|
||
Castagna
Arrigo. Imprenditore/sportivo.
Arrigo
Castagna è nato il 16 Luglio 1914 a Marcellise. In famiglia, oltre a lui,
c’erano altri quattro tra fratelli e sorelle. Tuttora ne vivono ancora
quattro, tutti in buona salute e giovanili anche nella memoria. La sua è una
famiglia fortunata perché anche il
padre e la madre hanno vissuto in buona salute e a lungo.
Come
allora si usava, per poter sopravvivere in campagna se si lavorava per qualche
grosso proprietario terriero, in casa erano in 10-12 persone: oltre ai
nonni c’erano anche un paio di “famei”.
Malgrado fosse sposato e avesse figli, il padre aveva dovuto fare il soldato nella grande guerra ed era stato fatto prigioniero durante l’offensiva tedesca sull’altipiano di Asiago. Internato in Germania, aveva patito la fame e ne sarebbe morto o si sarebbe ammalato gravemente se la moglie, che si era procurata un fornetto, non gli avesse preparato il pane che poi gli mandava in appositi pacchi. Non c’erano soldi per comprare altre cose, bisognava arrangiarsi come si poteva. Forse questo particolare era rimasto nella mente di Arrigo quando intraprese la sua strada di imprenditore nel campo dolciario.
Il
padre, tornato tardi dalla prigionia verso gli anni ’20, aveva ricominciato il
suo pesante lavoro. E, dato che in campagna tutti dovevano lavorare, anche
Arrigo fu messo subito a sgobbare.
Racconta:
“Studi
ne ho fatti pochissimi, solo fino alla quarta elementare e poi anch’io nei
campi, insomma cultura zero. Ci hanno pensato i miei figli a studiare anche per
me. Pur avendo cominciato così presto a piegare la schiena, avevo qualcosa
dentro che mi spingeva a non lasciarmi andare al tipo di vita piuttosto arida
che conducevo, a non diventare il contadino che aveva solo l’osteria come
soddisfazione. Un mio senso della dignità voleva che mi mostrassi in giro nel
modo migliore possibile. Così, facendo economie di tutti i tipi, avevo un bel
vestito elegante, con calze e scarpe “alla moda”, ero un vero gagà. Alla
festa scendevo in paese vestito come un signore.
Questa
mia abitudine finì per procurare guai a me e, quasi, anche alla mia famiglia.
Ho fatto il contadino fino a 20 anni, poi sono partito per
il militare, dopo di allora non
ho più lavorato al terra. Vediamo come andò.
Foto: Castagna Arrigo.
L’inizio
fu quasi uno scherzo. Era domenica e io mi ero preparato come al solito per
andare a San Martino. Venne a chiamarmi il giardiniere che aveva bisogno di un
aiuto per portare giù dal granaio un pesante baule. Così, tutto elegante, con
le mie belle scarpe bicolori, scendevo le scale reggendo il carico. Il
giardiniere era dietro. In quel mentre arrivò la piccola contessina che non
aveva mai badato al contadino che zappava i suoi campi. Così mi chiese: “Chi
sei tu? Come ti chiami?”. Cosa mi prendesse in quel momento non lo so proprio,
ma mi scappò di dirle: “Sono il conte Cavazocca” e la ragazzina corse ad
avvisare la mamma che c’era quel conte in entrata. La madre mi riconobbe
subito e disse: “Ma no, ti sbagli, è solo un nostro contadino”.
Da allora sono ancora conosciuto dai miei coetanei come conte Cavazocca.
Altro fatto che infastidì i padroni fu che, quando di festa passeggiavano lungo
il viale, a volte mi incontravano, e un contadino che sembrava un signore era
per loro uno spettacolo sgradito. Chiamarono mio padre e gli dissero:” O via
lui o via tutti” La scelta non poteva che essere una. Così presi il
certificato di quinta elementare, trovai posto in ferrovia e vi restai fino a
quando non fui richiamato nel ’40.
