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Dal Bosco Gino, Partigiano

internato a Mauthausen.

 

a cura di Anna Solati

 

Fino a quando Gino Dal Bosco era in vita questa storia  non ha mai potuto essere scritta.

Gino, infatti, era troppo modesto e schivo per raccontarsi; inoltre i ricordi gli facevano ancora troppo male per poterne parlare.

 

Era uscito dal suo riserbo solo tre volte: la prima in una intervista a cura di Roberto Brangian su INFORMANOVA nordest del marzo-aprile 1995, la seconda quando nel 2003  fu premiato con il Martino d’oro, la terza in un memorabile incontro con gli alunni della scuola Media “Berto Barbarani” di San Martino Buon Albergo. In quella occasione, forse la presenza di tanti ragazzi commossi, lo indusse a “sciogliersi” e a raccontare particolari poco conosciuti anche alla sua famiglia.

La moglie Odilla ci dice: “Anche con me che gli stavo assieme da più di sessanta anni, e sento ancora sulla spalla la mano con cui si appoggiava quando uscivamo, era avaro di particolari perché si commuoveva fino alla lacrime.”

Purtroppo l’anno scorso Gino ci ha lasciati così ora, assieme alla compagna di una vita, tentiamo di ricostruire il percorso che lo ha portato al campo di sterminio di Mauthausen.

 

“... Le nostre famiglie -prosegue Odilla- sono di San Martino e da sempre sono state di sinistra. Mia madre faceva la sarta e la vedete al centro della famosa foto del laboratorio dei fratelli Belli (ved. Belli Giovanni e Luigi), poco prima della prima guerra mondiale." 

 

Non sapeva ancora, poveretta, che poco dopo il marito sarebbe stato fatto prigioniero sull’altipiano di Asiago e mandato prigioniero in Austria a Mauthausen.

 

 

 

Foto: Dal Bosco. Prigioniero in Austria a Mauthausen.

 

A quei tempi il luogo non era ancora il campo di sterminio che divenne in seguito, ma anche allora non si scherzava e tornò dalla guerra molto provato.

Per i reduci, e lui aveva fatto anche la guerra di Libia, c’era la possibilità di essere assunti in ferrovia e così fu, ma il posto se lo tenne per poco perché, non avendo la tessera del partito fascista, fu licenziato e andò a fare il facchino. Era un uomo coraggioso e fermo nelle sue idee.

"... Mio marito era nato nel 1914. In famiglia, oltre a lui, c’erano altri tre fratelli di cui uno, Mario è morto in Russia. La madre mancò molto presto, a 29 anni, in un secondo tempo il padre, che faceva il muratore, si risposò per avere una mano ad allevare i figli.

 

In quegli anni a San Martino c’era un parroco che era veramente il fulcro di tutte le attività, parlo di don Ambrosini, che fu l’animatore di iniziative di cui troviamo traccia ancora adesso, come il teatro che qualche anno fa è stato intitolato a don Peroni. Una sua creatura fu il gruppo degli scout che raccoglieva tutti i ragazzi del paese: tra loro c’è anche il piccolo Gino che è il secondo a destra in quarta fila.

 

Foto, Dal Bosco.

 

 

Quando il fascismo prese il potere, agli scout venne fatta una guerra durissima con botte e lancio di sassi e il parroco fu costretto a rinunciare all’iniziativa. Per molti ragazzi fu una delusione pesante che in qualche modo li segnò per sempre.

A vent’anni, nel 1934, Gino fu chiamato di leva e assegnato al 3° reggimento di cavalleria con sede a Milano.

 

 

Foto, Dal Bosco.

 

Invece di restare sotto le armi 18 mesi ci rimase più di due anni perché, essendo scoppiata la guerra in Africa, il suo reggimento fu messo in preallarme, poi non se ne fece niente. Mi raccontava che al reggimento riunito in Piazza del Duomo il famoso cardinale Schuster aveva detto tutto ispirato: “Vi preparate ad andare in Abissinia per civilizzare quella popolazione barbara”.

