermò a due passi da lui. – Cosa vuoi da me?,
gli chiese il contadino. L’uomo con la barba non gli rispose, ma si trasformò
immediatamente in una bella signorina, accattivante e cortese. Anche lei si fermò
a fissare il falciatore che le rivolse la medesima domanda che fece all’uomo
barbuto: — Che cosa vuoi da me?, senza però averne risposta alcuna. Il
poveraccio, a quel punto, imboccò in fretta e furia la strada per casa, dove,
giunto, raccontò l’accaduto e tutti sentenziarono che si trattava dell’Orco»
(Raccontata da Renzo Corbellari di Sprea –Anni Sessanta).
L'ORCO...QUERCIA
«Un giorno un giovanotto che era solito
bestemmiare, anche per motivi futili, tornando a casa da un lungo viaggio, fu
costretto ad attraversare un ponte sopra il torrente che scorreva nei pressi
della sua contrada. Vicino al ponte di legno c’era una grande quercia come
quelle che si vedono in giro per i boschi della nostra montagna, L’uomo aveva
appena messo piede sul ponte che scivolò improvvisamente giù nel torrente; ma,
prima ancora che toccasse l’acqua, la quercia con i suoi robusti rami si piegò
giù, giù, fino a farsi prendere con le mani da quel poveraccio; quindi,
raddrizzatasi piano piano, lo rimise a terra sano e salvo.
Quella volta l’Orco era diventato generoso ».
(Raccontata
da Ernesto Anselmi di Sprea – Anni Sessanta).
Storia … del Basilisco e delle sue sembianze
Per
non andar lontano dalla realtà, come ho fatto per altre favole della nostra
Lessinia, questa volta ho voluto chiamare direttamente in causa il Basilisco con
una “storia” documentata. Eccola.
Il
“Basilisco” al capitello dei Sprontài
Il termine “Sprontai”, così com’è pronunciato dalla gente a Campofontana, è una storpiatura del toponimo cimbro prundetàl che significa “vajo del torrente”. La zona del paese denominata con tale termine corrisponde sul terreno al territorio che abbraccia gli imbocchi delle strade per contrada Muschi e per contrada Flori, la strada delle cosiddette “Rive di Campo di Fuori”, costruita tra il 1915-1918, sulla quale insiste un capitello dedicato alla Madonna, e termina nel precipizio del cosiddetto “Cóvolo”, una parete rocciosa di una cinquantina di metri di altezza, sotto la quale si è venuto a formare un gran riparo naturale.
Il
toponimo conferma proprio la conformazione del terreno. Di lì, infatti,
transita un vajo di scorrimento delle acque piovane che poi va a forgiare
la parete del cóvolo. Anticamente il vajo serviva anche da mulattiera,
da scorciatoia, da sentiero, insomma, che congiungeva Campofontana a Selva di
Progno. Sentiero per il quale fu costretto a passare anche il vescovo Alberto
Valier nel 1613, il 9 luglio. La cronaca del trasferimento da Campofontana a
Selva di Progno, lungo appunto la strada del cóvolo, tra l’altro,
recita che l’unica via comunis è stretta, precipitosa e
dirupata. A metà strada, infatti, il presule è costretto a … desilire à
Mula et pededentim, scendere dalla mula e proseguire a piedi per oltre un
chilometro fino a Selva di Progno, tra macigni e sentieri stretti e difficili da
transitare.[1]
Attorno
al capitello la credenza popolare ha voluto creare anche una leggenda per
giustificarne la posizione e motivarne la sistemazione; giustificazione che
peraltro ha origini molto discordanti. Il capitello è stato costruito per
“GRAZIA RICEVUTA”, e inoltre per mettere un segno alla via, come tanti altri
capitelli e stele che fungevano da segnaletica. La leggenda è la seguente. Me
l’ebbe a raccontare Domenico Tornieri negli anni Sessanta del secolo passato.
