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Donini Ferrari Isa   

a cura di Matilde Alonzo Compri

 

 

   

 Isa non era particolarmente alta di statura, aveva una massa di capelli castano rossi che pettinava con sciolta noncuranza, per cui, qualche volta, una ciocca ribelle le ricadeva sulla fronte. La cosa più notevole di lei erano gli occhi che erano grandi, di un caldo marrone e fissavano l’interlocutore dritto in viso. Nel suo sguardo, sempre vivace, c’era attenzione, interesse, simpatia ma anche, se non era convinta, se era contrariata, c’erano i fulmini della sua scontentezza.

 

    Se si arrabbiava era sempre per poco, perché il suo temperamento, per quanto molto forte, non amava i malumori e lo scontento.

 

    Di lei ho due particolari ricordi. Il primo risale alla metà degli anni ’90 quando era andata in pensione da un paio di anni a causa della malattia per cui le era stata assegnata l’invalidità. La incontrai vicino a casa e con vivacità mi raccontò che la settimana prima nel reparto di oncologia dove era ormai molto conosciuta le avevano offerto una torta con 100 candeline, tante quante erano state fino ad allora le sue sedute di chemioterapia. E, sempre con lo stesso tono mi disse che, dato che aveva avuto un grosso infarto, girava con un congegno che la rendeva sempre rintracciabile qualora fosse stata male. “Basta, non sono più libera di muovermi come voglio.” Protestava allegra.

 

    Un altro ricordo, più recente, è dell’estate 2005. Da mesi il braccio destro era malato e le procurava sofferenze atroci ma lei si trovava nella sede dell’UTE per raccogliere le adesioni dei corsisti alle rappresentazioni areniane. Ricordo che diceva. “Non so se con questo braccio potrò andarci ed inerpicarmi su per quei gradini, ma farò tutto il possibile per non mancare a queste serate a cui tengo perché sono un po’ una mia creatura.”  Sapeva che il nuovo attacco della malattia era gravissimo, ma continuava le sue attività come se non fosse in pericolo di vita.

 

    Isa non faceva mistero delle sue condizioni di salute e il suo comportamento diceva agli iscritti all’UTE che bisognava superare i malanni giornalieri che l’età aggiunge col tempo perché la vita è sempre degna di essere vissuta e ogni giorno che viene lo dobbiamo guardare con la speranza che tutto migliori. Per questo ho scelto di scrivere di lei. Non tanto per quanto ha dato con la sua collaborazione costante alle iniziative dell’Università della terza età di cui è stata un punto di forza, quanto per la forza di cui ha dato un esempio nella sofferenza.

 

    La sua vita ce la racconterà lei stessa con brani tratti da: Una passeggiata nel tempo- Anno Accademico 2003-2004-; A cura di Matilde Alonzo Compri e Ancilla Mainente Zanderigo.

Due amiche: Matilde Alonzo Compri e Lina Zenato Furlani  ne tracceranno un breve e intenso profilo.

 

La casa.

            La casa in cui ho abitato fino al matrimonio sorgeva, pare, sui ruderi di un castello. Circondato da un fossato. Per questo era situata su un’altura, nel lato sinistro all’interno di una grande cascina che era il centro della conduzione e coordinamento delle attività lavorative della campagna.

    La struttura di tipo medievale era costituita da una vasta aia di cemento circondata da un’area di terra battuta e poi da alti portici, tipo mura di cinta, alternati alle case dei mandriani, e seguite dalle stalle delle mucche, dei buoi e dei vitelli, tutte sormontate dai fienili, dalle case dei “cavallanti”, vicine alle scuderie, dai pollai con sotto le “porcilaie”, dai “servizi” col buco tappato da un coperchio col manico di legno, tenuti disinfettati dalla creolina e dal cloro.

    I contadini vi avevano appeso ad una parete un cartello: “Non si dice di far centro, ma cercate di farla dentro”. A me era proibito entrarvi.

 

    La casa del “fattore”, (il gastaldo) e un locale adibito a magazzino (dei setacci, dei sacchi, delle corde, delle misure delle granaglie) con sopra il granaio, divideva “il rustico” dalla “casa padronale”, come veniva definita la mia casa.

    La cascina si raggiungeva attraverso due rampe di accesso, una dal lato dei rustici, e l’altra di fronte alla mia casa, chiuse, la sera da due robusti portoni, con grossi catenacci e con contrafforti di ferro agli angoli.

 

    La casa dei “Pivet” soprannome dei Donini che significa “nasuti” per i nasi aquilini di certi nonni, era stata costruita per accogliere famiglie patriarcali.

    La mia nonna paterna aveva vivi otto figli, due nonni, zii e zie non sposati, persone di servizio, balia. Poi, ad uno ad uno, se ne sono andati per il loro destino e siamo rimasti: papà Maurizio, mamma Bruna, tre figli (Linda, Isa, Mauro), una governante e due zie zitelle, una delle quali con una gamba paralizzata, che vedeva e sapeva di tutti stando seduta in poltrona davanti a casa sotto un ombrellone, facendo chilometri di pizzo al tombolo.

    

    La casa era disposta su due piani: sopra la parte notte, sotto la parte giorno separata da un ingresso/salotto. Si entrava da una porta bugnata con batacchi e borchie di ottone, in una bussola rettangolare, chiusa da una porta a vetri con le iniziali del nonno smerigliate.

    L’ingresso era un salone di dodici metri per cinque ( nel quale si tenevano anche feste o pranzi di cerimonia), che finiva con un’altra bussola e un’altra porta di rovere con gli ottoni che dava sul giardino, dove c’erano anche il recinto dei puledri a brado, l’orto ed il frutteto.

    

    Le zie occupavano l’ala sinistra della casa con tre stanze a piano terra, (meno una che era il nostro salotto buono in velluto verde, col pavimento in parquet, tendoni di seta color champagne, il pianoforte, e il mandolino, nell’angolo della musica, e la vetrinetta delle porcellane pregiate), e tre al piano di sopra: due stanze da letto ed una da bagno con lavabo e semicupio.

