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Grezzana Silvino

Prigioniero in Russia a Tambow

 

 

         Silvio Grezzana, detto Silvino, classe 1912, è un energico signore che non dimostra la sua età e quando racconta delle sue esperienze in Russia i suoi occhi azzurri diventano ancora più vivi e la sua voce bonaria si vela, a tratti, di commozione. Parla un vivace misto di italiano e sanmartinese che la pagina non può rendere, per questo trascriverò quasi tutto in lingua e purtroppo il racconto perderà molto del suo sapore.

 

Racconta: “Sono nato il 14 Agosto 1912, nella mia famiglia c’erano anche tre sorelle, la maggiore è morta giovane, poveretta.

Ho frequentato la scuola elementare, poi sono andato al  collegio vescovile, poca voja de studiar, me piasea solo la matematica, così  mi sono iscritto alla scuola di agraria: erano tre anni, alla fine, si diventava periti. Con quel diploma, dopo aver fatto un esame, avrei  potuto  far il corso di allievo ufficiale. Ma mio povero papà el ma tirà via prima che fasesse el terzo ano perché:  “El gh'e' n’a da far a casa.”

Allora i Grezzana erano dei latifondisti con più di mille campi. La fameia l’era grande: s’era in 13, gh’era anca me nona, così i due fratelli Luigi e Adolfo hanno comprato la Fracanzana  e i s’è divisi.  Io, come ho detto, ero  l’unico maschio dei figli,  e quindi c’era bisogno della mia collaborazione per mandare avanti la campagna, mentre mio padre faceva i afari.  Più tardi, purtroppo, mio padre per causa delle firme di avallo el sa mangià  fora quasi sinquesento campi. Per una volta non era stato prudente: si era fidato di una  grossa famiglia del paese con la quale avremmo dovuto imparentarci.

Fin da bambino ho sempre avuto la passione per le macchine e il loro funzionamento, questo mi è servito durante il servizio militare al fronte, ed ero proprio bravo. Ricordo che nell’Aprile del ’42, a Ricowo, mi  era arrivata la notizia che era nato mio figlio Luigi: avevo diritto ad andare a casa in licenza per un mese. Ma il mio comandante (Cucino)  mi ha detto: “Se parti chi è che va avanti con la macchina? Resta, che tanto tra poco andiamo a casa tutti.” (Come si sbagliava, poveretto!).

Facevo di tutto perché i nostri mezzi, poco adatti a quel clima e a quel fondo stradale, riuscissero a funzionare. Alcuni esempi:

 

Avevo sempre con me una cassetta con una quarantina di candele: alla temperatura che c’era da quelle parti (anche –40°) era indispensabile che fossero sempre pulite. Così ogni volta che capitavo in un’isba e c’era la stufa accesa le facevo arroventare, poi ci soffiavo sopra e lo sporco se ne andava, così mi assicuravo che funzionassero una per una.

Le strade (piste) russe non erano piane ma tutte  con  cunette più o meno profonde e se uno non ci stava attento un sobbalzo brusco e addio balestre. Io avevo osservato che il paraurti del Ford aveva la stessa larghezza delle nostre balestre così, quando queste si rompevano, con un cacciavite smontavo il paraurti, una sosta in officina per tagliarlo col seghetto a misura, ed ecco che la mia macchina era riparata e diventava cosi rigida che il Maggiore Cucino diceva: “Prendi su il “carro armato” e portami a ….”

 

Foto dal libro: Dalla Russia noi siamo tornati - Grafiche DUEGI.

 

Ma andiamo con ordine…

 

A San Martino, quando  avevo 14 anni, oltre a mio padre l’automobile ce l’avevano solo altri due compaesani.

La nostra macchina era una Ceirano, che poi sarebbe diventata la famosa ditta Alfa Romeo. Al lunedì mio padre andava a Verona al mercà col caval. Tuti i proprietari i vegnea dala campagna e i andava soto la Costa. Gli chiedevo:”Lavo la machina”  e lu: “si, si” e  partiva.

 

Ecco cosa facevo con tre miei amici: ci montavamo sopra e la guidavo lungo una stradina privata. Al ritorno loro cancellavano ogni traccia perché me papà l’era tremendo el guardava le impronte dei copertoni.  A casa poi la lavavamo come promesso. No gh'e' un furbo che no’ gh'e' ne sia uno più de lu.

 Così lavorando come agricoltore per mio papà è arrivato il 1932 quando ero di leva.