Nel giugno, appena entrati in guerra, il nostro esercito era stato mandato sul fronte francese. Fanti e alpini, percorrendo mulattiere e sentieri, attraversando ghiacciai, erano entrati in Francia in piccoli gruppi. Invece le truppe motorizzate come le divisioni Trento e Trieste erano state costrette a fermarsi prima dei valichi del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo perché le poche strade carrozzabili non erano in grado di accogliere una massa così grande di uomini e mezzi. I loro autocarri ostacolavano i battaglioni diretti verso il fronte, che dovevano percorrere due strade che attraversavano i passi e che erano presidiate efficacemente dall’alto. Il mio battaglione si trovava nei pressi del Piccolo San Bernardo. Per entrare in Francia si doveva attraversare una strettoia con un ponte ma sopra di noi, a 2000 metri di altezza, c’era il forte Traversette che distava 500 metri in linea d’aria dal ponte da dove si doveva passare. Il forte era tenuto solo da una ventina di soldati di colore bene armati.
Il forte Traversette. Foto: Castagna Arrigo.
Così il ponte, centrato dall’alto, veniva distrutto continuamente. Di notte i nostri lavoravano abbastanza tranquilli per ricostruirlo, ma di giorno ricominciava il massacro. Era una strage continua di soldati che tentando di passare venivano colpiti con facilità. Gli alpini tentavano la scalata per conquistare il forte e anche lì venivano uccisi a centinaia. La nostra artiglieria non riusciva a colpire la postazione nemica, sia perché era un po’ lontana, sia perché essa era coperta di caucciù e i proiettili rimbalzavano.…Per fortuna la nostra guerra durò solo due settimane perché, intanto, i tedeschi che avevano sfondato la linea Maginot scendevano verso le Alpi circondando i francesi costringendoli all’armistizio e così fu anche per noi.
Purtroppo
di morti ce ne sono stati tanti e quasi del tutto dimenticati perché gli
avvenimenti bellici successivi sono stati molto più sanguinosi.
Io
ero magazziniere e facevo la spola da Aosta al fronte trasportando i
rifornimenti necessari alle truppe. Un giorno che stavo rientrando con il camion
carico verso il nostro accampamento, mi vidi venire incontro un grosso gruppo di
alpini che erano in ritirata. Mi fecero pena e regalai loro tutte le sigarette
che avevo sul camion. Era mattina verso le 9, alle 11 arrivò il sergente
maggiore a prendere le razioni per la truppa ma ahimè di sigarette non ce
n’erano più. Mi portarono dal capitano e io ebbi un bel tentare di fargli
capire la situazione, la pena che mi avevano fatto quei poveretti, che le
sigarette in fondo erano per loro… Mi
diede 8 giorni di rigore sotto la
tenda. Dopo 2 giorni, per punizione mi mandarono di notte sotto il Piccolo San
Bernardo con un’autolettiga a raccogliere i feriti e i morti che erano
tantissimi.
Conclusa
la campagna sul fronte francese con il mio battaglione fui mandato in Jugoslavia
vicino a Fiume. Ci rimasi quasi 2 anni. Poco prima che iniziassero le partenze
per l’Africa, nel dicembre del ‘41, venni ricoverato a Trieste in
osservazione all’ospedale militare e poi destinato ai servizi sedentari: l’è
stà la me fortuna.”
“L’è
stà la me fortuna” che qui Arrigo dice per la prima volta è una frase che
ripeterà spesso nel corso della suo racconto.
“Ne
ho visto di cose facendo il militare a cominciare dagli attacchi insensati al
forte Traversette, come ho già detto, oltre agli ordini illogici che si
risolvevano in tragedie sulla nostra pelle.
Tornato
a casa, nel ’43 aprii un negozio di frutta e verdura in Via Mameli a Verona e
“l’è stà la me fortuna” perché guadagnai bene.
Nel
’44 realizzai il mio primo sogno: comprai una Balilla. Per sei mesi sono stato
l’unico in paese ad averla, poi i partigiani ne rifecero una per il dottor
Rensi e alla fine ne ebbe una anche Gino Micheloni, il famoso portiere del Milan.
A
un certo punto, per paura che la vettura mi venisse requisita, fui costretto a
nasconderla tra le cataste di legna nel magazzino di un mio amico.