«Quando ero bambino sentivo raccontare durante i “filò” che una volta la gente assicurava che in un bosco di Campo di Fuori, a Campofontana, c’era un uomo piccolo, piccolo, che era chiamato l’”Ometto”. Una bella sera alcuni dissero: —Andiamo a vedere questo benedetto “Ometto”. Quando però furono nel bosco, videro due luci forti e abbaglianti e qualcuno sussurrò: — Ma quelle luci sono prodotte da qualche ceppo d’albero bagnato o marcio sotto i riflessi della luna; andiamo avanti. Invece, qualche attimo dopo, quelle luci scomparvero e tutti videro una grande ombra di cavallo, ma del cavallo videro solo la testa e le zampe. Poi il cavallo si trasformò in un basilisco, che aperse le ali e, volando via, andò a posarsi sopra i faggi del bosco degli “Sprontài”. In quel posto, allora gli abitanti delle contrade vicine, piantarono una croce che c’è tuttora e assicurano che ve l’hanno messa apposta per tenere lontano l’Orco e il Basilisco ».. Chi era il “Basilisco”
Non
è la prima volta, questa, che si sente parlare del basilisco. Cos’era
o, meglio ancora, chi era il Basilisco? Se prendi a salire lungo la
strada che da contrada Cancellata di Selva di Progno sì inerpica verso
Campofontana, la prima contrada che incontri sulla tua sinistra è Vanti,
ubicata sul costone boscoso di un monte che si staglia nel cielo a schiena
d’asino: nella toponomastica locale, che è “cimbra” anche in quei
paraggi, quel dosso aguzzo e lungo viene chiamato Aisaróche o
anche Esaróche. I due termini che compongono il nome sarebbero: eitzan
e loche (pascolo delle fiamme) oppure eitzan e roche
(pascolo del fumo); più probabile la seconda spiegazione per un motivo di
natura popolare.
A
metà della valletta che costeggia l’Aisaróche si possono vedere
ancora uno spiazzo pianeggiante, un posto di carbonaia in altre parole, e una
specie di pozzo, che era una calcàra, una fornace in pratica dove si
preparava la calce. Quando le due attività erano in piena funzione — di
solito in autunno, ed io ebbi la fortuna una volta di essere presente alla
benedizione solenne dell’accensione contemporanea della calcàra e
della carbonara — da quel luogo che ancora adesso è chiamato “Calcàra”,
si alzavano lunghe colonne di fumo che andavano a toccare la “schiena
d’asino” dell’Aisaróche e davano l’impressione che ci fosse un
essere ultraterreno che spaziasse ad ali spiegate sopra la valle. Da questo
paventato sbigottimento interiore e dalla paura di incontrare
quell’“essere” è nata, probabilmente, la leggenda del Basilisco
che sprizzava fuoco, vapori e fiamme da tutte le aperture facciali.
Perché
si chiama Basilisco? Giuseppe Rama, un bravo ricercatore e studioso del
folklore veronese, ne ha trattato in lungo e in largo le sembianze storiche e
scientifiche che ci permettono di abbozzarne i lineamenti più caratteristici
presenti nella favolistica popolare veronese. Anzitutto si chiama così perché
deriva dal greco βασιλισκός
(basiliscòs) e da βασιλήυς (basilèus),
che vuol dire piccolo re, regulus in latino, reuccio. Tanto per dire che
era conosciuto anche antichissimamente, la Bibbia lo cita col nome di tsepha,
simbolo del male, del peccato. Ed era considerato il re dei serpenti e di tutti
gli esseri viventi ad eccezione dell’uomo; probabilmente fu lui a tentare Eva.
L’iconografia cristiana mette accanto a San Giorgio e a Santa Margherita d’Antiochia
un mostro, un “drago”, che altro poi non è che la bella copia del Basilisco.
De
Plancy, nel suo “Dizionario infernale”, lo descrive: «Piccolo serpente
lungo mezzo metro, conosciuto solo dagli antichi. Aveva due speroni, testa e
cresta di gallo, ali, e una normale coda di serpente. Tanti affermano che nasce
dall’uovo di una gallina, covato da un serpente o da un rospo…si ritiene che
esso possa uccidere con lo sguardo… ». Queste alcune informazioni che ci
vengono dall’antichità. Ma vediamo adesso a cosa ne dicono i veronesi.
A
Vestenanova lo chiamano scurzón, un rettile cioè, ne più né meno,
simile al carbonazzo, rettile che conosciamo bene tutti.
Anche
a Cazzano di Tramigna sembra essere un carbonasso, ma con delle piccole
ali membranose, il capo adorno di una cresta carnosa di colore rosso fuoco,
aggressivo se è disturbato.
