|
||
Lovisetto Giovanni. Alpinista. a cura di Anna Solati
“Per
capire un po’ del mio carattere dirò
che sono una persona a cui piace impegnarsi in tutto quello che intraprende e,
quando lo faccio, lo faccio fino in fondo, senza fermarmi davanti agli ostacoli,
sicuro che la perseveranza alla fine premia. Così, visto come è fatta molta
gente, non mi è stato difficile avere onori dietro i quali c’erano oneri
pesanti.
Ho
inoltre sempre sentito accanto a me una presenza che mi ha protetto nei pericoli
più grandi e nei rovesci di fortuna: mia mamma che morì nel mettermi al mondo.
Sono
nato in provincia di Padova a Onara una frazione di Tombolo, il 29 Luglio 1921,
ero il quarto figlio. Quello stesso giorno, come ho detto, mia madre morì.
Allora, specialmente in campagna, i parti avvenivano in casa, l’assistenza era
affidata all’esperienza delle donne del vicinato e le complicazioni portavano
spesso a una fine drammatica. Sempre allora l’alimentazione artificiale era riservata ai ricchi così io fui nutrito dividendo il latte con i neonati delle generose mamme del paese.
La
mia nonna paterna non poteva allevarci tutti e quattro,
il più grande di noi aveva solo nove anni, così cominciò la prima
divisione. Io e una sorella rimanemmo dalla nonna paterna a Onara,
mentre i mie due fratelli furono mandati a Verona dai nonni materni. Dopo
alcuni spostamenti finalmente rimasi definitivamente a Verona e i miei
fratelli ritornarono a Tombolo. I nonni materni vivevano al Porto San Pancrazio e lì passai una meravigliosa infanzia giocando con tanti amici: ero vivace, curioso di quello che mi circondava. A scuola ebbi un bravo maestro che riuscì a svegliare in noi la voglia di capire e imparare le cose più difficili come se tutto fosse un gioco. Un simile insegnante fece in modo che la scuola fosse la mia vita e anche i compagni me li ricordo ancora con affetto.
Per
motivi di lavoro ho smesso di studiare quasi subito, ma in me è sempre rimasto
vivo il desiderio di ampliare le mie conoscenze come mi aveva istillato il mio
maestro. Sono un autodidatta, ma già da ragazzino si erano rivelati in me tre
grandi interessi: la pittura , la montagna e la musica. La pittura è stata una
mia passione fin da quando ero piccolo.
In
montagna ci andavo il sabato o la domenica, magari sul Carega, allora non
c’era il rifugio, e qui attorno mi arrampicavo su qualsiasi parete mi
capitava: anche sui muri.
La
musica non l’ho studiata, ma posso dire di conoscere molto bene tutte le opere
e di non aver perso una stagione areniana, tranne in questi ultimi anni per
qualche acciacco che mi impedisce di arrampicarmi su quei gradoni.
Spesso
andavo a trovare la zia, sorella della mamma, e lo zio Andreis che abitavano a
San Martino ed erano senza figli. Lo zio aveva una fonderia in via XX settembre,
dove abito tuttora, e ricordo, avevo solo sette anni, che già mi interessavo e
cercavo di capire come si svolgeva il lavoro in officina.
Crebbi
con l’affetto della nonna, ma soprattutto del nonno a cui volli molto bene ma,
purtroppo, quando avevo quattordici anni, morì. Provai molto dolore e capii,
con tristezza, che dovevo cambiare ancora di casa e d’ambiente. Andai a vivere
dagli zii Andreis e lì trovai una mamma e un papà pieni di affetto. Da quel
momento quella fu la mia vera
famiglia.
Andai
presto a lavorare in fonderia dallo zio imparando bene sia il lavoro
dell’officina, sia quello che poteva servire dal punto di vista
amministrativo.
Durante
il servizio premilitare, a 18 anni, presi la patente automobilistica che aveva
valore anche civile e mi permetteva di guidare sia la macchina che il camion e
così, quando fui chiamato di leva, nel gennaio del ’41, venni assegnato
all’autocentro di Verona al 4° reggimento autieri. Per poco tempo ho fatto
l’istruttore di guida, ma già a giugno, era cominciata la guerra contro la
Russia e fui tra i primi a partire.