In
quel posto preparammo anche un rifugio antiaereo che in questi giorni e riemerso
intatto dagli scavi che vi stanno facendo. Lo costruimmo con il cemento e la
ghiaia in 3 mesi . Era largo 2,50 con la forma di un tronco di cono, lo spessore
delle pareti di cemento armato era oltre un metro. Qualunque bomba fosse caduta
sarebbe stato difficile che lo centrasse in pieno e quindi sarebbe scivolata dal
tetto. Si trovava a quattro metri di profondità. Dalla cantina c’era uno
scivolo che portava al rifugio. In seguito anch’esso è diventato cantina.
Durante
la guerra il paese fu bombardato poche volte e la gente correva a rifugiarsi
nelle grotte della Musella. Ma dato che, sempre in Musella, c’era il comando
tedesco e a Campalto quello delle SS, furono invece micidiali i mitragliamenti
che capitavano all’improvviso.
Si
sa che durante la guerra, e per il sollievo appena essa finisce, si fanno le
cose più strane, noi eravamo una compagnia di 14-15 amici e quanto ci siamo
divertiti, quanti scherzi abbiamo e ci siamo fatti….eravamo i “play boy”
di San Martino…
Però
bisognava anche lavorare e così, verso la fine del ’45, io e un mio carissimo
amico prendemmo in affitto lo storico negozio di tessuti di Giannino Andreis che
si trovava in Via XX settembre, appena passata Piazza Napoleone, andando verso
la Chiesa, e lo trasformammo in
gelateria. Per la verità anche il proprietario della famosa ditta Bonvicini di
Piazza Brà era interessato all’affare per lo stesso scopo. Io ero presente
mentre la faccenda si stava trattando e, partito il concorrente, feci la nostra
offerta che fu accettata. Così vendetti l’amata Balilla per comprare il
bancone di lavorazione. Andammo a Verona per imparare un po’ il mestiere che
non è difficile, è sufficiente aver visto il procedimento un paio di volte e
poi fa tutto la macchina. Il segreto sta tutto nell’usare delle buone materie
prime.
Fu
un grande successo: appena finita la guerra c’era solo il già nominato
Bonvicini che vendeva gelati e quindi molti venivano da noi anche dalla città.
Visto
che l’idea era stata fortunata, decisi di aprire un bar. Così presi in affitto
i locali vicino alla gelateria, proprio in piazza Napoleone, nella storica Casa
Avesani, e li trasformai in quello che ancora adesso qualcuno chiama bar
Castagna. Al giorno d’oggi che di bar in paese ce ne sono tanti la mia idea può
sembrare non particolarmente originale, ma allora a San Martino c’erano solo
osterie e lo storico caffè Peretti aveva un suo tipo di clientela, come
l’altrettanto storico caffè Roma. Io al mio locale avevo dato un’impronta moderna, da città, perché allora,
che non c’era ancora l’autostrada, esso era quasi un punto obbligato di
fermata per chi veniva dal Piemonte o dalla Lombardia e andava verso Est e
viceversa. Cercavo di avere i prodotti migliori perché anche i clienti più
importanti fossero sempre soddisfatti. Molti di questi viaggiatori col tempo
diventavano clienti fissi, amici, in un certo senso occasioni per me di fare
affari. Più tardi il bar diventò anche il punto di incontro di appassionati di
automobilismo ma specialmente di calcio.
Nel
’49 io e mia moglie, eravamo appena sposati, andammo per un mese a Verona a
imparare a far i pasticceri da un bravo maestro.
Ero
sempre in cerca dell’idea che mi permettesse di entrare veramente in affari ma
fino ad allora non l’avevo trovata. Andavo per tentativi.
Con
un altro amico comprammo una macchina per fare il torrone, ma il risultato non
era quello che mi aspettavo. Passammo alle caramelle ma anche queste non erano
niente di speciale. Avevamo un grossista che distribuiva il nostro prodotto ma
si trattava di un vivacchiare senza particolare soddisfazione. I
miei soci persero fiducia e mi lasciarono solo.
