Il Sogno del Pittore Venceslao
Di Paolo Tricarico. Consulenza storica di Sergio Spiazzi.
Venceslao Huberti nacque da Domenico e Rosalia Guzzani il giorno 11 gennaio 1791: nella grande e antica casa colonica del «Drago».
Il bisnonno, Benedetto, era un ricco e colto «leguleio» proveniente da Mantova, nella prima metà del '700; suo figlio primogenito Ferdinando, monsignore eccellentissimo, don Huberti aveva per primo firmato l'atto di acquisto nel 1760 della proprietà dal signor Ottavio Drago.
Poi, insieme con il fratello Giovanni Venceslao - nonno del piccolo Venceslao - fece costruire dieci anni dopo l'Oratorio sacro, demolendo quello precedente.
Quando nacque Venceslao, la famiglia, e zii e prozii e cugini preti e non, era pronta a sciogliersi, a scomparire: rassegnata al silenzio di un secolo che non capiva. Quasi da non accorgersi di questo bambino delicato, esile, sottile: di certo nessuno ebbe coscienza che il sorriso gelido di Venceslao portava a compimento, realizzava germi segreti. Era nato per essere «grande»!
Era un bambino malato di studi. Gracile, silenzioso, distaccato cresceva a coltivare desideri e parole segrete (nella stessa casa dove due secoli prima Giulia Basso aveva consumato la sua infanzia di peste e disamore... ): risciacquati i polmoni di sogni chiari dove la vita sembrava trascorrere senza lasciare traccia.
In quegli anni il pensiero di Dio non lo sfiorò mai: né la sua gracilità fisica fu mai smunta da dubbi o ansia alcuna.
Solo quando in paese arrivarono i russi del generale Suvarov, Venceslao conobbe la paura. Tre anni prima il passaggio di Napoleone gli era rimasto del tutto estraneo: troppo piccolo ancora per inseguire incubi o disastri di guerra.
Ma nella primavera del 1799 le migliaia e migliaia di soldati, con al seguito la litania folle di donne e bambini, che urlavano suoni incomprensibili, con le loro rozze divise verdi con pastrani gialli che il tempo delle guerre e delle marce avevano ridotto a teche brunite di fango e di zecche: tutto questo sconvolse l'immaginario del piccolo Venceslao.
Per decreto della Deputazione Territoriale di Verona, la truppa russa fu ospitata - in verità saccheggiò per mesi - nel territorio, e anche nella proprietà Huberti entrarono gli ufficiali slavi, mirati di sbieco dal bambino rintanato in un angolo, come fantasmi di morte che malignamente lo avessero disturbato.
Fu in quei mesi che cominciò, poi di continuo, a imbrattare di disegni e colori ogni carta o pagina bianca: orrori di fantocci ghignanti e di battaglie e di cavalli -fra la corte del Camillion e la Cengia puzzavano e nitrivano oltre 4000 cavalli ammassati: mai il paese ne vide tanti!- scalpitanti sugli elmi dei moribondi: erano visioni e forme da dimenticare.
Ma il bambino Venceslao aveva cominciato a dipingere. Da allora giurò che non avrebbe mai dipinto la cieca violenza. Se ne era liberato per sempre. Due anni dopo, quando già i francesi erano rientrati a Verona, fu affidato alla scuola del molto illustre pittore Maestro Campo.
Per dieci anni, accanto al disegno, Venceslao studiò latino, grammatica e retorica a Verona, prima nel pubblico Ginnasio di S. Sebastiano, poi nel Liceo superiore, dove ebbe modo di eccellere nell’arte della composizione poetica, nonché nello studio della Filosofia.
Quello che non conobbe mai fu il cuore che batte dopo una corsa, o per aver guardato lo sguardo cercato.
La sua carriera di studente modello fu nobilitata nel 1811 dalla prima medaglia in eloquenza.
“Fu molto stimata una sua composizione letta in pubblica scuola per solennizzare la nascita del figlio di Napoleone allora regnante, che aveva il nome di Re di Roma. Questa fu poi stampata…” (Zanandreis)
Dopo due giorni Venceslao ebbe il primo violento sbocco di sangue: si ammalò gravemente. La tisi era esplosa. Emerse dalla convalescenza con la convinzione segreta del suo futuro: avrebbe fatto il pittore. Per questo era nato, e aveva consumato l’attesa della sua giovinezza. La poesia doveva essere il di più del suo amore per l’arte. Ma il colore, il disegno, le forme nello spazio: questo era il suo destino. E Venceslao tutto avrebbe desiderato, piuttosto che scappare al suo destino!
Pochi mesi dopo, nella primavera del 1812, fece un viaggio a Possagno: lo scultore Antonio Canova lo ricevette e gli fece scivolare la mano sul marmo appena levigato (come se i raggi di luce avessero attenuato lo spessore della materia) delle tre Grazie. Al ritorno il giovane Venceslao disse poco, raccontò di un giovane pittore francese che aveva conosciuto a Possagno, entrambi alla scoperta del silenzio e dell’umiltà “classica” del maestro. (Il giovane francese –si chiamava Jean Dominique Ingres- gli aveva schizzato il ritratto in carboncino scuro: e gli aveva appena sorriso, mentre insieme riconoscevano che la bellezza non aveva né prezzo né costo alcuno!
Venceslao Huberti, pittore per scelta e per vocazione, ricevette la prima committenza ufficiale nell’estate del 1814: doveva, secondo contratto, dipingere una pala d’altare, di soggetto sacro libero, per la Parrocchiale di San Martino.