Il viaggio venne fatto in treno su camion che si trovavano su vagoni appositi ed ebbe termine in Romania. Da là proseguimmo con i nostri mezzi al seguito delle truppe facendo il nostro lavoro di trasporto di materiale bellico. La razione di cibo in dotazione era una scatoletta di carne e due gallette perché ci muovevamo di continuo e non avevamo appresso la cucina da campo. Solo quando arrivavamo in qualche reparto di sussistenza finalmente si mangiava in modo decente. Sicuramente qualcuno ha descritto la nostra vita meglio di me e perciò non mi ripeterò ( Ved.racconto di Primillo Bonetti: reduce dalla Russia).
Fino
a settembre i viaggi furono decenti, ma poi cominciò a piovere e muoversi in
quel fango era assai difficile. I
rapporti con i tedeschi erano scarsi, ci soccorrevano solo quando eravamo
impantanati perché a loro serviva il materiale che trasportavamo. Con la
popolazione, poi, si comportavano in modo feroce, a differenza di come facevamo
noi. Così se tanti soldati italiani si salvarono durante la ritirata, lo si
dovette alla simpatia che i Russi avevano per loro.
Bestiale
era il trattamento che riservavano agli ebrei che, in quelle zone erano
particolarmente numerosi. Durante i nostri viaggi avanti e indietro verso il
fronte incontravamo ebrei di tutte le età e
condizione sociale: uomini, donne, bambini e vecchi, riconoscibili dalla
stella gialla cucita sugli abiti, che lavoravano per costruire strade, campi di
aviazione o trincee. Erano in condizioni miserabili: senza alloggio, neppure
tende, senza cibo, scarsamente vestiti.
Marciavano
da un posto all’altro, in fila per 12, chi
restava indietro spossato o usciva fuori dalla colonna per cercare qualcosa da
mangiare veniva abbattuto dai soldati tedeschi che dall’alto dei camion
controllavano quella marcia di disperati. I morti venivano lasciati lungo la
strada e quelle erano le frecce che ci indicavano che facevamo il percorso
giusto. Questi spettacoli ci facevano capire
anche cose che a casa non ci erano state dette e che le leggi razziali,
in vigore nel nostro paese da alcuni anni, avrebbero, presto o tardi, portato
anche da noi simili orrori,
In
Ucraina, dove aveva sede il nostro autocentro, la guerriglia partigiana era
molto sentita e le operazioni di disturbo all’ordine del giorno. Una di queste
attività consisteva nell’avvelenare l’acqua e così nel novembre fui
colpito dal colera asiatico. Fui trasportato all’ospedale da campo, che era
una grande tenda in cui gli ammalati giacevano per terra, vi rimasi 40 giorni.
La temperatura era scesa a 30 gradi sotto zero
e pativamo un freddo terribile.
Durante
la notte sentivo lungo la strada un
continuo fruscio, come un fiume in piena, e mi pareva fosse un effetto della
febbre, invece erano colonne di ebrei che silenziosamente si spostavano verso il
fronte. Ogni tanto si sentiva una raffica di mitra.
Dall’ospedale
da campo, poiché ero contagioso, venni trasferito in una specie di lazzaretto
che era stato ricavato da una fattoria in cui si allevavano i maiali, mancavano
le medicine, ormai ero all’estremo, ridotto pelle e ossa, pesavo 45 chili, non mi restava che morire.
Ebbi
la fortuna che giunse il primo treno della Croce Rossa. Per poterlo far arrivare
al fronte, dato che le rotaie erano
a scartamento ridotto, avevano fatto una macchina apposta che le allargava e
percorreva 10/12 chilometri al giorno.
Così
tornai in Italia e mi mandarono a curare a Rimini, in una colonia marina. Ero
talmente distrutto che non riuscivo neppure più a stare in piedi. Nel febbraio
del ’42 tornai a Verona e i miei
ottennero che non venissi assistito all’ospedale militare, ma a casa. Il mio fisico era così mal ridotto che mi ammalai di polmonite e pleurite essudativa e il medico condotto di allora, il famoso dottor Rensi, veniva costantemente a togliermi l’acqua dai polmoni. Finalmente, dopo sette mesi di convalescenza, guarii e dovetti tornare al reggimento che si trovava a Verona in zona fiera, a riprendere il mio lavoro di scuola guida.