 

Lui, che era già abituato a pensare con la sua testa perché il regime non lo aveva rimbambito, dentro di sé diceva: “Da quando in qua la civiltà si porta con le armi?” Infatti si è visto cosa è stato fatto in quel disgraziato paese.

 

Il militare non lo fece inutilmente perché il suo tenente, che aveva capito di che pasta era fatto, riuscì a istruirlo non solo nell’uso delle armi, ma anche ad approfondirlo politicamente. Così quando nel ’36, anche se era cominciata la guerra in Spagna, fu congedato, tornato a casa si iscrisse al partito comunista clandestino.

 

All’inizio degli anni ’40 ci fidanzammo, oltre al volerci bene ci univano anche le stesse idee politiche e i rischi che correvamo non ci facevano paura. Lui lavorava alle officine Galtarossa  dove tra gli operai cominciava a sorgere una consistente opposizione al regime. Purtroppo nel ’43 in un grave incidente perse una gamba.

L’operazione fu drastica e dopo di essa  il chirurgo ci volle parlare, quasi come un padre. A lui disse: “Ricordati che la gamba che hai perso la sentirai sempre. Preparati anche a questo tormento.” E infatti fino alla fine, specialmente di notte, provava dolori atroci a quel pezzo di arto che aveva perduto e il letto tremava per le sue sofferenze. A me disse: “Tu sei giovane, (avevo 21 anni) pensaci bene al futuro che ti aspetta se resterai con lui” .

 

Naturalmente noi continuammo.

 

Gli fu applicata una protesi di legno che pesava 10 chili e un po’ alla volta ricominciò a camminare e la vita in qualche modo riprese.

Poco dopo successe il disastro. Una mattina del settembre del ’44 arrivarono a casa mia le zie di Gino chiedendo se lui era da noi, perché mancava dal mezzogiorno precedente. Sembrava sparito, ma c’era chi aveva visto.

 

Proprio quasi davanti alla farmacia Nicolis, in via XX settembre, gli si era affiancata una macchina e due personaggi ne erano scesi e l’avevano trascinato con loro. Questo ci disse il dottor Bruno che era stato testimone del fatto.

 

Qualcuno lo aveva denunciato per le sue attività di comunista clandestino. Assieme a lui, in quel periodo sparirono dal paese altri che ebbero la sua stessa sorte. Alcuni sono tornati, altri sono rimasti laggiù.”

A questo punto ho chiesto a Odilla se Gino era riuscito a sapere chi era l’autore della spiata, e lei mi ha risposto che, tornato a casa, non aveva voluto sapere niente di più. E lei Odilla? Lei sì che aveva prudentemente fatto tutte le sue indagini. A suo dire non era riuscita a sapere niente. Ma ha anche concluso: “ Tanto sono robe vecchie, ormai sono morti tutti.”

 

Riprende a raccontare: “... A quel tempo lavoravo a Verona e ogni giorno in bicicletta partivo la mattina, tornavo a mezzogiorno a mangiare a casa, preferivo fare quella fatica per un piatto di minestra ben fatto, poi di nuovo andata e ritorno. Le zie di Gino erano anziane e l’unica che poteva cercarlo ero io. Forse ero incosciente, certo gli volevo molto bene.

 

Così prima mi recai al comando del fascio in via Scrimiari a supplicare notizie da un compaesano. Lui mi disse che Gino non era lì, ma, stranamente, mi supplicò per il mio (e il suo?) bene di non farmi più vedere. Allora in bicicletta mi recai al teatro Romano dove c’era la sede…e dove fu torturato e ucciso il colonnello Fincato. Ricordo un particolare forse inutile, ma per me pauroso in quel momento: un’enorme catena che chiudeva il cancello con un altrettanto grosso lucchetto. Anche lì di Gino non sapeva niente nessuno.

 

Però un’amica che abitava vicino al Teatro Romano mi raccontò che lo aveva visto spinto da una camicia nera verso lo stabilimento Mondadori che allora si trovava poco lontano vicino alla chiesa di San Nazzaro. Lo avevano portato lì perché riconoscesse e denunciasse altri sovversivi come lui, ma non ha parlato.