    Sempre nell’ala sinistra c’era la scala: prima quella antica, in pietra grigia con sotto un ripostiglio il cui catenaccio rumorosissimo si sentiva andar su e giù di notte. A noi bambini dicevano che erano le zie ad aprirlo perché non riuscivano a dormire. L’hanno fatto benedire dal curato, dall’arciprete e dal vescovo di Segni, che mi aveva battezzata, ma inutilmente! E’ stata rifatta la scala nuova ed eliminato il sottoscala e vi hanno trovato seppellito uno scheletro, che hanno attribuito a una contessa Arrivabene, uccisa da chissà chi.    

 

    Noi abitavamo l’ala destra in cui c’erano una sala da pranzo, una cucinona con grande focolare e cucina economica con la piastra di ghisa a tre fornelli con cerchi concentrici estraibili a seconda della misura della pentola.

    

    C’era poi una credenza e la scrivania in cui era custodita tutta la corrispondenza e la contabilità dell’azienda, dove, al sabato, venivano a prendere “la paga” i contadini giornalieri e quelli “salariati” a contratto misto: in natura e in denaro.

    

    Dalla cucina si scendevano due gradini e si entrava nel “Lavandino” dove troneggiava un grande lavandino di marmo, col rubinetto dell’acqua corrente proveniente da un pozzo.

    Mio papà aveva la passione di inventare marchingegni, per cui da sempre abbiamo avuto l’acqua in casa. Dal “lavandino” si accedeva scendendo  due gradini a ogni porta a due cantine: una per le botti di vino e l’altra per le bottiglie e le damigiane. Nel secondo locale, appesa al soffitto, per evitare i topi, c’era la “moscaiola” di legno e rete metallica sottile e, sul pavimento, la ghiacciaia a blocchi di ghiaccio, in cui venivano conservati i cibi e le carni fino agli anni ’40, quando arrivò il primo frigorifero “Westighause”, che venivano a vedere in processione come un fenomeno da baraccone. La stessa cosa si ripeté quando nel 1946, mio nonno, capomastro, ci costruì il primo bagno, completo e moderno tutto verdino e nero: era bellissimo! Ma dopo la Madonna Pellegrina, la cosa più eclatante, fu la nostra televisione, la prima in tutto il paese!

 

    La sera di “Lascia e raddoppia” la mia casa sembrava una sala cinematografica, tanta era la gente che ci pregava di poter vedere Mike! Mamma, che si era sposata a diciassette anni, amava la novità e le primizie, e papà pure. Era eclettico, correva in macchina con Nuvolari. (il mitico campione di automobilismo di formula 1) La nostra prima automobile fu una Ceirano rossa, seguita da una 121 e poi dall’Augusta e, dopo la guerra, la 124 con il cambio al volante. Quella la guidavo anch’io. Papà era un tipo che comprava i primi trattori, le prime pompe, i primi caloriferi, la prima trebbiatrice del mais e del frumento. Insomma era un innovatore, sempre proiettato nel futuro. Aveva il doppio degli anni di mia madre, ma non si notava.

 

    Tornando alla casa….Al piano superiore stava la parte notte: quattro stanze da letto grandi con camino, comodini con vasino da notte, lavabo e soffitto perlinato (percorso all’interno delle travi da una squadra di topi corridori che per tutta la notte facevano un chiasso infernale), una per i genitori, una per mio fratello, una per le ragazze, una, quella “rossa” per gli ospiti, con il quadro del Sacro Cuore che ti seguiva con gli occhi dappertutto, facendoti rabbrividire di paura. C’erano poi la stanzetta per le donne di servizio e il bagno. Un vasto ingresso dava sulle stanze.

    

    Durante la guerra la nostra casa è stata requisita, in parte, dai servizi segreti tedeschi, gente molto riservata ed educata, che odiava la guerra e amava la musica classica, nella vita erano un musicista, un ingegnere, un industriale e un ragazzino di quattordici anni arrivato per sbaglio, che si è dovuto fermare da noi perché l’hanno operato di appendicite e non sapeva dove andare.

In casa nostra erano sfollati il medico del paese (mio cugino) e due di Camerino. La tavola era per diciassette ogni giorno.

 

    Si faceva il pane, la pasta, si tostava di tutto per il caffè e si allevavano polli, tacchini, oche, anatre in quantità e ogni tanto si macellava un vitellone e godeva tutto il cortile.

 

    Dopo l’8 settembre, avevamo i tedeschi che si nascondevano in cantina per poi scappare e gli inglesi nascosti in soffitta. Tutti avevano paura.

    

    Gli inglesi erano scesi di notte, col paracadute, ed erano rimasti impigliati alla cima di un pino. Al mattino presto li abbiamo visti e con la scala li abbiamo recuperati. Li abbiamo aiutati tutti quanti a fuggire con le biciclette e con vestiti civili che si riusciva a reperire, perché c’erano i punti e le tessere per cibo e vestiti. Dopo qualche anno ci hanno contattato e restituito tutto. Solo il bambino, non è arrivato. E’ passato per Verona e qui l’hanno ucciso. Aveva diciassette anni.

 

    Tutto riprese poi l’aspetto di sempre, una cascina in cui ferve il lavoro agricolo con la sua vita di cortile, i suoi canti, le sue stalle, lo scartocciare del grano, il maniscalco, la trebbiatura e cosi via…. intorno alla casa padronale!

 

  acquerello su cartoncino - Caterina Compri

 

La nascita

            Un giorno afoso di metà luglio, su consiglio della levatrice, il luogo confortevole in cui mi trovavo da nove mesi si trasferì a Cremona, alla clinica Delle Rose dove vidi faticosamente e dopo un parto difficile e pericoloso, “la luce”.

 

    Non dev’essermi piaciuta, la luce, perché mi picchiarono sul sederino, mi scossero violentemente a testa in giù: “E’ morta”, dissero. Evidentemente non mi conoscevano ancora!