 Allora una legge permetteva a chi era figlio unico con tre sorelle, di fare solo il servizio premilitare. Si trattava di esercitazioni di marcia, saluto ecc. una cosa poco impegnativa, si svolgeva al sabato sera o la domenica mattina. Così non mi hanno richiamato per la guerra d’Africa, ma nel ’38 si, però subito dopo mi hanno messo  in congedo.

 Nel ’39 mi sono sposato.

Nello stesso anno  mi hanno  richiamato di nuovo e di nuovo spedito in congedo. Era tutto un avanti e indietro, ma ero sempre in grigio-verde.

Mi hanno chiamato definitivamente il 27 maggio 1940 e mandato al IV centro automobilistico aggregato all’8° Reggimento Artiglieria campale, Divisione Pasubio, facevo parte del reparto comando. La sede era la Caserma Passalacqua.

 

In Giugno ero al fronte in Francia l’è sta’  ‘na passeggiata. Il 6 Aprile 1941 i ma mandà in Jugoslavia, altra passeggiata. Dala Jugoslavia son tornà il 31 Maggio. Il 16 Luglio 1941 sono partito dall’Italia con il C.S.I.R (Corpo di Spedizione Italiano in Russia). Era il penultimo contingente della “Pasubio” inviato al fronte. Il treno ci ha portato fino a Elidesti, in Romania. Alla fine di Luglio, da Suclava dove si erano radunate tutte le unità  del C.S.I.R., l’8° reggimento è partito verso il fronte vero e proprio. Siamo arrivati sul Don, dopo diversi combattimenti, il 24 Agosto e lo ricordo precisamente perché  un amico della Mambrotta,  che apparteneva al reparto munizioni, quel giorno mi ha detto:” Noialtri semo qua con le scarsele piene de bombe e in Mambrota ancò i fa festa”.

In Russia il paesaggio è speciale, raccontarlo è difficile. Bisogna immaginarsi una distesa di campi di girasole come da qua a Vicenza, un cielo con dei colori che qua non ci sono, enormi fattorie: i Kolchoz, oppure non trovi neanche una casa lungo le piste che sono più o meno praticabili, piene di dossi e cunette profonde tanto lori i va in giro col careto e d’inverno con le slite. Ti resta dentro la nostalgia di tornarci. Ma quando  avrei potuto farlo c’era ancora l’obbligo di muoversi su percorsi obbligati, e ‘o lassà star.

Durante la guerra nel complesso o' fato la bela vita, l’è sta dopo in prigionia …..

 Avevo la macchina Fiat “mod.4” e con la machina la benzina e con la benzina potevo avere tutto quello che occorreva: il latte, le uova…..Parlavo abbastanza il russo, ero li da due anni. Quando potevo ‘navo a chiacchierare, dialogare, questionare,  scherzare.

Per ripararci dal freddo ci rifugiavamo nelle isbe russe dove ci trattavano  con gentilezza. Le donne russe, e lì c’erano solo loro, e i vecchi e i bambini, erano buone con noi perché sono così di natura e non hanno secondi fini. Qualche regalo lo accettavano volentieri ma anche senza niente ci avrebbero accolti nello stesso modo.

 

 Foto Grezzana. Fiat mod.4 

 

L’isba era un casetta di due stanze. Nell’entrata c’erano le bestie: mucche, galline che riscaldavano anche l’ambiente più interno, ma facevano una puzza che nei primi tempi trovavamo insopportabile. Poi, piuttosto di stare fuori a –30°, ci eravamo abituati. La gente viveva nella stanza più interna: si cucinava, si mangiava, ci si lavava, c’era una gran stufa con dei ripiani su cui si dormiva, altri riposavano per terra. La luce e la poca aria venivano solo da una finestrella  per non fare entrare il freddo. C’erano tantissimi pidocchi,  io allora non li ho presi perché le mie coperte erano sempre “profumate” di benzina o nafta che i russi non potevano sopportare. Col tempo però le donne, che avevano capito, avevano cominciato a chiedermi almeno la nafta per eliminare quei fastidiosi parassiti.

I nostri alleati: i tedeschi erano così diversi da noi che si faceva fatica a collaborare. Gli  abitanti del paese li odiavano perché molti erano prepotenti e crudeli.