Ormai era passata una settimana, non sapevo più a che santo votarmi, se non andare nella bocca del leone e cioè alla sede della Ghestapo in corso Porta Nuova nel palazzo che poi divenne sede dell’INA.

 

Il sarto Dalla Riva, generosamente mi diede la scusa per farlo: aveva confezionato un cappotto per il comandante tedesco e mi offrì di portarglielo. Sarebbe stato compito mio cercare di sapere più che potevo. Altro viaggio in bicicletta a Verona. Arrivata sul posto chiesi di parlare con l’interprete che era una donna, le feci vedere il cappotto e intanto le raccontai del mio “cugino” sparito.

 

Così quando comparve il comandante per pagarmi, ricordo aveva una caramella all’occhio sinistro, lei riferì le mie preoccupazioni. Cortesemente lui andò ad informarsi e tornato mi disse che non erano stati i tedeschi a catturarlo, “ma le tue  sporche camicie nere” che poi lo avevano consegnato a loro e proprio quella mattina era partito per Bolzano: però quella non sarebbe stata sua la destinazione finale.

 

Allora capii che qualcuno durante le mie ricerche aveva mentito. Lo salutai sconvolta e mi avviai verso l’uscita quando lui mi richiamò indietro, immaginate la mia paura, mi vedevo già arrestata, invece mi chiese cortesemente con che mezzo ero venuta a portargli il cappotto e saputo che avevo fatto tutta quella strada, mi ringraziò per la premura e la fatica.

 

Mi è capitato spesso di chiedermi se la gentilezza di quel rigido nazista fosse stata dovuta al fatto che prevedeva a cosa il mio “cugino” sarebbe andato incontro, per cui aveva provato pietà per noi. Così Gino sparì dalla nostra vita e non ricevemmo mai più sue notizie.

Quello che da quel momento gli è capitato sono riuscita a metterlo insieme nelle rare occasioni che ci raccontava qualcosa.

 

A Bolzano si trovava il campo di smistamento dei prigionieri catturati in Italia. Da lì, ai primi di ottobre, con un viaggio di quattro giorni in vagoni blindati assieme ad altri compagni e in condizioni disumane, furono trasferiti a Mauthausen.

 

Arrivato al Lager fu mandato in una zona del campo chiamata “campo russo” perché inizialmente ci stavano prigionieri di quella nazionalità.

Il giorno dopo fu privato di tutto quello che possedeva, anche la gamba che gli permetteva di camminare. Da allora si mosse solo saltellando e appoggiandosi a qualche compagno fino a quando un prigioniero russo moribondo gli regalò il suo bastone. Gli fu consegnata una casacca a strisce contrassegnata da un triangolo rosso che indicava i prigionieri politici e gli marchiarono sul braccio il numero 110454.

 

Da quel momento non era più una persona, ma un numero e bisognava ricordare bene come si pronunciava in tedesco perché doveva essere gridato forte ogni mattina e ogni sera all’adunata nel grande piazzale. Mi raccontava che questo era un primo modo che usavano i loro torturatori per togliere ad un uomo la sua personalità, la coscienza della sua esistenza come individuo: erano numeri, solo numeri.

 

Fu portato dal barbiere del campo per essere rasato in tutto il corpo e lì comparve un tenue raggio di sole perché l’uomo, un francese, gli chiese in italiano dove fosse arrivato l’esercito russo e saputo che era ormai a Budapest, commentò: “Speriamo arrivino presto prima che ci ammazzino tutti.”

Scoprì così che nel campo esisteva un’organizzazione clandestina che cercava di lottare come poteva contro i tedeschi: erano riusciti a costruire anche una radio.  

 

 

Foto, Dal Bosco.

 

 

Dell’organizzazione facevano parte anche alcuni italiani che in più di un’occasione lo aiutarono a salvare la vita.