 

    Era passato il senso di soffocamento del cordone ombelicale avvolto intorno al mio collo e, con la mia voce, subito definita da soprano emisi un urlo liberatorio e piansi per tre giorni e tre notti ininterrottamente.

    Entrai in una casa in lutto dove la nonna Palmira stava piangendo la perdita di un figlio, caduto con la moto nella curva proprio davanti a casa. Era in licenza ed era vestito da militare.

 

    Lo so perché nel ’95, per far posto a mia madre nella cappella di famiglia, l’hanno riesumato, ed era ancora intatto; sotto la nuca ferita c’era un fazzoletto nel quale la madre aveva messo un ultimo messaggio d’amore: “Mio tesoro, invidio queste parole che ti staranno vicine per sempre.” Si chiamava Luigi. Decisero che il nascituro si sarebbe chiamato Luigi.

 

La prima espressione che notai sui visi della famiglia Donini (nonno, nonna, papà, due sorelle nubili: zia Maria e zia Ines, paralitica, e la donna di servizio) fu di disappunto. “E’ una femmina”, insomma facevo schifo! 

Mi chiamarono Maria Luisa, ma mi chiamarono “Gigi” fino a sei anni.

 

    Mia mamma aveva diciannove anni ed avevo una sorella di due anni, più bella e più buona di me.

    Suscitai subito scandalo in casa perché anziché esser legata come un salame dalla testa ai piedi, avevo solo la fascia dalle ascelle al bacino per tenere fermo una specie di moderno “pamper" fatto con una pezza rettangolare di lino con sopra un triangolo di cotone e spugna che si chiamava “ciripà” che veniva ripiegato coi tre lembi congiunti in vita, poi veniva piegato a sacchetto il rettangolo fissato alla fascia..

    La mia giovane madre asseriva che il bimbo doveva potersi muovere liberamente, mentre le cinque anziane impettite sentenziavano che avrei avuto le gambe storte. Bugia tradizionalistica! Non mi vennero le gambe storte.

 

    Crebbi succhiando il latte di una nostra mucca sana, dolcificato col miele delle nostre api. Veniva scremato e allungato con l’acqua e poi bollito a bagnomaria, in una pentola piena di bottigliette (recuperate vuote, e che reggevano la bollitura). Sono venuta a conoscenza di queste cose quando nacque mio fratello otto anni dopo. Veniva spesso Marina, la levatrice a medicare mia mamma.

I parenti portavano i capponi per rinforzare la puerpera.

 

    Quando nasce un bambino fanno sempre bollire delle pentole d’acqua. Perché? Marina mi spiegò che la prima ragione è quella di levarsi da torno le donne impiccione. Poi per sterilizzare i ferri del mestiere: forcipe e pinzette, da ultimo per lavare la puerpera e il bambino con acqua sterilizzata dalla bollitura.

    La mamma mi aveva spiegato (mostrandomi una foto arrivata da un parente emigrato in Australia) che, come i canguri portavano i bambini nel marsupio, così anche le mamme portano i bambini nella pancia. 

    Solo che le persone lo tenevano chiuso per non farlo cadere e bisognava aprire come una cerniera per farlo uscire. Era vero, tutte le signore che prima avevano la pancia….dopo avevano dei bambini legati come salami. Tutte le mamme in attesa sferruzzavano freneticamente golfini e scarpine di lana.

 

    Il mio certificato di nascita è un poema perché è Donini Maurizio che dichiara, come primo cittadino del comune, di aver ricevuto un tale di nome Maurizio Donini che dichiara di aver avuto una figlia…etc.etc.

   

L’infanzia.

           

    Ho passato i miei primi nove anni di vita in un piccolo mondo, una frazione di trecento anime: Bizzolano di Canneto sull’Oglio, (Mn).

    

    Già era piccolo il posto, ma il mio mondo era racchiuso in una cascina. In essa mi sono aperta alla vita gioiosa dell’infanzia. Ero una bimbetta esile, per inappetenza. Pranzare per me era una sofferenza. Se non finivo ciò che avevo nel piatto, dovevo restare a tavola, sorvegliata dalla tata fino alle tre di pomeriggio. Proprio quando tutti i bambini erano fuori a giocare nel cortile.

 

    Fingevo di cedere, mettevo tutti i bocconi in bocca, li masticavo e li conservavo nelle guance. Poi, una volta fuori, li passavo al cane Febo, quello che mi aveva insegnato a camminare mettendosi al mio fianco in modo che mi potessi aggrappare al suo pelo. Ci adoravamo!

   

    Non ero bella come mia sorella Linda, e neppure come mio fratello Mauro, ma avevo un musetto arguto, col nasino all’insù e le treccine in fuori con i fiocchetti. Ero talmente timida da sembrare a volte scontrosa. Mi ritraevo perché non avevo il coraggio di affrontare persone grandi o bambini nuovi. Era la mia mamma a dovermi fare accettare dai bambini. “La prendete a giocare con voi?”. Mi guardavano mentre mi nascondevo dietro a mia madre, ma poi mi accoglievano nel gruppo, dopo avermi fatto fare la prova di coraggio che consisteva nel passare attraverso il recinto dei puledri a brado. I cavalli saltavano, correvano, si alzavano sulle zampe posteriori e noi, incoscienti, passavamo di corsa da un’estremità all’altra senza che peraltro ci toccassero.

   

    Per fortuna, i puledri erano meno incoscienti di noi. Da quel momento fui una di loro. Con la differenza che i ragazzi del cortile correvano a piedi nudi ed erano sempre affamati, io no, per cui davo loro laute merende…. li facevo entrare di nascosto nel nostro frutteto a rubare la frutta. I miei lo sapevano, ma li lasciavano fare, purché prendessero solo quella matura. In cambio mi davano ruoli importanti nei giochi sull’aia.

    

    Loro erano sempre in cerca di cibo: prendevano le uova di uccello nei nidi, o quelle che alcune incaute galline ruspanti facevano fuori dal pollaio. Pescavano le rane nei fossi e nelle “seriole di irrigazione” e le mettevano in una calza, le pulivano e poi si mangiava la frittata con le rane cotta nelle lattine della conserva, su un fuoco acceso, tra due pietre, in campagna, coi rami detti “Secarole”.