Noi se avevamo bisogno di qualcosa: latte, uova, miele li ottenevamo con lo scambio delle merci, loro invece si prendevano quello che volevano, senza dire grazie e con la violenza.  Per esempio una notte che io e due commilitoni alto-atesini dormivamo in un’isba, era arrivato un carro armato e ne erano scesi due tedeschi che erano entrati e volevano cacciar fuori i padroni per starci loro. I miei due compagni, che capivano e parlavano  bene la lingua, dissero in tedesco che: o si mettevano lì con noi senza fare i prepotenti, o ci avremmo pensato noi: eravamo tre contro due! Per quella volta hanno calato le arie e si sono adattati.

Il nostro equipaggiamento era infimo a cominciare dalle scarpe che erano di cuoio, pessime quando la temperatura, se la va ben,  è –10°, ma la pol  arrivar a –35°, perché  se tra il collo dello scarpone e la calza entrava della neve o acqua eri già congelato. A differenza dei tedeschi, tutti ben attrezzati, solo qualche nostro ufficiale aveva la pelliccia, per noi c’era il pastrano.

Le macchine non erano adatte per quelle temperature; scoppiavano gli accumulatori: l’antigelo non serviva a niente.

Le armi poi…Basta pensare che nel dicembre del ’41, a Gorlowka, per poter sparare dovevano accendere il fuoco sotto i cannoni e i mortai perché il grasso che avevamo  diventava duro come il ghiaccio, le mitragliatrici si bloccavano. Una batteria della nostra divisione era chiamata “mitraglia” perché per favorire il rinculo del carrello ne scaldava i pattini con sacchi bagnati di acqua calda!! Così il suo volume di fuoco era il più potente. Fare l’autista da quelle parti era molto difficile perché, come ho detto, non c’erano strade, ma piste, i pochi e artigianali cartelli stradali venivano cambiati dai partigiani, mancavano i punti di riferimento, e il terreno era sottile, sottile, non c’era un sasso. Quando pioveva il fondo diventava melma viscida che si attaccava alle ruote e ti bloccava, se gelava o nevicava si trasformava in una lastra di ghiaccio. Non si poteva andare quando si voleva perché il padrone dei nostri movimenti era il tempo e la velocità media, quando si correva, non superava i 30 chilometri all’ora.

Io personalmente non ho mai sparato, ma sono stato molte volte sul Don: portavo i vari generali in prima linea, ad esempio il generale Messe, il comandante dell’ufficio tiro del C.S.I.R: Cucino, o gli osservatori di quell’ufficio.

Il Generale Messe lo ricordo con molta simpatia perché, anche se di poche parole, era una persona affabile e comprensiva. Una volta che lo stavo portando agli avamposti si è accorto che sotto la copertina del tettuccio  avevo legato un fucile russo a ripetizione.

Un altro al posto suo avrebbe sollevato un pandemonio. Lui, invece, tranquillamente mi ha chiesto a cosa mi serviva. Io che amavo la caccia gli ho risposto che lo utilizzavo per questa mia passione. Infatti non adoperavo il fucile di ordinanza perché avrei dovuto rendere conto del numero di proiettili che  usavo.

Forse perché condivideva i miei gusti, o semplicemente perché era un uomo intelligente, lui non ha detto altro.

Nella mia funzione di autista del comando ho corso più di un rischio. Ricordo quella volta che avevo portato proprio il maggiore Cucino nel punto più estremo delle nostre posizioni per un’ispezione del fronte, e quando con la massima attenzione avevo girato la macchina per andarmene il più nascostamente possibile, il bagliore dei vetri ci aveva rivelato al nemico che cominciò a tirare furiosamente con i mortai. Solo la mia “strategia” di guida ci portò in salvo.

Un’altra volta sono stato incaricato di guidare al fronte, sul Don, la compagnia Ravenna: si sapeva che quelle piste io le conoscevo meglio di tutti. Il rischio era grosso perché l’operazione veniva compiuta di notte e qualsiasi ricognitore poteva scoprirci e farci mitragliare. L’è ‘ndà ben par fortuna. Anche per questo ho avuto l’encomio.

 

Il Don non era tanto largo come corso d’ acqua, ma  perché non era drento negli argini. De note in prima linea i nostri fanti i andava de là dale done a farse dare el late. E le done certe volte le disea:” Doman non venire che ci sono i russi” .

Verso il 10 Dicembre del 1942 i me da'  la licenza, dovevo venire in Italia per conoscere mio figlio. Verso tuta la roba, anche i armamenti, verso la machina: bisognava che ciapasse el treno a Milerovo. Dal fronte dove eravamo, a Milerovo gh’era 60 chilometri. No l’era  distante ma bisognava farli. Volevo approfittare dei camion che andavano avanti e indrio dalle retrovie  ma i tornava sempre pieni de feridi. E speta ancò e speta doman l’è sucesso quel ch'e' sucesso.