Io non mi arresi perché il mio carattere è tale che quando mi impunto su una cosa ci vado in fondo a qualsiasi costo, nessuno può starmi dietro. Prova e riprova, dopo molti tentativi falliti, perfezionai una ricetta per preparare dei savoiardi. Facevo tutto da solo: preparavo la pasta, poi la disponevo con la tasca sulle piastre e le mettevo in un fornetto da mezzo metro cubo. Era un lavoraccio, dormivo al massimo 2, 3 ore per notte. Mettevo il prodotto in latte da due chili e portavo tutto al grossista. Pensa e ripensa trovai quella che mi pareva una soluzione per non ammazzarmi di fatica. Mi feci preparare dal noto lattoniere Strapparava una cinquantina di stampi rettangolari cuocevo la pasta e la tagliavo come biscottini. La soluzione però non mi andava ancora bene. Così, tornato dallo stesso artigiano, feci fare una cinquantina di stampi da due etti e mezzo con la medesima ricetta e usando il solito fornetto, preparai delle tortine. Così è nato il famoso dolce San Martino.
Come
cominciai ad avere successo? Nei primi tempi, dopo aver acquistato a Zevio una
gerla, la riempivo delle scatole del tortino e andavo in bicicletta a venderlo
nei negozi dei comuni vicini. Poi passai al Motom, un motorino di quei tempi, e,
verso la fine del ’49, comprai una Topolino.
Consegnavo
la merce specialmente di notte, per evitare il dazio che allora era una tassa
piuttosto pesante e si sarebbe mangiato quasi tutto il guadagno. Percorrevo
centinaia di chilometri e la mattina, dopo che avevo viaggiato tutte quelle ore,
ero al tavolino del mio bar e leggevo il giornale: “Eccoli i siori! ! Che poca
voja de lavorar che el g’à quel’omo!” . Diceva chi passava.
Un
giorno, con la macchina carica di confezioni di tortino anche sul portabagagli,
me ne andai in Brianza. Entravo nei negozi e tutti mi guardavano con diffidenza:
non vendevo niente. Alla fine decisi di offrire il prodotto in omaggio alle
clienti dei vari esercenti. Tornai a casa senza una lira di guadagno e con la
macchina vuota. Dopo una settimana era tutta una valanga di ordini. Il prodotto
era buono, ben confezionato e si conservava a lungo, tutti lo volevano. Invasi l’Italia del centro –nord, mandavo vagoni di merce perfino in Sardegna.
Iniziai
a ingrandirmi, acquistai un’impastatrice, un forno più grande,
successivamente cominciai ad assumere operai
che, col tempo, arrivarono a una ventina e facevano anche tre turni per
notte. Poi le impastatrici diventarono tre, c’erano due grandi forni da tre
metri, e un locale apposito in cui le donne incartavano il prodotto. Mi rivolsi
a una ditta in Toscana per avere un bell’imballaggio che fosse anche il
migliore per la conservazione del prodotto. Era una confezione raffinata.
Studiai anche una campagna pubblicitaria con cartelloni per le strade e filmati
anche nei cinematografi. Nelle varie città avevo i miei rappresentanti a cui
davo la macchina. Avevo 15 macchine che venivano a rifornirsi del dolce. Insomma
una bella impresa.
Nel
’60 decisi di smettere di fare il tortino, c’era troppa concorrenza,
lavorare così non mi interessava più. Passai a un’altra attività.
A
Cellore di Illasi c’era un modesto forno per il pane: il forno Dal Colle.
Commissionai
loro la confezione del mio Pandoro San Martino che cominciai a vendere nel
Triveneto e nella Lombardia. L’è stà la me fortuna. Facevo affari d’oro.
Anche il bar serviva per vendere il prodotto. A Natale certe grosse ditte mi
commissionavano migliaia di pezzi. Dal Colle, che vendeva pandori per conto suo,
ad un certo punto acquistò un forno a catena lungo una ventina di metri e se è
diventata la ditta che è, credo lo deva anche alla spinta che gli ha dato la
mia iniziativa. Ho servito per un anno anche la famosa ditta
di autogrill Pavesi. Con Dal Colle ho lavorato dieci anni.
Un’altra
attività che portai avanti assieme al lavoro, e che per me era un piacere, sono
state le corse automobilistiche.