 

    Altro che cibi di casa! A volte si facevano bollire le zucche, (ortaggi che i contadini, nel mantovano coltivano nei campi, in ogni pezzettino di terra libera, sulle “capezzagne” o sul terriccio delle concimaie e che tutti possono cogliere senza chiederlo). Mio marito, da piccolo andava anche a talpe, però non le mangiava, le spellava, ne faceva essiccare le pelli e poi le vendeva a venti centesimi l’una ai “Vescovatini” (ambulanti di Vescovato), per farne gli interni di pelliccia. Con venti centesimi si potevano comprare, dagli stessi ambulanti, le pere cotte o il gelato, in estate.

    

    Avevamo sempre i baffi viola per le more di gelso. I frutti erano per noi, le foglie per i bachi da seta.

Nelle tasche dei maschi c’era sempre di tutto: il coltellino pieghevole, la fionda, la corda, il fil di ferro, il carbone, le biglie, le figurine dei calciatori; io avevo il fazzoletto!

Sull’aia si facevano altri giochi: le corse coi cerchioni delle biciclette, saltavamo alla corda, si faceva il tiro alla fune, si giocava a terra sollevata, a bandiera, a figurine, a “picce”.

    

    I giocattoli ognuno se li faceva da sé, con l’aiuto dei più grandi o dei genitori: i carri armati coi rocchetti, palle con gomitoli avvolti negli elastici di camera d’aria, la trottola, il carrettino, che era il massimo per scendere a rotta di collo dalle discese, il mondo, disegnato in terra col carbone. Il gioco più frequente era a nascondino, detto “cip”, che era la parola che si diceva, una volta nascosti, per avvisare chi era sotto, che poteva cercare. In una cascina i nascondigli erano incredibilmente vari, tanto che dovevamo escludere i più lontani ed i più pericolosi ( come i fienili e le cataste di balle di paglia, nei cunicoli erano introvabili non soltanto gli aghi!).

    

    Chi stava “sotto” doveva rovistare tra i carri, le macchine agricole, i pilastri delle “barchesse”, sacchi, barili, mucchi di grano, assi appoggiate verticalmente al muro, le stalle. Poi arrivavano le mamme dal lavoro e chiamavano i loro figli.

    A turno i bimbi venivano immersi nel recipiente del bucato pieno d’acqua scaldata al sole del pomeriggio, detersi dal sudore, dall’odore di “freschino” e dal marrone dei piedi, asciugati e rivestiti dei panni freschi. Finito il rito del lavaggio e gettata l’acqua sudicia sul selciato davanti a casa, entravano, ricevevano la loro parte di cena ed uscivano di nuovo per consumare il cibo sul gradino verso il cortile, e per vedere il sole tramontare, con i suoi incredibili colori, dietro gli alberi di fico e il muro di cinta della casa padronale.

 

    In inverno poi andavano nella stalla, al caldo, per ascoltare le storie dei nonni, a volte terrificanti, quasi sempre istruttive (oltre a narrare i nonni facevano dei lavori di restauro delle cose, o comunque manuali e creativi che i giovani imparavano “de visu”).

 

    Io, quando si accendevano le luci nelle case, dovevo essere a casa, pulita e pettinata per la cena da consumarsi in silenzio: “Quando si mangia si tace”.

Non ho mai capito perché, forse perché papà voleva ascoltare il bollettino di guerra alla radio. A tavola, è bello, invece, raccontarci come si è trascorsa la giornata!

    

    La mattina si andava a scuola: due stanzoni, uno per l’asilo e l’altro per le elementari, una pluriclasse s’intende! I più piccoli nei primi banchi, gli altri dietro, in gradazione, nei banchi grossi verso il fondo. Quelli dietro si divertivano a intingere le treccine delle bambine nel calamaio per poi vedere l’effetto dell’inchiostro blu che diventa nero, sui collettini bianchi e… ridere a crepapelle, nonostante le sgridate della maestra.

    

    Io venivo derisa perché venivo a scuola accompagnata, ma poi venivo rispettata, perché suggerivo e passavo i compiti e le risoluzioni dei problemi.

    La maestra era bravissima, aveva frequentato la scuola della Montessori, ed è stata tra le prime ad usare il metodo globale. Niente aste, niente pagine di letterine in bella scrittura.

 

    Era una pluriclasse d’avanguardia. Io ho amato moltissimo la mia maestra, per ciò che era e per ciò che ha saputo darmi: il piacere di studiare per un domani migliore.


    C’era la guerra ed il presente non era roseo. Il sabato “fascista” piaceva a tutti i bambini perché si faceva ginnastica all’aperto, si cantava, si facevano giochi di movimento e non ci davano compiti. Avevo imparato ad andare in bicicletta e mi ero rotta il naso, che perse per sempre il suo aspetto civettuolo.

    La domenica si andava a Canneto, alle funzioni, e si ciucciava la liquirizia infilata nel limone. 

 

    Un giorno in cui le funzioni non c’erano, la mia amica Franca ed io, andammo a trovare una zia a dieci km di distanza, Non l’abbiamo fatta franca perché abbiamo forato e siamo tornate a piedi, arrivando a casa alle 20 e 30.

    Mio padre aveva gli occhi fuori dall’orbita: “A letto dritta senza cena!”, tuonò minaccioso. Tutti tacevano. Mangiai il doppio, perché mi portarono dei cibi sia zia Maria che la tata di mio fratello, quello scriteriato che continuava a chiedere, nel silenzio di tomba: “Ma Isa dov’è?” seminando il terrore nelle zie che dicevano le giaculatorie.

 

    Il venerdì Santo andavamo alla processione del “signore morto” che si trovava sul baldacchino, tirato da una vecchia cavalla, la Olga, che camminava a fatica e non si spaventava mai per nessun rumore imprevisto. Franca ed io eravamo vestite da angioletti come tutte le bimbe della prima Comunione. Per gioco, imitando uno scherzo fatto dai maschi ai puledri  per farli correre, abbiamo fatto annusare alla cavalla il pepe.