            Mi trovavo con la mia divisione, la Pasubio, nella zona di Mallevani, a destra si trovava la divisione Sforzesca, a sinistra la 298° divisione tedesca. Ci sentivamo sicuri: gli alpini avevano scavato della ottime trincee, i discorsi di radio “scarpa” davano la vittoria ormai vicina!  Improvvisamente il 17 Dicembre sentiamo un rumore forte e continuo, i era i carri armati russi che i rivava. Il carro armato ci è che lo ferma? Cos’era successo? Il giorno prima i tedeschi, attaccati da parecchie centinaia di carri armati russi, avevano ceduto e il nemico stava facendo una conversione verso il sud per accerchiarci, mentre altri carri armati passavano attraverso le nostre linee, travolgendo tutto e proseguivano.

 

Eravamo al rompere le file e al si salvi chi può. I nostri comandanti, spariti con le macchine che avevano la benzina, forse per andar a dare ordini da altre parti, li ho rivisti solo quando sono tornato in Italia.

Con un gruppo di otto o dieci sbandati andavo per strada e ho visto dei civili russi che si nascondevano in un paiaro, par metarse al sicuro da tutti. Ho chiesto nella loro lingua dove era Milerovo e i m'a' dito: “Non andateci che ci sono già i nostri soldati e i partigiani.”

Camminavo senza sapere dov’ero, la temperatura era –35°. Da quelle parti, in quelle immense pianure senza strade ma solo con  piste malandate, in certi momenti c’è una  nebbiolina fitta, fitta, umida, umida, non gh'e' punti de riferimento tutto è piatto no se sa dove l’è el Nord  o el Sud. Ho incontrato un maggiore della Celere con tanto di bussola e carte militari  gli ho chiesto: ”Per piacere dove ela la direzione de Milerovo: Nord? Sud?” El ‘m'a' risposto :“Non capisso gnente”.

 

Ci trovavamo nella Valletta della morte per farsi un’idea della sua vastità, si immagini un’estensione grande almeno come il Veneto. L’hanno chiamata così perché da qualsiasi parte si andava ti sparavano addosso.

 Poco dopo ho incontrato un altro maggiore della Celere che aveva riunito 17/18 soldati di vari corpi, eravamo senza cibo ma ci diceva di resistere che i panzer tedeschi ce l’avrebbero portato. In quel momento non avevamo ancora ben capito che ormai speranze non ce n’erano più. Purtroppo non è arrivato niente. Stare riuniti in tanti era pericoloso, intorno fischiavano i proiettili dei parabellum.

 La mattina di Natale, visto che un po’ alla volta eravamo sempre di meno perché molti erano scappati, un sergente del nostro gruppo ha detto: “Maggiore siamo rimasti in pochissimi cosa facciamo?” e l’altro non si è neppure arrabbiato e ha risposto: “D’altra parte cosa vuoi che facciamo? Quei maledetti aspettano il Natale per ammazzarci tutti”.

 Mi no ghe ne podea più, disperato ho deciso de darme prigioniero. Con un amico semo andà via gaton gatoni. Abbiamo cominciato a vagare senza sapere dove si andava. A un certo punto abbiamo bussato alla porta di un’isba: c’erano dentro soldati russi che invece di venir fuori e prenderci ci hanno mandato una donna con un po’ d’acqua.

 Ci siamo consegnati ad Albusoka. Era di notte, avevamo freddo, avevamo fame, siamo entrati in una casa, avevo del sapone, avevo delle sigarette, le ho date al padrone perché andasse a chiamare le guardie per  farci prigionieri.

Ci hanno portati dove c’era lo starosta  poi degli ufficiali con un interprete ci hanno interrogato. Mi hanno chiesto che lavoro facevo a casa, cosa possedevo ecc. insomma tutto, e guai a non dire la verità, se un altro prigioniero ti avesse smentito rischiavi grosso. Mi hanno anche chiesto se ero fascista e io ho risposto di si. L’interprete allora mi ha detto “Perché gli altri hanno paura di ammetterlo e tu no?” E io: “Qua in Russia per vivere siete tutti compagni si o no? In Italia è la stessa cosa. Per esempio io e tanti giovani avevamo passion de andar al ballo e quando c’erano le feste nazionali c’erano i balli alla Gran Guardia e se podeva entrar se te pagavi el biglietto. Una volta che volea entrar i ma dito: “ No! Parché no te ghe la camicia nera e el distintivo.”