(L’anno prima, sempre per la stessa, aveva dipinto un catafalco da morti, con emblemi allusivi al lugubre fine a cui era destinato, ricevendo unanimi consensi).
Si mise al lavoro con l’impazienza febbrile dei suoi 22 anni, con l’ansia febbricitante del suo desiderio d’artista: e disegni e ancora disegni si accalcarono nella grande “cucina” del Drago, che aveva scelto come studio. In un angolo remoto l’unica a guardarlo era la vecchia fantesca che l’aveva visto nascere e ancora si stupiva di vederlo vivo, tanto al punto di non mangiare, di non morire. Ossessionato.
Doveva dipingere una Sacra Famiglia, queste almeno erano le intenzioni iniziali.
La febbre lo colpì in settembre, mentre da giorni si logorava intorno “alle mani della Vergine”: allungate le dita sottili a sfiorarsi, pronte a congiungersi: cosa pensano le mani di Maria?, cosa toccano le mani di Maria…?
Così la tisi lo trovò, e insieme il petto che bruciava dentro, e insieme gli abissi dei polmoni come dirupi scoscesi in cui di volta in volta precipitava.
Quando si alzò dal letto, per entrare nella chiesa umida, fredda, silenziosa erano già scese le brume e l’inverno del cuore un’unica immagine suggeriva: avrebbe dipinto un soggetto sacro del tutto inusuale, il transito di San Giuseppe, avrebbe dipinto la Madonna e Gesù intorno al letto di morte di San Giuseppe, avrebbe dipinto…: e in ogni volto il pallore della morte: il suo stesso volto!
Era la sua prima opera, si trasformò nel senso e nel diritto della sua vita. I lavori procedevano lenti: Venceslao ancora non dominava i volumi, ancora i gesti delle figure si enfatizzavano prima di stracciarsi nel vuoto, ancora la luce del colore si smerigliava in frammenti incompiuti: bisognava aver pazienza e lottare con il quadro. E per la prima volta con il dubbio, la paura di non farcela!
L’inverno passava, nel freddo della chiesa da dove ormai il pittore non si allontanava più. Si era fatto allestire un giaciglio vicino alla parte sinistra: sopra vi consumava di notte la sua tisi. Pochi lo guardavano, così morire a poco a poco..
La sera del 14 aprile 1815 Venceslao ebbe una crisi più violenta. La febbre si alzò, il sangue non smise: la “pagliuzza” estratta al momento della nascita si era esaurita. Sentì che lo raccoglievano ai piedi della tavola, avvertì confusamente che mani pietose lo sdraiavano sul suo pagliericcio: da intorno gli giungeva addosso la voce dei pochi astanti, la voce del cerusico che mormorava : “non passerà la notte..”.
Venceslao pensò con terrore che il quadro era largamente incompiuto: bisognava rifinire bene il gruppo di figure nella parte inferiore, soprattutto mancava l’angelo a completare la zona superiore. Ah, l’angelo: era un anno fa, era da sempre che ci pensava! Senza angelo, il quadro non esisteva neppure. Senza angelo.. e lui tra poche ore, pochi minuti sarebbe morto!
Nell’oscurità, della notte e dell’agonia, parlò con Dio, parlò a quel Dio che non aveva mai pregato, a quel Dio inconcepibile senza colore né forma, senza parola: “Se in qualche modo esisto, esisto come autore di questa pala d’altare. Per condurre a termine questo quadro, che può giustificarmi e giustificarti, chiedo ancora un mese. Accordami questi giorni. Tu a cui appartengono i secoli e il tempo…”. Subito dopo l’incoscienza l’annegò come un’acqua scura. E sognò, sognò Venceslao di trovarsi bambino e di guardarsi trafelato dopo una corsa, nell’acqua della chiara Rosella e di cercare qualcosa nel suo volto, nel suo sguardo: sognò che una voce che veniva da ogni luogo gli sussurrava: “… il tempo per il tuo lavoro ti è stato concesso”. Qui Venceslao si svegliò. Una pesante goccia di sudore gli scorreva lungo la tempia destra giù sulla guancia incavata: e non finiva di scendere.
Intorno non c’era nessuno. Dalla perplessità passò allo stupore, dallo stupore alla rassegnazione, dalla rassegnazione ad un’improvvisa gratitudine. Un mese intero aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro: un mese gli concedeva l’Onnipotente, una lunga notte che sarebbe durata un mese! Al chiarore incerto di due candelabri le cui candele non si consumavano, Venceslao riprese a dipingere: corresse – smussò –intenerì i valori plastici delle figure, inventò il particolare dell’ampolla che emana incenso, nell’angolo basso a sinistra, rifece il “rosso” della tunica di Gesù: e poi finalmente si dedicò al “suo!” angelo. Lo Pensò lento per l’ultima volta: lo pensò e lo dipinse con infinita pazienza, ricordando tracce antiche di Lorenzo Lotto, e più recenti del Tiepolo, ricordando che ogni angelo è un sogno leggero che scardina la malattia e la morte. E infiniti sono gli angeli… oppure i sogni!
Per ringraziare il Signore e lasciare testimonianza (permettendo a noi, dopo quasi due secoli di scrivere la sua storia): lasciò incompiuto il margine destro superiore del quadro. Non gli mancava, ormai, che l’ultima pennellata. La trovò. La goccia di sudore scivolò lungo la guancia e cadde, le candele si spensero. Venceslao gridò il principio di un grido. E si spense. Era la notte del 15 aprile 1815.
La tavola del transito di San giuseppe: a memoria del suo autore vi fu posta la seguente iscrizione:
Venceslao Huberti annorum XXIII tabulam hanc morte preventus non ultra rudimentum perduxit. 1814.