    Dopo due sbuffi si è imbizzarrita e ha rovesciato il “signore morto” nel Naviglio. Sconcerto, scompiglio…tutti i presenti, sgomenti, si sono chiesti, invano, quale segnale Iddio avesse voluto far loro pervenire con quel prodigio.

    Sorprese ed impaurite dal risultato abnorme dello scherzo, Franca ed io giurammo sulla nostra testa di mantenere il segreto… e nessuno seppe mai dare una risposta allo sconcertante quesito dei fedeli. Nessuno dubitò degli angioletti!

    

    D’estate, dopo la trebbiatura, si andava in montagna, a Cavalese, ma non mi divertivo come nel cortile di casa, anzi quando sentivo i campanacci delle mucche che tornavano la sera dal pascolo mi veniva da piangere per la malinconia e la noia.

    In quinta, la mia maestra ci aveva fatto imparare, quasi giocando l’analisi grammaticale e logica. Per chi voleva proseguire gli studi faceva ore straordinarie al pomeriggio per prepararci agli esami d’ammissione alla scuola ginnasiale o media. Così finì la mia infanzia con la scelta libera di proseguire gli studi. Questo comportò andare in collegio, interna, a Cremona per otto anni. 

   

acquerello su cartoncino - Caterina Compri

 

L’adolescenza.

    Ho trascorso la mia età più bella nel Collegio della Beata Vergine di Cremona nel quale veniva impartita una educazione per la vita oltre all’istruzione. Un liceo classico quotato e parificato. Otto anni lontana dai miei, che venivano a trovarmi in carrozza, una volta al mese, (avevano un bambino piccolo, l’azienda e… 35 Km da percorrere sotto le mitragliate).

    Ricordo il mio primo giorno di internato: dovevo sostenere l’esame d’ammissione. La mamma mi diede la valigia, un abbraccio accorato che ancora ricordo, un bacio intensissimo e poi senza voltarsi ha varcato il portone del collegio, forse piangeva  e non voleva farsi vedere da me. Mi sentii persa e sola per la prima volta guardando quella porta sprangata chiudersi tra me e il mondo esterno. Capii che per me cominciava una nuova esistenza, molto diversa dalla consueta.

 

    Mi sono aggrappata, come un naufrago alla zattera, al pensiero che, all’inizio della scuola, lì c’era anche mia sorella. Mi rasserenai, senz’altro Linda mi sarebbe stata vicina, ma… era una pia illusione, perché lei era nelle mezzane, io nelle piccole. Ci incontravamo a messa, nelle cerimonie ufficiali, in parlatorio, quando veniva a trovarci la nonna che abitava vicino al collegio. Mi portava il pan biscotto che mi piaceva tanto e la biancheria pulita.

 

    Quando passai nelle mezzane, Linda passo nelle Grandi; era così brava che aveva saltato due anni (aveva fatto la prima a cinque anni e poi la prima e la seconda liceo in un solo anno) e non siamo mai state insieme pur volendoci un bene immenso.

    

    Lei era bravissima, sempre tutti dieci e lode. Io un po’ meno, avevo quasi tutti sette e otto, e mi dicevano sempre: “Guarda tua sorella e impara”. Al primo cinque di mio fratello hanno cominciato a credere che non ero tanto male.

 

    Si andava a casa per Natale, per Pasqua e per le vacanze estive. Il primo trimestre non passava mai, tranne uno, quando il mio collegio è stato bombardato. Per qualche mese ho abitato dalla nonna e ho frequentato la scuola da esterna. Una parentesi bellissima e inaspettata.

 

    A una festa di compleanno di una compagna di scuola ho rivisto Antonio, (l’avevo visto per la prima volta nella chiesa di S. Pietro, dove lui frequentava l’oratorio e io andavo a messa con la nonna: Aveva qualcosa di speciale, secondo me, forse era già predestinato, poveretto!)

 

    Restaurarono il dormitorio e il refettorio e tornai in collegio come interna: io non vedevo l’ora di tornare a casa per le vacanze, in famiglia. Mi sembravano più carine anche le zie: ma purtroppo si partiva per la montagna, per la nostra salute. “Poverine, sempre chiuse là dentro, sono pallide….” E via per tutto il mese e più.

 

    Quando si tornava l’estate stava per finire. Da noi a fine agosto comincia la prima nebbiolina che dura tutto l’inverno fino a primavera inoltrata. Ci si divertiva la sera con gli amici che venivano a giocare a Mercante in fiera, a carte, a ballare, o meglio a imparare a ballare i nuovi balli.

    Quelli che studiavano erano tutti maschi, le ragazze andavano a lavorare nella fabbrica di bambole, “LA FURGA” tranne una: Franca, che però frequentava la scuola magistrale dalle Canossiane. Poi arrivava il primo ottobre e tutto ricominciava.

 

    In fondo sono stata bene in collegio. Sapevo trovare sempre i lati buoni anche di quella vita. Buone compagne, divertimento durante la ricreazione, ho imparato a vestirmi da sola, ad occuparmi delle mie cose, a fare il letto, a cantare, a ballare, a ricamare, a scrivere e a amare la lettura e la cultura. Ho imparato i veri principi della religione cristiana a ho capito il valore e la fortuna di avere fede.

 

    L’ordine delle mie suore era di stampo gesuitico: Sapevano dare una risposta a ogni quesito, senza essere cattedratiche o impositive. Chi ama la vita. L’ama in ogni luogo e in ogni momento: chi ama la libertà si sente libero anche se chiuso in collegio. In fondo era stata una mia scelta, e non mi sono mai pentita di averla fatta.                                                   .

    In estate dai quindici anni in poi, mi sono impuntata e sono andata al mare. La mia salute e il mio umore ne uscirono felicemente ristabiliti.

  

La giovinezza.