Ha capito che la nostra situazione non era diversa dalla loro.

Dopo l’interrogatorio mi hanno  detto: “ Va in quella direzione e troverai la colonna dei prigionieri.” Mi hanno lasciato libero, tanto dove potevo andare? E’ stata una cosa umiliante, per strada i ragazzini ti frugavano nelle tasche portandoti via le poche cose che avevi, ogni tanto trovavi un morto. Cammina, cammina siamo arrivati dove c’era un capannone. Ci hanno riuniti lì.

Poi è cominciata la marcia verso il treno che ci avrebbe portati al campo di prigionia. C’era un freddo terribile –30°. Eravamo equipaggiati malamente, senza riserve di cibo.

 

Non so per quanti giorni abbiamo camminato, praticamente senza mangiare. Lungo la strada c’erano ragazzi armati  che ci dicevano “Davai, davai”. Chi non ne poteva più  si sedeva nel freddo e nella neve per cercare di riprendere fiato. La colonna proseguiva passandogli attorno. Eravamo quasi irriconoscibili per la barba lunga e per gli stracci che ci mettevamo per coprirci la faccia e ripararci un poco, ma se un amico ti sorpassava sempre camminando ti esortava a parole ad alzarti, a resistere, ad andare. Quando la colonna era passata, chi non ce la faceva a riprendere la marcia veniva ammazzato a colpi di mitragliatrice dall’ultima guardia.

 

Più di una volta anch’io mi sono sdraiato sfinito per terra e così, per lettere ricevute in paese e per discorsi riferiti, mi hanno dato per morto, dato che da dove ero non potevo scrivere ….

Avevamo fame e sete e nelle vicinanze dei pochi centri abitati  qualcuno usciva dalla colonna per andare a prendere magari un po’ d’acqua o cercare qualcosa da mangiare, e voltava la schiena. Allora gli sparavano alle spalle perché potevano dire di aver sventato un tentativo di fuga. A me è successo il primo dell’anno del ’43. Mi sono visto preso di mira da un ragazzo e mi vedevo già morto. Invano lo supplicavo e lui diceva: ”Va,va” e dagli occhi capivo le sue intenzioni. Per fortuna è arrivato un soldato più anziano, gli ho fatto pietà, mi ha dato un colpo sulla spalla con il calcio del fucile e mi ha lasciato andare.

 

Di notte questa colonna di migliaia di persone si fermava dove capitava, in ripari di fortuna. La prima cosa da fare era togliersi le scarpe per evitare che l’umidità che vi era entrata, durante la notte ci congelasse i piedi. Anche disfare il nodo dei lacci era difficilissimo. Poi le mettevamo a scaldare sullo stomaco perché altrimenti alla mattina sarebbero state un blocco di ghiaccio, impossibili da indossare. Infatti chi le trovava gelate cercava di accendere un fuoco per scaldarle ma intervenivano i guardiani ordinando di partire, e non aspettavano, e le scarpe erano di cartone …. Infine ci mettevamo tutti addossati come un branco di pecore per ricavare da noi stessi tutto il possibile calore.

Non posso dire quanti giorni è durato il nostro andare: dieci giorni ? venti? Non sono stati i russi quelli che hanno fatto più morti in quella marcia infernale, ma la fame, la stanchezza, il gelo: c’erano dai –35° ai -40°. Siamo finalmente arrivati al treno, ma quanti j'e' restà indrio! …. Bisogna esarghe sta … bisogna esarghe sta...

 

Arrivati alla stazione da dove ci avrebbero fatti partire mi sentivo morire dalla sete e ho chiesto in russo a un macchinista un po’ d’acqua. Lui non mi ha risposto ma mi ha fatto cenno di andare vicino allo sfiato del vapore della macchina e con quello, bollente, che sapeva di olio e di tutto, mi ha riempito la gavetta. Non ho mai bevuto niente di più buono.

Il treno era un carro bestiame e io e uno di Milano, con un paio di forbici militari che mi erano restate, abbiamo rotto il grosso filo di ferro che teneva chiuse le porte per scappare ma vedendo che intorno c’erano solo foreste e cielo abbiamo rinunciato, ne semo diti: “Se te ve zo 'ndov'eto?  Almanco qua da qualche parte i ‘ne portarà.”