Ho
sempre amato le macchine, guidarle mi dava molta soddisfazione, solo per lavoro,
come ho detto, ho fatto migliaia di chilometri.
Ero
buon amico del concessionario Fiat Garonzi e per lui, tanta era la mia passione
per quell’ambiente, a volte andavo a Brescia dove la Fiat aveva il deposito a
prelevare con amici le vetture che volevano acquistare. Quando era a corto di
liquidi, mi è capitato anche di dargli una mano!!!
Ho
avuto tante belle automobili che prendevo per il piacere di conoscerle e
guidarle, poi le rivendevo. A questo proposito ricordo un buffo episodio. A
Treviso avevo comprato una
Fiat 1400 cabriolet verde scuro che era appartenuta a un conte locale e, quando
con questa macchina mi recavo in quella città per affari, la gente al mio
passare mi salutava cerimoniosamente:” Buon giorno sior conte..” In fondo
era vero: io ero il conte Cavazzocca!!!
Decisi
a un certo punto, visto che di strada ne avevo macinata tanta, che potevo
provare a fare qualche gara automobilistica. Pensai di tentare di correre non con una vettura di grossa cilindrata, ma con una 1100 che era la macchina che avevo acquistato a quel tempo. La categoria 1100 era la più numerosa perché il mezzo non costava molto, e, in proporzione, dava soddisfazione. In corsa partivamo in trenta, anche in quaranta piloti. Correva tutto il Triveneto e conservo con soddisfazione il diploma che mi consegnarono per essere arrivato secondo nel 1955 nel Campionato Triveneto automobilistico di velocità.
Il diploma. Foto: Castagna Arrigo.
Ho
sempre corso con la Fiat 1100 e ho sostituito la prima con un altro modello la
TV2. Quando vendetti a un appassionato la macchina che aveva fatto le Mille
Miglia, ci feci un discreto guadagno.
Se
la vettura era costata un milione di quei tempi, farla preparare me ne costò quasi la metà e soltanto per
fare l’alesaggio dei cilindri e altri interventi sul motore dei quali ogni
tecnico teneva segreti i particolari. Per un po’ andai da un professionista di
Genova: Giannini che mi preparò un motore che da 120 Km/h passò a 180 Km/h.
Poi, informandomi dai colleghi di categoria, la portai a Chiavari da Sante
spendevo di meno e ottenevo un risultato migliore. Una volta la macchina me la
preparò il capo officina della Fiat. E’ interessante osservare che nel nostro
ambiente non c’erano segreti ma molto cameratismo, ci si aiutava l’un
l’altro con consigli e informazioni. Poi in corsa si scatenava lo spirito
sportivo e la voglia di vincere era molto forte. Ci si conosceva tutti nei pregi
e nei difetti e mi faceva piacere constatare che ero temuto e ammirato.
Mi
sentivo particolarmente portato per le corse in salita. La Trento Bondone nel
‘55 ad esempio, l’ho fatta con 61 Km all’ora di media, al secondo ho dato
40’ di distacco e il record della gara, per quella categoria, è ancora mio.
Una settimana prima delle gare mi recavo sul posto con la macchina assieme al solito gruppo di affezionati amici/tifosi e facevo le prove del percorso. Non c’erano sponsor, non c’erano ingaggi, i premi erano simbolici. Per esempio nella cronoscalata delle Torricelle, una gara in salita di 2Km, per due anni nel ‘54 e nel ’55 sono arrivato secondo: una volta per due e l’altra per cinque secondi e un premio che mi ricordo è stato una marmitta. Poco, come si vede, ma quando si arriva a un certo punto, si vuole vincere e non interessa altro.
Foto: Castagna Arrigo. 28 marzo 1954 seconda cronoscalata della Toricelle su Fiat 1100/103.
Ho
corso anche all’estero in Austria e in Svizzera.
Con
la scuderia veronese Cangrande, di cui nel ’55 sono stato anche presidente,
gare ne ho fatte un bel po’. In pista ho vinto a Modena e a Monza. In quella
occasione sono stato vicino ad avere un ingaggio da una grande squadra.