Sapevamo
attraverso Radio Londra che la situazione stava precipitando. Alla notizia del
25 luglio si pensava che la guerra fosse finita e invece … Poco
dopo ci fu l’otto settembre e tutti, e prima di noi i graduati, ce ne
scappammo via. Me ne tornai a casa in bicicletta.
Rimasi
a San Martino per un po’, ma non avevo documenti, così andai alla Todt a
Peschiera sperando, come civile che lavorava per i tedeschi,
di non essere mandato in Germania.
Sapevo
fare bene il mio lavoro e così mi misero a capo dell’officina, ma a un certo
punto mi accorsi che quando caricavano sui
treni vari macchinari (torni, trapani, ecc.) poi
chiudevano i vagoni con dentro i lavoratori dicendo che dovevano andare
in Germania per montarli… Capii l’antifona e me ne scappai via
da lì.
Partii
in bicicletta, e, senza passare da casa, andai a nascondermi dal papà nel mio
paese natio vicino a Tombolo. Anche lì però la situazione era pericolosa perché
eravamo vicini al Grappa dove si trovavano numerosi gruppi di partigiani e i
tedeschi, assieme ai fascisti, ogni tanto facevano dei rastrellamenti a tappeto.
In uno di essi, a 10 chilometri dal mio paese, negli ultimi giorni di guerra,
catturarono e giustiziarono una quarantina di “ribelli”.
Mi
nascondevo dove potevo: cantine, granai, buche, mangiavo quello che riuscivo a
recuperare o che mi faceva avere mio
papà. Di notte, nelle vicinanze, gli alleati paracadutavano materiale vario,
anche cibo, ma io rare volte mi arrischiavo a recuperare qualcosa, per paura di
essere preso e fucilato come “bandito”.
Rimasi
da quelle parti fino alla fine della guerra. A casa mi avevano dato per
disperso, immaginate la gioia dei miei zii
che mi avevano creduto morto quando mi videro arrivare. La fonderia durante l’ultimo periodo di guerra aveva smesso di funzionare, anche il personale era sparito: chi in Germania prigioniero, chi sbandato. Qui c’era solo mio zio.Mi rimboccai le maniche, avevo un nome da portare avanti, e via via che gli operai ritornavano, riprendemmo a lavorare. C’era rimasta solo la macchina per fare gli stampi, il materiale lo trovavamo alla borsa nera.
E’
stata dura, ma ce l’ho fatta. Ho ampliato anche la gamma di metalli che
trattavamo oltre alla ghisa lavoravamo anche l’alluminio, il bronzo e il rame.
Col tempo, avevo portato la fonderia in zona industriale e avevo
più di un centinaio di dipendenti. Poi ci fu un periodo difficile agli inizi
degli anni '70, così chiusi il grande stabilimento e ritornai a lavorare qui dove
c’era la vecchia sede.
Pur
impegnato nella ricostruzione dell’azienda e nella sua conduzione, anche
quando era diventata molto grande, non rinunciai alla mia passione per la
montagna che ora potevo finalmente soddisfare.
Nei
primi anni 50 ci fece scuola di roccia, per due anni, il grande alpinista Mario
Soldà. Andavamo a Campogrosso dove
c’erano 4 o 5 cime ed era la nostra palestra. Quando Soldà si ritirò subentrò
nell’insegnamento Angelo Poiesi. Era nato nel 1908 e la sua passione
per l’alpinismo era cominciata facendo il militare in Valcamonica, in un certo
senso era un autodidatta con un talento naturale.
Nella mia vita posso dire di essere stato sulle pareti e i ghiacciai più importanti delle nostre Alpi dal Monte Bianco, alle tre cime di Lavaredo, alle torri del Vajolet, alla Marmolada al Monte Rosa, e abbiamo sempre cercato di adoperare pochi chiodi, anche perché costavano troppo, per fortuna ne trovavamo molti in parete.
Foto, Lovisetto Giovanni. 1964 Verso il Monte Bianco. Il protagonista è il primo del gruppo.