 

In viaggio ci hanno dato da mangiare qualcosa un paio di volte. Avevamo molta sete e c’era lotta per il possesso delle brocche di metallo infisse nelle pareti del treno perché su di loro si depositava come ghiaccio la condensa del vapor d’acqua.

Quando il treno si fermava in qualche stazione una guardia  russa apriva gli sportelloni dei vagoni  e chiedeva :”Skol’ko kaput? (Quanti morti?) Quanti malati?.” E faceva buttare i cadaveri sulla massicciata della ferrovia.  

Alla fine siamo arrivati al campo numero 58 a Tambow (1).  Era un Gulag vicino a un aereoporto destinato ai prigionieri politici, adesso ci stavamo noi. C’erano 74 bunker sotterranei, ci si entrava da una stradina in discesa, potevano ospitare do o tresento persone, una finestrella in alto dava un po’ di luce e aria all’ambiente. C’era un bunker destinato a lazzaretto dove si portavano i malati o meglio i moribondi. Intorno al campo c’erano garitte,  tralicci, filo spinato, molte guardie.  Appena arrivati ci hanno visitati e poi portati in un bagno per essere disinfettati. Abbiamo dovuto lasciare fuori gli indumenti e quando siamo usciti erano spariti,  rubati da altri prigionieri per essere usati come merce di scambio al bazar. Per poter trovare qualcosa da vestirse bisognava rangiarse. Quando uno moriva i suoi compagni di bunker prendevano dal mucchio de strasse quel che podeva servir : scarpe, vestiti, gavette, cucchiai, coperte… I più forti, poi, facevano la parte del leone. Il sostentamento dei vivi era dato dalla roba dei morti.

Per un certo periodo sono stato anche infermiere nel bunker lazzaretto. L’unica cosa che si poteva fare era cercare di far mangiare il malato con poco risultato, così la sua parte toccava a noi. Poi ogni infermiere portava un morto all’esterno, quando non era ancora rigido, perché altrimenti non ce l’avrebbe fatta a percorrere la salita che arrivava fuori dal bunker. Quante persone ho visto morire! Quando te capita ‘ste robe te diventi come un sasso, niente riese più a farte star mal.

 

Ogni mattina delle slitte passavano oltre che dal lazzaretto anche dai vari bunker e  anche qui raccoglievano i nudi cadaveri che erano stati portati all’esterno. Con il loro carico andavano all’ingresso principale e facevano cataste di 30 o più morti. Non posso dire di averlo visto con i miei occhi, ma si diceva che il loro destino era quello di finire in fosse comuni.

Nei bunker ci eravamo sistemati, per nostra scelta, per nazioni e i nostri  ufficiali,  i stava in un posto a parte tra di loro. Io, che per le mie mansioni al fronte, ghe ne conossea  tanti andavo sempre a catarli par parlar con lori. Un giorno i m'a' dito che a Tambow a gennaio eravamo 16.000 mila: tra italiani, tedeschi, romeni, e altre nazioni e a maggio s’era ridoti a 3.000 .

 

Non posso dire se le razioni di cibo che ci erano destinate fossero scarse o no perché alle cucine erano assegnati i Rumeni che spadroneggiavano servendosi abbondantemente e rifornendo i loro amici. Quel poco che ci arrivava era una brodaglia di pesce salato che era mangiabile se calda, ma il più delle volte arrivava fredda e il sapore diventava disgustoso. E sì che mi son sempre stà de boca bona. Così la si vomitava e poi veniva la dissenteria di cui moltissimi morivano.

Un'altra malattia terribile era il tifo e devo dire che i medici che c’erano no’ i se tirava indrio par curarte.

Più tardi un altro motivo di morte fu il fatto che le pareti dell’ intestino, a causa delle privazioni, erano talmente sottili che un cucchiaio di cibo in più bastava per forarle. E questo poteva capitare a chi, essendo in grado di fare un lavoro più specializzato, riceveva un trattamento migliore.

Nella Compagnia Comando della Divisione Pasubio a Verona eravamo 34, io sono l’unico che sono tornato.

 

Dato che in Russia c’è abbondanza di alberi dormivamo in “letti a castello” piuttosto particolari le cui impalcature erano tronchi aperti malamente col cuneo e ci si sdraiava su altri tronchi dello stesso tipo, niente materassi. Questi “letti” ‘i l’avea fati i prigionieri politici che ghe stava prima.

Quelli di noi che stavano meglio, si davano da fare per avere un po’ di tabacco o qualche boccone in più .