I prigionieri erano alloggiati in baracche che in origine dovevano contenere 150 persone ma invece ci stavano in più di 300. Se uno usciva per qualche necessità corporale rischiava di non trovare più posto ed essere cacciato a morire fuori al freddo. Allora bisognava che si sistemasse per terra nel corridoio tra le brande perché lottare per i propri “diritti”  poteva essere mortale. Chi aveva più forze per un po’ poteva farla da padrone,  poi la fame livellava tutti.

 

Nella baracca non c’era il riscaldamento ma, visto che in una  branda si ammassavano sempre in tre o quattro persone con una sola sbrindellata coperta militare per coprirsi, riuscivano a sopravvivere al freddo notturno di quell’inverno gelido del ’44--’45.

La mattina venivano condotti nelle baracche dove dovevano lavarsi, naturalmente nudi e senza asciugamano. Può sembrare grottesco, vista la fine a cui  tutti erano destinati  presto o tardi, ma i tedeschi alla pulizia dei prigionieri tenevano in modo maniacale.

 

Le razioni del vitto erano al limite della sopravvivenza: la mattina una specie di the fatto con qualche foglia di tiglio, ma almeno era tiepido; a mezzogiorno mangiavano una specie di zuppa di rape, cattiva e puzzolente, ma calda, in un certo senso sterilizzata,  e quindi  non rischiavano di ammalarsi di dissenteria. (Mai più, tornato a casa, ho potuto cucinare un qualsiasi ortaggio che lontanamente assomigliasse ad una rapa.)

La sera portavano una fettina di pane di spessore variabile a seconda che, a causa dei bombardamenti,  le provviste arrivassero al campo o no.

(Era partito da casa un bell’uomo robusto di quasi 80 chili e tornò che ne pesava 42. La cura era durata appena 7 mesi!!!)

A Mauthausen tutti dovevano lavorare, perché come era scritto sulla porta di un altro terribile campo di sterminio, Auschwitz, “Il lavoro rende liberi”. In un certo senso era vero: di “quel” lavoro si moriva e la morte, in certe condizioni è vera libertà. Nelle vicinanze del campo c’erano delle cave e una ripida scalinata di 186 scalini per andarci. A volte i guardiani facevano precipitare con una spinta i prigionieri che sembravano più malandati, ma anche quelli più in forze: era un divertimento vederli sfracellarsi sul fondo. Così finì il suo compaesano Caburlon.

Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate…” da: Danubio di Claudio Magris.

 

A causa della sua menomazione, fu assegnato a un lavoro sedentario: faceva tappeti con strisce di tessuti sotto a una tettoia, quasi al riparo dalle intemperie, ma non dal freddo che fino a marzo sfiorò i –30°. Dopo che era tornato a casa per anni ci siamo chiesti perché i tedeschi, che uccidevano così facilmente i deboli, lo abbiano risparmiato.

 

I capi dell’organizzazione segreta interna fecero sempre di tutto per aiutarlo, probabilmente  in loro che lo vedevano così umiliato nella sua menomazione, ma sempre sereno, suscitava un forte istinto di protezione. Quando una qualche soffiata  informava che in quella baracca o sezione di lavoro ci sarebbe stata una retata omicida, veniva trasferito in un altro settore, anche nell’ultimo giorno gli salvarono la vita.

 

Gino ricordava in particolare il professor Fassani che dirigeva l’Ospedale Maggiore di Milano.  Era stato arrestato per sbaglio ma non era più stato rimesso in libertà perché a Mauthausen era stato testimone di troppi orrori. Egli aveva una certa libertà nel campo perché aveva operato la figlia di un capitano delle SS che si trovava nel campo salvandola dalla peritonite. Il professore veniva spesso nella sua baracca a portare un po’ di cibo ad un amico, l’ingegner Mezzani, che quando era libero lavorava alla Breda ed era sospettato di rifornire di armi i partigiani della Valtellina. Un po’ di quel cibo arrivava anche lui.