A
Castrano, nel Vicentino, è un serpente velenoso, di color rosso striato che
vive nei boschi, con piccole ali, cresta di gallo, zampe, e in testa porta un
rubino. A Cogollo è una piccola serpe di colore rossiccio, cresta di gallo, e
due piccole zampe.
A
Sant’Andrea, l’animale raggiunge dimensioni di circa 10-15 centimetri e
insidia le persone con il suo “magnetismo”, che si crede lo renda capace di
immobilizzare, di incantare in dialetto, le persone. Si rigenera da solo,
quando, inavvertitamente, falciando il fieno, si decapita una vipera. Alcune
memorie orali di montanari della Val Tanara di Sant’Andrea, raccolte
direttamente da Giuseppe Rama, affermano: « Maria, me passà sora la testa
un basilisco l’altro giorno che se el me ciapa el me cópa ». Un’altra
persona risponde: - Ce ne sono in giro! Ne ho visti tanti sopra il fienile!
A
Campofontana il basilico, come si è visto, aveva la sua dimora nel bosco dei Sprontài,
ma appariva ai mortali soprattutto nella valle dell’Aisaróche e
sprizzava fuoco, fiamme e vapori da tutte le aperture facciali contro i poveri e
disarmati passanti.
A
San Mauro di Saline era un essere simile a una lucertola che volava, aveva lo
sguardo micidiale e con gli occhi immobilizzava la gente che diventava di sasso.
A
Camposilvano il basilisco nasceva da un uovo di gallo (maschio) che deponeva
ogni cento anni; aveva la cresta e assomigliava a un drago.
A
Cerro il basilisco viveva in una spelùga (una cavità naturale) del Vaio
del Posso, ed era fatto come un serpente, lungo mezzo metro, con una cresta
rossa e ali membranose; emetteva un sibilo terrificante, era velenoso e spiccava
.lunghi balzi aiutandosi con le sue zampette.
Nella
zona di Romagnano, tra Lumiago e il Vajo della Pissavacca, il basilisco era
conosciuto come un serpente alato, velenoso, di color rosso vivo, con cresta di
gallo e con un comportamento aggressivo, tanto che esiste il detto: «Te sì
rabioso come on basilisco».
Nella
zona di Erbezzo un signore anziano dice che nella curva prima di entrare in
paese, incontrava spesso il basilisco fermo ad aspettarlo; aveva una cresta di
gallo, corpo rossastro e due piccole ali come quelle di un pipistrello.
A
Breonio-Fosse, vicino alla contrada Casaróle, vedevano spesso il basilisco;
dalle descrizioni che ne hanno fatto le persone del luogo, prendeva le medesime
sembianze già raccolte in altre zone della Lessinia: corpo rossastro, cresta di
gallo, ali membranose, zampette corte, lunghezza di mezzo metro circa, sguardo
micidiale, velenoso, capace di far lunghi balzi.
Per
concludere. In realtà il Basilisco esiste in carne e ossa e viene
identificato in un rettile dell’America tropicale appartenente all’ordine
dei Sauri, famiglia degli Iguanidi, della lunghezza di 50-80 centimetri. Il
maschio ha il capo ornato da una cresta di forma triangolare; un’altra cresta
corre lungo tutto il dorso. Ha colore variabile che va dal verde al
bruno-olivastro, una lunga coda, ma è innocuo.Vive di preferenza sugli alberi,
si nutre di vegetali e d’insetti. Una pittrice veronese, Giulia Pianigiani, in conformità a tutte le informazioni raccolte, in un suo acquerello immagina un Basilisco che vola e che sprigiona fuoco dalla bocca.
Il Basilisco
disegno di A. Norsa
[1]
- Il testo latino della relazione recita: … et continuando iter
predictum et descendendo e montanea, propter difficultatem ipisius itineris
et descensionis, idem illustrissimus dominus episcopus cum sua famiglia
caoctus fuit desilire a mula et
pededentim ab ipsa montanea discendere, cun gravi difficultate, tum propter
angustiam semitae, tum etiam propter multitudinem saxorum et longitudinem
ipsius decsndionis, quae fuit circa dimidium miliare…
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