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Benini Silvio. Medico.

a cura di Anna Solati

 

    Il dott. Silvio Benini  non  solo è stato il medico Condotto e l’Ufficiale Sanitario del nostro Paese per più di 30 anni, ma anche un personaggio  al centro di importanti  iniziative a cui ha dato il suo contributo cercando di non mettersi mai troppo in mostra.

 

Mi racconta:

 

“Nella mia famiglia siamo ormai arrivati alla quarta generazione di medici. Si comincia da mio nonno che era direttore della maternità di Verona, e siamo alla metà dell’800. Poi è stato medico mio padre: era specializzato in pediatria, ma era anche il medico di fiducia di tutti gli istituti religiosi di Verona, attività che svolgeva letteralmente “gratis et amore dei”.

 

Era anche uno spirito innovativo perché fu il primo medico cittadino che dotò il suo ambulatorio di un apparecchio per fare le radiografie. Si trattava di una macchina enorme, “esplosiva”, il rischio di contaminazione per chi la adoperava era notevole, ma papà non si preoccupava per i rischi.

 

Dopo mio padre sono venuto io e dopo ancora due dei miei figli. Per tutti noi la scelta della professione è stata libera e non condizionata. La mia famiglia era piuttosto numerosa, eravamo in 7 tra fratelli e sorelle: tre maschi e quattro femmine. Un mio fratello è stato notaio, uno ingegnere, una sorella insegnante di matematica e le altre casalinghe.

 

Ho frequentato le scuole inferiori al Vescovile, il ginnasio e il liceo al “Maffei”. L’esperienza del liceo per me è stata importante per diversi motivi. Prima di tutto per la  scelta della professione futura: a riprova che in famiglia non si facevano pressioni perché noi scegliessimo la strada di nostro padre, è stato uno stupendo professore di materie scientifiche: il professor Bonaventura che mi ha entusiasmato e indotto a scegliere la professione di medico.

          

Ho poi avuto come nostro compagno di classe un ragazzo di cognome Chiocchetta, in seguito padre Comboniano,  molto vicino a Papa Giovanni Paolo II nel settore che si occupa dell’attività missionaria. E’ stato proprio lui che ha condotto in porto la causa per la beatificazione di padre Daniele Comboni.

 

Questo nostro compagno è tuttora il legante di noi vecchi liceali: in diverse occasioni ci riuniamo con lui, accompagnati delle nostre mogli, come in una grande famiglia. Per mezzo suo abbiamo avuto anche la gioia di essere ricevuti  in udienza privata dal Santo Padre.

 

Finito il Liceo, siamo nel ’39, mi sono iscritto all’Università di Padova, poi è scoppiata la guerra e sono stato chiamato a fare il servizio militare. Ho fatto un anno sotto le armi un po’ a Vittorio Veneto e un po’ a Padova. A Padova, noi soldati-universitari eravamo ospitati in caserma e frequentavamo le lezioni. Quando le autorità militari si sono accorte che era una cosa assurda e costosa, ci hanno mandati a casa. Così, tornato a Verona, qualche volta mi è capitato  di andare a Padova in bicicletta per sostenere gli esami: usare il treno era pericoloso a causa dei bombardamenti e delle frequenti incursioni aeree.

 

Avevo intanto cominciato a frequentare il reparto di medicina interna del professor Secco, e quando mi sono laureato nel ’45, con una specializzazione in Igiene, sono stato accettato come assistente.

 

Era un lavoro non pagato, si raggranellava qualcosa facendo le guardie che erano faticosissime, duravano 24 ore effettive: dalle 8 di una mattina alle 8 di quella successiva, dopo di che si andava in reparto a svolgere il servizio regolare fino alla sera.

Nel corso del tempo la mia situazione è migliorata: sono diventato aiuto del Primario che mi stimava molto. Voleva per me una carriera simile alla sua e mi spingeva a scrivere, a produrre pubblicazioni che “facevano punteggio” per i concorsi, ma io non ero disponibile a sprecare il mio tempo per riempire fogli di carta con lavori scopiazzati qua e là. Quello che ho prodotto è stato poco, ma farina del mio sacco.

 

Intanto si stava preparando una sanatoria per i medici che, laureatisi alla fine della guerra, non avevano potuto sostenere gli esami di stato, obbligatorio per esercitare la professione: era sufficiente partecipare a un concorso per un primariato e, anche se non lo si vinceva, essere dichiarati idonei.

          Ogni esame positivo comportava anche un certo punteggio che poteva servire per fare carriera. Io non avevo ancora chiaro il mio futuro per cui quando vinsi il concorso per medico condotto a San Martino nel ’54 ero molto incerto se accettare o proseguire il mio lavoro in  ospedale.

          Mi aiutò a decidere il Prof. Secco che mi disse:  “Benini, io la conosco bene, so quanto vale, sarei contento che il mio paese avesse come medico una persona come lei”. Così seguii il suo consiglio e non me ne sono pentito.

           

Quando mia moglie ed io arrivammo a San Martino, il centro del Paese era diverso da come è ora. Dopo il campetto delle parrocchia, sulla sinistra della strada c’erano solo campi, mentre a destra, dopo la casa di riposo, in fondo alla via c’era il macello e, poco più in là, il casello ferroviario.

          Lungo la statale per Vicenza a sinistra, dopo l’edificio dell’attuale farmacia, c’erano solo campi e così a destra dopo il mulino Mercanti. In via Piave, a sinistra, c’erano le casette basse che ci sono anche attualmente. Le Casette erano costituite sostanzialmente dall’edificio dove attualmente c’è il bar con la corte retrostante, e  da qualche cascinale sparso nella campagna.