 

Una persona notevole era anche il capo italiano della resistenza interna, un tal Boldrini di Siena, che aveva avuto una vita avventurosa. Inviato dal Partito Comunista in Spagna come commissario politico e fatto prigioniero, visto che parlava correttamente 4 lingue, era stato ritenuto Spagnolo, e questo faceva la differenza, perché gli spagnoli che erano incaricati di andare a ritirare il cibo del campo alla stazione riuscivano a trattarsi meglio degli altri.

 

Un altro compagno lo proteggeva, un triestino che si chiamava Antonio Gigli. Anche lui aveva fatto la guerra civile in Spagna combattendo con le brigate internazionali, quelle cioè che difendevano il legittimo governo repubblicano contro i ribelli fascisti del generale Franco.

 

Catturato dai tedeschi, era finito come prigioniero politico a Mauthausen. Anche lui era uno dei capi della resistenza interna. 

La morte poteva arrivare in tanti modi: con il lavoro massacrante nelle cave di pietra, con sadici e inutili esperimenti medici, per inedia, nelle camere a gas, con fucilazioni in massa, con l’impiccagione, tenendo i prigionieri per ore sotto docce gelate fino a che il cuore non si fermava per ipotermia, infine qualche disperato si gettava volontariamente contro i reticolati dell’alta tensione che recintavano il campo.

 

A Mauthausen morirono in circa centoventiduemila e solo di quarantamila si conosce l’identità. Massacri ne ha visti tanti!

Ogni settimana avveniva quello che i prigionieri chiamavano il “trasporto”. Le SS con i loro feroci cani lupo circondavano i prigionieri nudi radunati nel grande piazzale del campo. Un ufficiale si aggirava tra  di loro e segnava con un gesso blu i più malconci. I disgraziati venivano condotti alle “docce” che in realtà erano camere a gas. I cadaveri erano poi bruciati nel forno crematorio da cui si alzava un lugubre e puzzolente fumo. Erano i prigionieri ebrei ad essere incaricati di quest’ultima parte.

 

Specialmente verso la fine della guerra nel marzo la ferocia dei tedeschi si intensificò.

Una notte arrivarono le SS con i soliti cani lupo, urlando fecero sgombrare le prime tre baracche e le riempirono di soldati e ufficiali della Werhmacht che avevano le mani legate strette con filo di ferro. Pochi giorni dopo ritornarono e li massacrarono tutti con raffiche di mitragliatrice.

Durante il loro ripiegamento lasciarono a Mauthausen circa 700 ragazzini ebrei tra i 12 e i 16 anni  spaventosamente denutriti. Quando ai primi di maggio arrivarono gli americani ne erano sopravvissuti poco più di cinquanta. Con un ponte aereo li trasferirono immediatamente in Svizzera.

Alla fine del marzo del ’45 i tedeschi che si ritiravano avevano avuto l’ordine di distruggere gli incartamenti del campo ed eliminare tutti i prigionieri che non potevano portarsi dietro. Così una mattina Gino si accorse che tutti i russi del campo erano spariti. Pensò che se ne fossero andati con le SS. Purtroppo più tardi scopri che erano stati tutti eliminati!!

 

E venne anche il momento più terribile e pericoloso per lui.

 

Il 30 Marzo tutti gli internati ancora vivi furono riuniti nel cortile del lager e suddivisi per nazionalità. Ad un certo punto si avvicinò al gruppo degli italiani Boldrini assieme ad un kapò: parlavano concitati. Boldrini era riuscito ad accordarsi per salvare qualche vita dal massacro. Preso da una parte Gigli gli disse che i numeri che sarebbero stati chiamati avrebbero dovuto uscire subito dalla fila e ritirarsi nella baracca. I numeri furono tre, uno era quello di Gino. Gli altri italiani non li rivide più.

Già da marzo gli aerei americani avevano cominciato a sorvolare il Lager lanciando manifestini che esortavano i prigionieri a resistere perché la liberazione era imminente. Eppure Mauthausen fu l’ultimo campo che venne liberato. Gli americani della 11 divisione corazzata entrarono nel campo soltanto il 5 maggio, dopo che i tedeschi erano scappati il 27 Aprile e avevano lasciato come sorveglianti dei vecchi soldati austriaci.