    Dopo la maturità ho fatto, da privatista, anche gli esami di abilitazione magistrale. Ho fatto qualche supplenza e poi mi sono iscritta alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere, all’Università Bocconi di Milano. Altro esame di ammissione e altri anni di studio profondo.

Durante l’estate andavo in Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Germania.

    Il piccolo mondo della mia frazione si è aperto ad una nuova concezione della vita: “Io sono solo una piccola parte di un universo che attende solo di essere scoperto, conosciuto e apprezzato”.

 

    Mi sono piaciute le lingue straniere, la letteratura, le persone che ho conosciuto nei vari paesi, i loro usi e costumi, la loro musica, i loro spettacoli.

La sete di cultura non si è mai saziata, dentro di me, e fin che avrò questa sete mi sentirò viva.

 

E Antonio?

 

    Per tutto il tempo dell’università ognuno ha seguito la sua strada, in città diverse, in facoltà diverse, con esigenze diverse,

 

    Lui si è preso due lauree e mezza e un diploma, ha fatto la scuola di sanità militare a Firenze, poi, per merito è diventato istruttore della Scuola di Sanità Militare. Io ho preso un diploma e una laurea e poi ci siamo ritrovati e, dopo vari eventi della nostra vita ci siamo sposati e abbiamo intrapreso un cammino insieme, ricco di soddisfazioni, di lavoro intenso di sacrifici, di amore vero, di interessi comuni…

    Abbiamo lavorato sodo, a Milano, in Marocco, di nuovo a Milano per costruire qualcosa di nostro, per i nostri figli.

 

    Siamo approdati, per scelta, a Verona, una città ideale per viverci, una città a dimensione umana, ricca di storia, d’arte, di risorse culturali e… attraversata dal fiume, elemento per noi indispensabile come lo erano stati l’Oglio, il Chiese, il Po. Siamo stati premiati dall’arrivo di due figlie che ci hanno dato soddisfazioni grandissime , non solo dal alto affettivo, ma anche come persone che hanno successo nel campo del lavoro e della loro vita famigliare .

E, come se non bastasse … sono delle buone madri, delle buone educatrici, nonostante tutto questo comporti sacrificio per chi lavora. Ci hanno dato due nipotine: Emma e Francesca che sono la nostra gioia.                                       


acquerello su cartoncino - Caterina Compri

 

La maturità, riflessioni.

    Secondo l’accezione comune, la maturità è il periodo della vita compreso tre la giovinezza e la vecchiaia, caratterizzato da un equilibrio tra gli apporti e le perdite subite dall’individuo sia dal punto di vista fisiologico, sia da quello psicologico. E’ il periodo in cui una persona raggiunge il suo completo sviluppo dando il meglio di se stessa: svolge un lavoro, si costruisce una famiglia, una casa, una vita di relazione, una discendenza, la possibilità di vivere una vita agiata, supportata da tutti gli strumenti domestici o professionali che possano alleggerire la fatica del lavoro. E’ dunque il periodo in cui  raggiunge il suo punto di perfezione. Poi arriva il pensionamento, la salute fa acqua, il fisico degrada, i capelli imbiancano, si perdono i genitori e altre persone care… insomma comincia la parabola discendente.

 

    Soltanto il cuore non invecchia, anzi, noi ci sentiamo ancora giovani, quasi dei ragazzi, dentro, ma l’involucro esterno, purtroppo, si è modificato e non si adegua più allo spirito interno, nonostante i restauri.

 

    E qui è il caso di riesaminare il termine maturità. Da questo momento gli viene da molti attribuito un valore negativo, perché riferito a un periodo di decadenza. Secondo me è un grande errore. Io sono ottimista e do un valore positivo e più ampio a questo termine. Più ampio perché la maturità, per me, comincia dalla nascita, quando tu bambino dopo nove mesi passati nel ventre materno sei maturo per schiuderti alla vita. Poi, a ogni fase della vita vieni definito “maturo”: al termine di ogni ciclo scolastico, maturo per guidare, per lavorare, per fare figli, se ti comporti secondo i canoni della società in cui vivi sei “una ragazza matura o una donna matura”.

 

Ora devo fare un altro esame di maturità, questa volta sul mio vissuto.

 

    Ho passato momenti belli e meno belli, ma in fondo ho avuto una buona esistenza: un’infanzia serena, (la guerra ero troppo piccola per prenderla sul serio, tutto mi divertiva a quel tempo), ho avuto una fanciullezza spensierata, un buon percorso culturale, un lavoro rispondente alle mie caratteristiche attitudinali che ho sempre svolto con gioia e che mi ha fatto provare piacere e la fortuna di formare per la vita attraverso il gioco e l’istruzione tanti cari bambini nella scuola.

 

    I fatti più dolorosi che hanno segnato la mia vita sono stati: l’incidente di Antonio, avvenuto prima del nostro matrimonio, nel quale ha perso la gamba destra, dopo breve tempo, la morte di mio papà, più tardi la notizia, come una mazzata, della presenza di un tumore maligno in una mia vertebra, con conseguente degenza in ospedale per un anno intero e lotta accanita per la sopravvivenza. Poi se n’è andata anche la mia meravigliosa mamma, ed è stato come tagliare, per la seconda volta, il cordone ombelicale che mi legava a lei. Quanto l’amavo e quanto mi manca ancora, ora capisco meglio le sue esigenze, perché le vivo in prima persona: Non sono stati uno scherzo nemmeno gli infarti di questi ultimi anni! Ma con la razionalità, la fede e una prorompente voglia di vivere sono, anzi siamo riusciti ad accettare tutte queste nuove realtà. Dico “siamo”, oltre a me, mio marito, le mie figlie, sempre disponibili in qualsiasi momento del giorno e della notte.

 

    Le figlie son parte del mio essere e mi fanno sentire molto importante. Pensate: se non ci fossi stata io, Isa, non ci sarebbero né le mie figlie, né le nipotine. Sono stata lo strumento, nelle mani di Dio, per la nascita di due famiglie e dei discendenti futuri. Ho contribuito a continuare la vita sulla terra, e ne sono felice!