Foto Lovisetto Giovanni. 1965, I denti di Terrarossa.
Foto Lovisetto Giovanni. 1970 Gruppo del Carega: discesa dal monte Moscal verso la Madonnina. A destra il Monte Plische.
Fare alpinismo e arrivare in vetta è un’esperienza esaltante che può essere capita solo da chi ama questa attività. Per me non si può andare in montagna e fermarsi semplicemente a contemplarla.
Io
mi sentivo spinto da qualcosa dentro: non potevo stare fermo dovevo partire,
andare. Quando all’alba lasciavo
il rifugio per la scalata non provavo
che una grande tranquillità e il desiderio di essere già
sul ghiacciaio, che è quello che ho sempre preferito affrontare, o in
parete. Via via che salivo mi
sentivo sempre più libero e felice e quando arrivavo sulla sommità la
sensazione di avere, una volta ancora, vinto con i miei mezzi
le difficoltà incontrate e vedere il mondo sotto di me con le sue
piccolezze e miserie, era esaltante. Avevo subito voglia di fare un’altra
scalata.
Quando
tornavo a casa per riprendere il lavoro il giorno dopo, non ero stanco ma, ero ricaricato di energia positiva. Gli incidenti in montagna mi hanno lasciato sempre molto perplesso. Alcuni pensano che i pericoli, per chi fa alpinismo, siano di due tipi, oggettivi: slavine, crepacci, valanghe, sassi, e soggettivi: paura, scarsa conoscenza dei propri mezzi, disorganizzazione. Io credo invece che è un buon alpinista quello che sa quasi ridurre a zero i fattori oggettivi perché riesce a calcolarli in precedenza e col minimo margine di errore. La montagna non permette che si scherzi con lei. Delle tante avventure che mi sono successe ne racconterò tre che possono accordarsi con quanto sopra.
Avevamo
fatto la grande del Lavaredo. Al ritorno arrivò un temporale bestiale, ci fermammo al riparo, come si deve fare sempre in quelle
occasioni, e riuscii ad afferrare
al volo un giovane tenente degli alpini che, scendendo malgrado le condizioni
atmosferiche, stava precipitando. Ero assicurato bene.
Sull’Ortles
invece il grosso pericolo lo corsi io. Ero capocordata e i miei due compagni
erano alle prime armi. C’era un crepaccio nel ghiacciaio e bisognava saltarlo.
Mi misi in sicurezza e dissi loro: “Io salto e voi mi tenete la corda”.
Saltai, ma loro, temendo che non ce
la facessi, tirarono indietro la corda e mi fecero cadere nel crepaccio. Rimasi
sospeso un bel po' fino a che non arrivarono altri amici più
esperti. Cominciarono a tirarmi fuori, ma allora non c’erano i sistemi di
imbracatura di adesso, per cui via via che salivo mi sentivo schiacciare le
costole. Quando ero ormai quasi fuori il lembo del ghiacciaio su cui sfregava la
corda con cui mi tiravano su si erose e ricaddi dentro. Alla fine riuscirono a
farcela … In certe escursioni bisogna andare solo con persone affidabili.
Eravamo
al confine con la Svizzera, sul Gran Combin. Accanto a noi c’era una cordata
di 5 amici, cosa rischiosissima,
pochi alpinisti esperti se lo possono permettere.
Si
era fermi su uno spiazzo piuttosto in pendenza e una del gruppo si mise i
ramponi non appoggiando bene i piedi. Scivolò e si trascinò dietro gli altri
che non si erano assicurati. Percorsero 300 metri strisciando velocissimi,
arrivarono al crepaccio terminale, ci volarono sopra atterrando sul cumulo di
neve che si forma al di là del crepaccio stesso. Uno si ruppe una gamba, una si
piantò i ramponi nella pancia, uno si ruppe gli occhiali. Inizialmente
credevamo che fossero precipitati nella voragine e impiegammo 3 ore per arrivare
sul posto perché dovemmo aggirare la montagna.
Rimanemmo
con i feriti in attesa aspettando che passasse l’aereo di Geiger, uno svizzero
che al tramonto girava sulle montagne per vedere se qualcuno aveva bisogno di
soccorso ma non si fece vivo.