Alla mattina venivano i russi a chiedere manodopera per varie attività. Io ho fatto il contadino ma la fatica era tanta e il poco cibo in più che davano non la ricompensava.

Per un po’ ho fatto il meccanico in una officina il cui capo era un prigioniero rumeno. Quest’uomo, per farsi bello coi russi, era più carogna di loro. Il nostro lavoro consisteva nel prendere i pezzi sani dalle macchine danneggiate, metterli insieme per farne qualcuna di funzionante. Poi, come ho detto, ho fatto l’infermiere.

 

Anche in prigionia i tedeschi erano odiati per cui, siccome ho gli occhi azzurri, i capelli rossi (allora) e la pelle chiara, per evitare che i guardiani mi maltrattassero dovevo continuamente chiamare qualcuno che era scuro di capelli e di occhi ( per i russi sicuramente un italiano) per far loro capire che lo  ero  anch’io. A Tambow  siamo restati un anno.

 

In Russia i prigionieri ogni sei mesi cambiavano campo e così siamo ripartiti verso est e ci hanno mandati in Siberia.

 La situazione è migliorata: per esempio non stavamo più in bunker ma in casette di legno, anche le  guardie erano più gentili e comprensive. Siccome eravamo 40 italiani e il resto tedeschi, noi ci trattavano meglio e le donne della cucina ci allungavano sempre qualcosa di nascosto…io poi a volte venivo messo  a pelar patate …..

 

In ogni campo venivamo visitati e controllati e divisi in tre categorie: la prima era fatta di quelli adibiti a lavori pesanti, la terza era quella di quelli poco sani che  facevano il minimo. In Siberia sono stato in diversi posti e ho fatto diversi lavori.

 

Ad esempio in un campo ci occupavamo di ripescare dal fiume dei tronchi che venivano tagliati a monte:  con degli arpioni li catturavamo e li portavamo a riva con le barche e di lì alle segherie. Oltre a noi  prigionieri di guerra, c’erano anche dei detenuti politici tra i quali si trovavano anche delle donne che facevano il nostro stesso lavoro.

In un’altra località preparavamo i “bolognini”. Da noi si fanno con il cemento ma là non gh’è cemento e i le fasea impastando la terra con la paglia. Si ottenevano una specie di mattoni che loro adoperavano par far su le case. Alla mattina la guardia ci veniva a prendere, ci contava e poi partivamo uomini e donne per la “fabbrica”. Alla sera ci ricontava e ci riportava al dormitorio portando un “bolognino” per ciascuno. Se eravamo 50, altrettanti bolognini dovevano essere riportati. Questo controllo non era certo per noi che non avremmo saputo dove andare, ma per  i “politici”.

 

Foto dal libro: Dalla Russia noi siamo tornati.

Donne che preparano i mattoni - Grafiche DUEGI.

 

In un altro campo  sono stato messo nella terza categoria perché, dato che parlavo abbastanza bene il russo, ho raccontato che avevo il cuore e i polmoni mal mesi, i m'a' vardà un po’ storto ma i m'a' creduo. Credo che sia stato perché c’era una dottoressa, me par de vedarla ancora con i so’ ocialeti de lata, che mi aveva preso in simpatia. Eravamo in confidenza e lei mi chiedeva come era l’Italia, perché certe cose della nostra civiltà per un russo erano incredibili.

Figurarsi che per spostarsi da un paese all’altro dovevano chiedere il permesso al commissario politico! 

 

Il 1° Maggio del 1944, nuova partenza, . i n’à dito, che se ‘ndava a casa. Quando eravamo partiti da Tambow, e in tutti gli altri spostamenti, ci avevano detto la stessa cosa e anche questa volta siamo andati ancora verso est a Taskent nel Turkestan. Io l’avevo capito perché la dottoressa che era venuta a salutarci piangeva e quando gli ho chiesto il perché mi ha detto: “Qui vi proteggevo io, da adesso in poi non so come vi tratteranno”. Veniva da piangere anche a me.

Così i n’à imbarcà  in un carro bestiame che non avevo mai visto: a tre  piani, un corridoio che lo percorreva tutto, una finestrella in alto e la guardia che ci sorvegliava nel corridoio.

Taskent si trova sullo stesso parallelo della Sicilia, e, quando c’era bel tempo, si lavorava a petto nudo per il caldo, ma bastavano poche nuvole e veniva un freddo cane. In lontananza si vedeva la catena dell'Himalaya.