L’offerta me la fece il patron della Zagato, una 750 di cilindrata, che mi
voleva nella sua squadra. Mi avrebbe dato la macchina, soldi pochi, ma se ci
fossero stati risultati avrei potuto avere un ingaggio lusinghiero. Per onestà
rinunciai: avevo 40 anni, correvo
per divertirmi ma sentivo che era giusto lasciar posto ai giovani. Io avevo
anche gli affari da seguire e un lavoro che mi prendeva un bel po’ di tempo.
Tra
le gare che ricordo con piacere
c’è il trofeo Stella alpina che si svolgeva a Trento
in cui sono arrivato secondo. Si trattava di cinque gare che si
svolgevano in otto giorni: una bella faticaccia e tensione nervosa notevole.
Foto Archivio: Castagna Arrigo. 25-28 Agosto 1955 IX edizione Trofeo Stella Alpina Cronometrista Roghi.
Altra
impresa che mi ha dato soddisfazione è stata quella di disputare due Mille
Miglia.
Un
giorno parlando con un amico in piazza Brà lui se ne uscì con un' idea:
“Facciamo la Mille Miglia?”. Allora, nel ’53, la gara costava seicentomila
lire ma accettai la proposta. Eccomi nella prima fotografia,
assieme
al mio copilota Maran, alla partenza della XX Mille Miglia da viale
Rebuffoni alle 0.53 di notte. Nella seconda sono al passaggio e
rifornimento a Roma. Nella terza all’arrivo a
Brescia: mi sono
classificato 30° nella mia categoria.
Foto: Castagna Arrigo. assieme al mio copilota Maran, alla partenza della XX Mille Miglia da viale Rebuffoni alle 0.53 di notte.
Foto: Castagna Arrigo. passaggio e rifornimento a Roma.
Foto: Castagna Arrigo. all’arrivo a Brescia.
Nel
’54 nuova Mille Miglia: la prima parte della corsa fu esaltante perché da
Roma passai terzo con 108 km/h di
media. Poi, prima di Orvieto, mi dovetti ritirare per un guasto.
Gran
bella gara le Mille Miglia. Quando correvo io le strade di San Martino si
riempivano di gente e gli appassionati davanti al mio bar erano i più numerosi.
Se si pensa che si partiva da Brescia poco dopo la mezzanotte, fa piacere
ricordare che un paese ti aspettava alzato fino a tardi. Era tutta un’attesa
di: “Arriva Castagna”…. Gli esperti riuscivano a sentire il motore della
mia macchina nel silenzio della notte a chilometri di distanza.
Dicevano
poi gli amici quando ero in compagnia:” Ne hai fatto di strada da quando
venivi giù da San Bricio coi caretini!”.
Dopo
un tragico incidente nel 1957 le Mille Miglia vennero sospese. Nella
gara del ’54 accadde un fatto che poteva trasformarsi in tragedia.
Marimont,
un corridore brasiliano di F1 amico del grande Fangio, arrivato alla semicurva
prima della Piazzetta Napoleone che è estremamente traditrice, sbandò, girò
su se stesso, si capovolse, andò a sbattere contro la casa che era di fronte al
bar e la macchina prese fuoco. Lui uscì illeso e si formò una catena umana di
sanmartinesi che con secchi
d’acqua prelevati dal Fibbio e dalle fontane lì vicino, riuscirono a spegnere
l’incendio. Cosa sarebbe successo se la vettura fosse piombata tra i tifosi
che mi stavano aspettando?
Sono
i rischi di questo sport. Anch’io me la sono vista brutta in più di una
occasione in modo particolare una volta ad Asiago. C’era una curva a gomito in
cui sono arrivato troppo veloce, ho
sbattuto contro il muro, mi sono rovesciato e mi sono fermato poco prima di un
precipizio di 400 metri, sono venuti a tirarmi fuori. Non mi ero fatto quasi
niente. L’è stà la me fortuna.
Nell’automobilismo,
almeno allora, c’erano tante cose che non si potevano calcolare: persino il
tempo poteva giocare brutti scherzi.