Non avemmo quindi difficoltà ad individuare il luogo dove avremmo costruito la casa dove tuttora abitiamo.

           

Cominciai a lavorare come medico condotto che voleva dire essere anche l’Ufficiale Sanitario del Comune. Questo incarico comportava diverse attività: vaccinazioni (anche 100 al giorno), ispezioni alle ditte per assicurarsi che esse fossero in regola riguardo alla normative sull’igiene e la salute dei lavoratori e altro….

 

C’era anche una incombenza emotivamente pesante: quella che riguardava i defunti. Oltre a certificare le morti normali, cosa già dolorosa, mi è toccato più di una volta di essere presente dove se ne era verificata una violenta. Ho visto suicidi, morti per incidenti stradali, persone affogate, sono tragedie difficili da dimenticare, sono stato fortunato perché in quei momenti angoscianti mi ha sempre sostenuto la Fede.

           

Situazioni più liete sono state quelle in cui ho fatto il ginecologo/ostetrico. Non era la mia specializzazione, e quando avevo lavorato in Ospedale non avevo potuto approfondire queste conoscenze. Così, prima di venire a San Martino, ho frequentato per alcuni mesi la Maternità in modo da essere pronto ad ogni evenienza. E di evenienze ce ne sono state tante e quasi sempre di notte. Di solito venivano a chiamarmi i padri, in bicicletta. Prendevo la borsa, salivo sulla tre cavalli e partivamo di corsa.

 

Mi sono trovato ad assistere  a un parto in una casa senza luce elettrica con il padre che faceva luce con la lampadina tascabile. Mi sono trovato in una notte di nebbia e di neve sulla strada delle Ferrazze, allora non asfaltata, con la capote alzata, testa fuori, seduto sulla spalliera del sedile con il futuro padre che controllava gli argini del Fibbio e della Rosella perché non piombassimo in acqua … ce ne sarebbero da raccontare.

           

Ho fatto anche il “chirurgo” oftalmico. Venivano in ambulatorio gli operai delle acciaierie ai quali, saldando, si erano con conficcate delle schegge negli occhi, mi ero comprato un monocolo da orefice e con una pinzetta “operavo”,  un po’ di collirio adatto, e stavano subito bene.

            Oltre all’orario di ambulatorio c’erano le visite a casa degli ammalati sia di giorno che di notte, anche tre volte per notte. Solo una volta chiusi l’ambulatorio: era il ’57 l’anno della grande “Asiatica” quel giorno feci 74 visite domiciliari! Strano a dirsi io non trovai il tempo per ammalarmi. 

           

Noi tre medici facevamo ambulatorio anche nei giorni di festa: allora il paese era ancora a carattere contadino per cui la domenica, chi abitava in campagna, faceva il bagno, si cambiava e veniva in paese a farsi visitare dal dottore. Riuscii a convincere i colleghi a fare dei turni che ci sollevassero un po’ dalla fatica continua.

           

Andai in pensione nel ‘90 a settanta anni, serenamente: avevo preparato tutto per tempo, anche lo spirito.

 

Avevo i miei hobby: il giardino e l’orto, la fotografia, la montagna, e …il restauro di mobili, inoltre un’attività culturale di non poco conto: la presidenza dell’Università della terza età.

I miei pazienti mi tributarono commoventi dimostrazioni di affetto, qualcuno mi avrebbe ancora voluto come suo medico, ma non ho accettato anche per rispetto dei giovani che sono subentrati.

            Ho fatta mia la frase di un grande clinico che avevo letto su una rivista: “E’ meglio che lasci i miei clienti fino a che sono efficiente, piuttosto che mi lascino loro quando non lo sarò più.”

           

Ho parlato prima dell’Università della terza età, non mi dilungherò su questa benemerita istituzione, ne avete già fatta la storia voi. Dirò soltanto che esserne stato promotore assieme al caro don Giovanni, e presidente per molti anni, mi riempie di orgoglio.

           

Ho fatto anche una esperienza politica che, per una persona con il mio carattere, è stata naturalmente un po’ anomala. Si era nel 1991, e la Democrazia Cristiana si stava sfaldando. Don Giovanni cominciò a pensare ad una formazione politica che, pur ispirata al vecchio partito, facesse onestamente il bene del paese. Pensarono a me come figura di prestigio da proporre come Sindaco, io rifiutai più volte. Poi mia moglie mi fece notare che se tutti si tiravano indietro, continuando però a lamentarsi dello stato delle cose, non si andava da nessuna parte: bisognava avere il coraggio e impegnarsi, così accettai. Per fortuna mi andò bene perché è vero che perdemmo, ma di pochi voti, così anche “l’onore” fu salvo.

            Negli anni della amministrazione Gaiga ero un componente della minoranza diverso da quello che ci si poteva aspettare,  non accettavo il principio che la maggioranza avesse sempre torto: se una proposta era giusta perché perdere tempo a rifiutarla? Tutti allora si lambiccavano il cervello per scoprire che fini ci fossero dietro alle mie decisioni!

 

Ho fatto una politica del buon senso, comportamento che di per sé è la negazione della politica che viene praticata di solito. Per questo ho definito anomala la mia esperienza. Per me avere la coscienza tranquilla è stato un principio etico a cui mi sono sempre conformato e questo mi permette di guardare al passato con la soddisfazione di chi ha fatto il suo dovere e al futuro con serenità”.

 

maggio 2004

 

Intervista di A. Solati