    

    Mio marito, poi è il dono più bello che Dio potesse farmi su questa terra. Amo le sue molte qualità e anche i suoi difetti. Abbiamo abbracciato gli stessi interessi: lui cerca di seguire i miei e io i suoi e quarantacinque anni di matrimonio non hanno affievolito i nostri reciproci sentimenti, rispettosi della libertà e delle opinioni individuali: Abbiamo la fortuna di avere la Fede che ci sostiene e ci rende sereni di fronte alle avversità e la convinzione che la vita sia un dono prezioso di Dio e perciò degna di essere vissuta gioiosamente anche se si è modificato qualcosa del nostro essere o quello dei nostri cari.

 

    Ho dato uno sguardo al passato, ma non sto a soffermarmi tanto sui ricordi, non voglio nemmeno fare delle considerazioni se sia stato meglio allora o oggi, perché ogni periodo passato o presente è un tassello del puzzle della vita. Legarmi al passato sarebbe ammettere che ho ormai vissuto la mia vita. Io, invece, vivo nel presente, proiettata nel futuro, qualunque sia, e progetto, giorno per giorno la mia vita con nuove attività, oltre a quelle abituali, e sempre con nuovi interessi.

 

    Ho imparato a gioire delle piccole cose, di un sorriso, del piacere di stringere nella mia mano le manine di gomma piuma delle mie nipotine, del privilegio di avere accanto a me un compagno da amare, riamata, degli amici con cui fare una partitina a carte o una festicciola, una gita; gioisco anche di una sola telefonata per sapere come sto. Chi passa dalla mia casa mi trova sempre disponibile. Provo soddisfazione nel cucinare un piatto gustoso, nel cogliere la verdura nell’orto, come andare a uno spettacolo all’Arena, al Teatro Romano o nei cortili.

 

    Ma ciò che mi fa vivere meglio è frequentare l’Università della Terza Età, insieme ad amici che ritengo importanti e che mi fanno sentire utile e importante per loro. Vivo questa esperienza come docente, come corsista e come coordinatrice didattica. Sono ruoli molto impegnativi, ma mi piace svolgerli.

    Se i capelli imbiancano la parrucchiera provvede al mio colore originale, se le gambe pesano, vado più adagio o metto un tutore, se la memoria sgarra la esercito col laboratorio teatrale, con la chitarra, con il coro, la lettura, il computer…

    

    Ogni attività che riesco a svolgere è una fase ulteriore della maturità che si prolunga nel tempo futuro. Le digressioni allungano la linea della vita.

Se avessimo una vita piatta sarebbe una linea retta, corta da qui a qui, ma se facciamo una gita, una festa, iniziamo un’amicizia, un amore ecc. la linea diventa curva e quindi più lunga.

 

 

La malattia

    Da Poetando e Sognando con Berto Barbarani - Anno Accademico 2004-2005; a cura di Matilde Alonzo Compri.

 

Riflessioni personali alla lettura della poesia di Berto Barbarani. “El segreto de le fameje”.

 

….mi trovo in momenti difficili, ora, dopo 16 anni di lotta contro una malattia che quando ti assale, ti attanaglia, ti fa sentire in disgrazia, ti butta a terra. E non sei più efficiente come prima, non sei più simpatico e pronto a ridere e a fare il giullare: soprattutto non puoi più disporre di te, delle tue forze, delle tue mani, delle tue voglie di stare e di essere al mondo. La frustrazione più umiliante è quella di sentire venir meno le tue potenzialità di donna, di sposa, di madre, di nonna e di amica….

 

    Mi mancano quest’anno gli appuntamenti conviviali con gli amici, con l’Arena, con il Teatro Romano, con le mostre etc., anche se io voglio sempre, e sempre di più, sentirmi parte di questo mondo di amicizia e starci più che posso e al meglio. I volti di chi mi vuol bene, e le loro parole mi accendono una luce dentro che mi tiene compagnia anche quando fa buio.

 

    Ho perso l’uso della mano destra per cui non mi riesce non solo di scrivere e di suonare la mia cara chitarra, ma anche di tagliare la carta igienica. Ma la necessità aguzza l’ingegno e ho trovato un sistema strapp… originale e creativo. Così ogni giorno devo inventarmi sistemi di sopravvivenza in questo mio limbo di emergenza. Ed è questo il miracolo della moltiplicazione e dei pesci che si rinnova ogni giorno, un miracolo che si ripete con l’aiuto degli altri, di tutti quelli che mi sono vicini, che mi circondano di amore e di solidarietà.

    Ho una famiglia piena di attenzioni. Due figlie che ogni week end, con o senza bambini e mariti si fanno centinaia di chilometri, con disagio per le loro famiglie, per venire ad assistere entrambi i genitori. Entrambi perché mio marito che è sempre per me tutto quanto di disponibilità, affetto e sostegno, proprio in questo periodo è stato un mese in ospedale per un intervento di protesi all’unico ginocchio che ha.

 

    Questa concomitanza di difficoltà fisiche ci ha messo in crisi tutti quanti, ma ci sono le nipotine che mi fanno sentire una regina strabaciata, straccarezzata e stracoccolata. E poi fuori dalla porta, in lista di attesa, amici e persone generose che mi portano all’ospedale e mi aspettano anche per sette, otto ore con un panino, che mi fanno la spesa, vengono a dormire se sono sola, a lavarmi, a vestirmi, a cucirmi gli abiti intorno, a tagliarmi i cibi. E poi tanti colleghi che mi prestano la mano destra, con pazienza  e gioia, gioia di dare senza ricevere. Gente che si sente gratificata e felice solo per aiutarmi.

 

    E io, come potrei non sentirmi privilegiata, come potrei non essere grata al mio Creatore di avermi scelta per darmi il bene di queste esperienze?

 

Carissimi, se mi vedeste!