Nel Lager era rimasto il deposito degli oggetti che erano stati tolti ai prigionieri e Gino tanto cercò che ritrovò la sua pesante gamba di legno massiccio e finalmente fu in grado di tornare a camminare un po’ meglio.

 

Anche in quella occasione gli italiani erano stati praticamente abbandonati. Nel caos della liberazione di loro e del loro ritorno sembrava che nessuno volesse occuparsi. Per fortuna a capo dell’ospedale che era stato subito istallato, c’era un colonnello i cui genitori erano di origine bolognese di cui parlava benissimo il dialetto. Fu lui che si diede da fare e organizzò il rimpatrio di quei poveri sventurati che riuscirono a partire solo ai primi di giugno perché la linea ferroviaria tra Innsbruck e Bolzano era interrotta.

Noi a casa, come ho detto, notizie di Gino non ne avevamo mai avute, che fosse vivo o morto non si sapeva. Ma intanto i prigionieri tornavano e la speranza non ci abbandonava.

 

Quasi ogni giorno, quando andavo a Verona a lavorare, allungavo la strada ed andavo a Porta San Giorgio dove erano esposti gli elenchi dei prigionieri che venivano rimpatriati, ma il suo nome non c’era mai.

 

Finché una mattina che in bicicletta andavo a lavorare ho visto spuntare dalla finestra del trenino una faccia che sembrava la sua. Forse era il desiderio che fosse lui perché quel disgraziato era pelle e ossa. Ma tornai indietro alla fermata e lentamente lo vidi scendere e lo riconobbi dalla sua camminata, quella con la quale per anni mi ha accompagnato per le strade del nostro paese.

 

Esternamente mostrava un viso dolce e pacato ma gli orrori di Mauthausen Gino li aveva scritti prima di tutto sul corpo: la schiena era tutta una cicatrice, il segno del gatto a nove code con cui i prigionieri erano picchiati per la minima mancanza. Però le vere ferite che non si rimarginarono più erano quelle dello spirito. Di notte dormiva pochissimo, tormentato dai dolori della gamba che non c’era e dai ricordi dolorosi. Ma quando lo vedevo improvvisamente con gli occhi lucidi sapevo che pensava  non a qualcosa che avevano fatto a lui.

 

A Mauthausen c’era un disgraziato ragazzino, preso prigioniero per sbaglio, e che non era del tutto normale. Sapeva dire soltanto. “Mi son triestin”. Quella povera creatura, fino a quando non morì per le torture subite, veniva violentato selvaggiamente ogni notte e ripagato con un pezzetto di pane.

 

Per Gino era insopportabile che la crudeltà fosse rivolta ad un essere umano fragile, privo di qualsiasi difesa e incapace di rendersi conto del perché proprio lui doveva essere trattato peggio delle bestie.

 

Negli anni quando si appartava in silenzio sicuramente faceva suoi i pensieri che Primo Levi aveva scritto in Sommersi e Salvati: “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no non trovi trasgressioni palesi, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?),non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…) non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere…E’ una supposizione, ma rode, si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.”

Poco prima di morire, il 2 giugno del 2006, Gino ebbe la  grande soddisfazione di essere insignito del titolo di Cavaliere al merito della Repubblica era il numero 9585, questa volta un numero che faceva piacere ricordare. Ricordo che la notizia ci arrivò che eravamo in montagna e quel giorno fu gran festa tra tutti i villeggianti.

 

 

 

Pochi giorni dopo ripartimmo per tornare a casa ma nel viaggio Gino, di solito sempre allegro e positivo era stranamente taciturno.

 

Ero preoccupata, quello non era il suo solito modo di fare. Per consolarmi pensavo che stesse riflettendo sulla gioia per l’onorificenza e sulle tragiche ragioni per cui gliela avevano conferita. Purtroppo durante la notte si manifestò il male che dopo poco ce lo portò via.

 

Quel tristissimo Natale la sua pergamena siamo andati a ritirarla io e mio figlio.”

 

ottobre 2007 - a cura di Anna Solati.