Mi
ricordo che nel ’55 dovevo disputare la Bolzano Mendola. Decisi di partire con
le gomme così lisce che quasi si vedeva la tela in modo di scivolare meglio in
curva. Mi andò malissimo. Poco dopo l’inizio della corsa cominciò a piovere
a dirotto e io feci tutto il tragitto il più lentamente possibile.
Nella
mia carriera di corridore ho conosciuto tanti personaggi ma tre mi sono
rimasti impressi particolarmente. Uno è stato il conte Giannino Marzotto
vincitore assoluto con la Ferrari di due Mille miglia: nel ’50 e nel ’53.
Nella foto ci vedete a cena all’Olivo, in piazza Brà (da
sinistra il
famoso cronometrista veronese Plinio Antoniazzi, Oreste Castagnetti, il conte
Marzotto e il protagonista).
Foto: Castagna Arrigo. da sinistra il famoso cronometrista veronese Plinio Antoniazzi, Oreste Castagnetti, il conte Marzotto e il protagonista.
Altro
personaggio è stato lo sfortunato Giulio Cabianca. Per qualche anno aveva anche
abitato a San Martino dove aveva mantenuto rapporti di amicizia. Era un
corridore di piccole e medie cilindrate che aveva corso specialmente con la OSCA
1100 e 950 dei fratelli Maserati.
La sua vita finì tragicamente durante una gara quando uscì di pista e,
imboccata il cancello del circuito, disgraziatamente aperto, finito in strada,
si scontrò con un taxi e uccise tre persone.
Il
più divertente è stato Chiron. Campione di Francia correva con una fantastica
Bugatti e nella vita era il cuoco del Principe Ranieri di Monaco. Con lui pochi
discorsi di macchine, molti di gastronomia. “Un’insalata, per essere ben
fatta” mi confidava “deve essere mescolata almeno duecento volte”. Se lo
diceva lui…
Ma
la conoscenza più straordinaria la devo al mio amico, il ben tre volte campione
mondiale di motociclismo: Bruno Ruffo.
Un
giorno, eravamo nei primi anni ’50, Bruno disse a me e a un mio amico:
“Voglio portarvi in Emilia, c’è una fabbrica di motori che lavora bene,
andiamo a darci un’occhiata”. Accogliemmo l’invito con piacere. Ed eccoci
nella fabbrica a girare, a curiosare, a provare, a informarci. Ad un
certo punto arrivò il proprietario un bell’uomo alto e imponente assieme a un
altro signore di piccola statura e cominciammo a parlare naturalmente di
macchine e motori e lui a spiegarci a discutere con passione. Più tardi mi fu
presentato: era Enzo Ferrari, e l’altro l’ingegner Massimino capo della
scuderia. Allora Ferrari non ancora il mito che divenne in seguito, ma una
persona con una preparazione straordinaria che mi lasciò colpito. Rimanemmo
amici e più di una volta mi offrì di comprare una sua automobile che a quei
tempi aveva un prezzo abbordabile, ma io ero affezionato alle Fiat. Mi mangerei
le mani…. Credo uno dei pochi affari in cui non ci ho visto giusto.
Ho
corso fino agli anni ’60. Alla fine degli anni ’60 ho ceduto il bar. Nel
‘74 ho venduto tutto e sono andato in pensione.
Mi
sono ritirato con mia moglie qui, ai Dossi alti, e con il mio amico, quello con
cui avevo intrapreso l’affare della gelateria, ci siamo costruite due case
vicine, ci vivo ormai da trent’anni. Il posto, quando lo abbiamo comperato era
spoglio, c’erano si e no tre alberi. Nel corso degli anni lo abbiamo
rimboscato ed è diventato un luogo che noi
giudichiamo bellissimo e nel quale
trascorro la maggior parte del mio tempo.
Foto Anna Solati 2005. Casa Arrigo Castagna - Dossi alti.
Un
momento di grande ansia per me è stato quando l’anno scorso, a 90 anni, ho
dovuto fare il rinnovo della patente. Se non me lo avessero concesso mi sarei
comperato un Sulki: senza macchina, lo avrete capito, non posso stare. La m’è
‘ndà ben. L’è stà la me fortuna.”
A
cura di
Anna Solati - ottobre 2005 |