 

    Ho perso tutti i capelli e la mia testina è diventata come quella dei bambolotti di celluloide: ma al posto della cuffietta di pizzo, ho trovato una parrucchetta di taglio sbarazzino, alla moda, che mi dà un aspetto piacevole. E se non avessi un braccio rotto legato al collo fino alla vita, e le gambe che si gonfiano come le mortadelle del ristorante Michelin di Tregnago, e gli abiti da sbrendola e altre magagne, mi sentirei pronta per il mio consueto modo di vivere.

   

Il commiato

Isa Donini Ferrari 23/12/2006

Penso che attraverso le parole di Isa , possiamo cogliere l’inno alla vita che Lei aveva costruito in sé e che trasmetteva a tutti coloro che l’avvicinavano anche in questo ultimo periodo, nonostante la sofferenza. La sua testimonianza è un dono anche per tutti noi. Ascoltiamola.

 

“Ho la fortuna di aver la Fede che mi sostiene e mi rende sempre serena di fronte alle avversità e la convinzione che la vita sia un dono prezioso di Dio e perciò degna di essere vissuta gioiosamente anche se si è modificato qualcosa del nostro essere. Legarmi al passato, sarebbe ammettere che ormai ho vissuto la mia vita.

    Io, invece, vivo nel presente, proiettata nel futuro, qualunque sia, e progetto giorno per giorno la mia vita, con nuove attività, altre a quelle abituali e , sempre, con nuovi interessi.

    Ho imparato a gioire delle piccole cose, di un sorriso, del piacere di stringere nella mia mano le manine di gommapiuma delle mie nipotine, del privilegio di avere accanto a me un compagno da amare, riamata, degli amici con cui fare una partita a carte, una festicciola, una gita: gioisco anche di una sola telefonata per sapere come sto.

    Chi passa dalla mia casa, mi trova sempre disponibile: provo soddisfazione nel cucinare un piatto gustoso, come cogliere la verdura nell’orto.

    Ma ciò che mi fa vivere meglio è frequentare l’Università della terza età, insieme ad amici che ritengo importanti e che mi fanno sentire importante per loro.

    Se avessimo una vita piatta, sarebbe una linea retta corta da qui…a qui, ma se facciamo una gita, iniziamo un amore, un’amicizia, la linea diventa curva e quindi più lunga.

    Con queste tue riflessioni profonde e sentite, noi, carissima Isa, ti ringraziamo per essere stata un faro luminoso e ti ringraziamo. 

 

Matilde Alonzo Compri

 

A due anni di distanza

  Isa divenne socia del Movimento Culturale “San Martino” il 1 settembre del ’93, sei anni dopo che il Movimento era diventato Associazione.  Si è buttata subito a capofitto nell’organizzazione apportando idee fresche e nuove: ha fondato il nostro giornalino “La nostra Voce”, proposto gli “Incontri con l’autore”, contribuito alla programmazione di laboratori come Teatro, Chitarra, Coro, Disegno e Pittura, ai quali partecipava con gran passione.

    Per avere, nel ’94, il riconoscimento dalla Regione quale Università della Terza Età e del Tempo Disponibile, si richiedeva, fra le altre prerogative, un coordinatore didattico che fosse presente per almeno 100 ore annuali. Isa si è subito offerta ed ha portato avanti questo suo compito in modo eccezionale fino alla  morte.

    Con il suo contributo abbiamo potuto ampliare il numero delle proposte culturali definendo un calendario d’incontri sempre più ricco (attualmente abbiamo corsi e laboratori vari da Ottobre al Maggio successivo, tutti i giorni da Lunedì a Venerdì).

    Lei ed io abbiamo pensato di fare un vademecum tuttora esistente, in cui ci fossero orari e brevi illustrazioni delle varie attività ad uso dei soci. I primi numeri li abbiamo potuti ciclostilare noi due, presso la scuola media con la collaborazione della preside di allora, Maria Fabbri.

Abbiamo anche istituito una commissione per la programmazione coinvolgendo altri soci per evitare una visione unilaterale delle proposte culturali. 

 

    Quando nel 1996, il marito, dott. Antonio Ferrari, era da poco diventato presidente, il Movimento ha aderito alla FEDERUNI (Federazione Italiana delle Università della Terza Età), Isa ha partecipato come coordinatrice didattica (insieme a me come segretaria e al marito come presidente) alla maggior parte degli incontri di studio, convegni e congressi programmati dalla Federazione stessa: in questo modo abbiamo potuto confrontarci con le altre realtà esistenti portando il nostro contributo e migliorando le varie proposte educative.

 

Lina Zenato Furlani

 

   

 La professoressa Isa Donini ci ha lasciati nel Dicembre 2006. Oggi, nel 2008, sembra impossibile non vederla alle lezioni, dell’Università della Terza età, sempre precisa, esuberante, entusiasta, animatrice effervescente in ogni occasione: in teatro, esuberante, incrollabile, sfiziosa con i suoi vestiti adatti all’occasione, incurante degli acciacchi e degli imprevisti.

 

    Un folletto delle fiabe, si, un folletto che sbucava da ogni angolo, pronta a stupire, ad ammaliare con il sorriso, nonostante tutto, perché la vita, è la vita, un dono incommensurabile che va coccolato, amato teneramente, sorretto, colorato di simpatia, di audacia, di sorriso, affinché il dono viva anche al di là del viaggio, di un viaggio.

    La immagino, ancora oggi, lassù nel cielo rincorrendo le nuvole bianche e rosa per donarle ai suoi nipotini, per lanciare loro i raggi luminosi sulla terra, affinché possano sempre sognare, sorridere, essere luminosi qualsiasi sia il colore del cielo.

    Il ricordo che molti di noi abbiamo è significativo, perché va al di là della materia e se è così forte, significa che l’orma tracciata è stata fortemente impressa.

    Isa è entrata a far parte di un piccolo centro, come San Martino, con una grande Istituzione qual è l’Università della terza età che è in continua evoluzione e la sua figura sia sotto il profilo umano che

intellettuale resterà intatta e profonda nel tempo.

 

Matilde Alonzo Compri