 

Sono stato impiegato a raccogliere  e a filare il cotone. Ogni prigioniero doveva ottenere un certo numero di corde di un peso determinato per fare la “norma” che ci permetteva di avere qualcosa da mangiare in più.

 

Se non ce la faceva non gli davano niente. Allora noi italiani, siamo sempre furbi, abbiamo cominciato a bagnare le corde e i russi, quando se ne sono accorti, hanno aggiunto anche la regola della lunghezza. Con il prodotto della filatura facevamo delle reti per raccogliere il cotone che poi ammassavamo in “costruzioni” grandi come case! Questa era la fertilità di quel terreno. Così quando sono tornato a casa, se non avessi avuto la campagna, avevo imparato un altro mestiere.

Anche a Taskent non siamo stati malissimo perché il comandante del campo era un maggiore che era stato fatto prigioniero dagli italiani e poi liberato dai suoi connazionali, ma  de Russia nol ghe ne volea più saver.  

 

E finalmente è arrivato il momento di tornare veramente a casa!

Siamo partiti da Taskent ai primi di ottobre del 1945, con noi c’era il maggiore russo che ci avrebbe dovuto lasciare a Berlino, però d’accordo con un compagno di Milano, voleva rifugiarsi in Italia. Il nostro accompagnatore aveva avuto in consegna razioni di cibo sufficienti per il viaggio, inoltre nelle varie stazioni in cui il treno si fermava la gente ci aspettava per scambiare le poche cose che ci erano rimaste con un po’ di cibo (là la merce vale più del denaro). Poi, si sa, i prigionieri sono come cavallette: in un posto avevano messa persino una guardia armata a sorvegliare un vagone di patate, dopo che ci siamo passati non è rimasto niente!

I tedeschi questo non lo potevano fare, l’odio per loro era sempre uguale, se fossero scesi  li avrebbero riempiti di botte, così incaricavano noi di ottenere qualche cosa.

Via via che il treno veniva a ovest in certe stazioni si radunavano i vari convogli di prigionieri ed era tutto un cercare di corrompere i macchinisti, naturalmente con compensi in natura, per far agganciare la locomotiva ai propri vagoni.

A Berlino avremmo dovuto fermarci per essere mandati in campi di smistamento e ritornare a casa con più comodo. In una riunione tutti e 70  capi vagone  italiani abbiamo  deciso di proseguire per l’Italia  anche se non avevamo più viveri.

Sempre a Berlino ho visto un grosso recipiente pieno di acqua e mi ci sono tuffato per fare finalmente un bagno: ci avevano lavato le patate … 

 

Ho anche incontrato un compaesano che mi ha fatto barba e capelli, dovevo sembrare un selvaggio, e ci siamo messi d’accordo che il primo che arrivava a San Martino avrebbe avvisato la famiglia dell’altro.

A Insbruck gli americani ci hanno raccolti in un hangar dove ci hanno disinfestati,  cambiati, nutriti. Purtroppo hanno scoperto il maggiore russo e l’hanno rimandato indietro. Poveretto chissà che fine avrà fatto!

 

Così il treno ha proseguito, avrebbe dovuto fermarsi a Pescantina, sede del mio reparto,  da lì progettavo di telefonare a casa, invece ha sostato ai Balconi e lì c’era l’autista dell’amico Sterzi, con la sua macchina che andava a carbonella, e mia moglie Lucia: era l’11 novembre 1945, festa di San Martino." 

 

Nella prima pagina del foglio matricolare del sergente Silvio Grezzana si legge:

 

ENCOMIO. Encomio! Conduttore di autovettura, serio, disciplinato, con qualsiasi condizione di tempo su terreno molto accidentato, dava prova di perizia e teneva contegno calmo e sereno durante le incursioni di aerei  nemici con seguente bombardamento e mitragliamento . Esempio di attaccamento al dovere e sprezzo del pericolo.

Prot. N. 6869 del Comando 8° Regg Art. Div. Pasubio 16 Luglio 1942 XX.

Conferitagli la Croce al M.G. in virtù del R.D. n 1729 del 14-12-1942 per partecipazione alle operazioni di guerra durante il periodo bellico 1940-1943.

 

(1) Ved. disegni in  “Dove sei stato mio bel Alpino” sito www.alpinimonghidoro.it

Per altre documentazioni vedere su Internet, con i motori di ricerca, alla voce: Tambow prigionieri di guerra.

 

Giugno 2005 - a cura di Anna Solati