Allora prendemmo a spalle il ferito e lo portammo al capanno Panossier, che in
realtà era un semplice bivacco.
C’era con noi il dott. Franco Chierego, un altro grande appassionato di
montagna, e, dato che non avevamo medicine per calmare i dolori del ferito, gli
prescrisse una massiccia dose di grappa che per fortuna avevamo con noi.
Alla
mattina ricaricatolo in spalle lo
portammo fino a Sion in Svizzera attraverso il ghiacciaio, con tutti i pericoli
che comporta sovraccaricarsi in quelle condizioni, sui sentieri non proprio
praticabili. Come ho già detto la montagna non perdona le leggerezze.
Parliamo
di altre attività di cui mi sono occupato e che sono sempre collegate
alla montagna ma da un altro punto di vista: la costruzione del rifugio
Fraccaroli e il rifacimento della chiesetta Santa Rosa vicino al rifugio
Telegrafo.
Sono
entrato nel gruppo alpino Cesare Battisti dopo la guerra, ne sono stato
vicepresidente e ispettore del rifugio Fraccaroli della cui costruzione
sono stato, assieme ad altri soci, un convinto sostenitore e collaboratore
attivo. Siccome il rifugio è opera del Gruppo Alpino Cesare Battisti comincerò
col raccontare la storia di questo Gruppo.
Foto di Mauro Gaspari. Carega: Rifugio Fraccaroli 2005.
La Cesare Battisti nacque in una osteria di Veronetta nella primavera del 1923 per iniziativa di un gruppo di sei amici che parlavano di alpinismo e di imprese di eroi sconosciuti della grande guerra e da uno di questi eroi prende infatti il nome. Nel 1930 ne diventò presidente Angelo Poiesi un personaggio carismatico che ebbe un’importanza fondamentale per l’alpinismo veronese. Infatti sarà lui che negli anni ‘30 / ’40 inizierà alle arrampicate in parete molti giovani veronesi, più tardi, come ho detto, è stato anche mio maestro. Oltre a lui un altro sicuro e affidabile capo cordata era Mario Fraccaroli. E’ a questo giovane schivo e generoso, stimato e amato da tutti i compagni di escursione, ucciso dai tedeschi il 26 Aprile 1945, che verrà intitolato il rifugio. Infine altro grande personaggio era Mons. Luigi Piccoli, capellano del gruppo di cui racconterò più avanti.
Foto Lovisetto Giovanni. Angelo Poiesi a destra, mons Luigi piccoli a sinistra, durante un escursione.
Nel
1945, finita la guerra, il gruppo non aveva neppure più la sede, distrutta dai
bombardamenti, ed era ospite del CAI in via San Cosimo, l’attività
alpinistica e sciistica era praticamente nulla. Fu il presidente Poiesi a
raccogliere attorno a sé i soci superstiti
e ad attirarne di nuovi: tra il 1945 e il 1946 essi diventarono 260, il doppio
di quelli di prima della guerra. Era tornata la voglia di fare sport e con
questa rinasceva un vecchio sogno: quello di costruire un rifugio.
Prima di prendere questa decisione nel 1948 la Cesare Battisti ricevette in
affidamento per cinque anni il rifugio Telegrafo, nel gruppo del Baldo, con
l’incarico della sua conduzione e soprattutto del suo restauro. Il 3 novembre 1949 il consiglio direttivo approvò ufficialmente la costruzione del rifugio Mario Fraccaroli. Naturalmente mancavano i soldi. Si aprì una sottoscrizione e si stamparono tessere dove si registravano le offerte settimanali dei soci. Il vero problema era però la scelta della sede del rifugio stesso. Chi preferiva lo sci, lo desiderava sul Monte Tomba, senza considerare che in quella zona non c’erano impianti di risalita per cui gli sportivi preferivano andare nel già attrezzato trentino. Chi invece amava l’escursione, aveva posto gli occhi sulle piccole Dolomiti e cioè sulla zona del Carega.
Foto Lovisetto Giovanni. Tessera dal libro.. E di lassù si vede il mare.
Dopo
molte discussioni i lavori partirono nel 1953. Già nell’anno precedente,
avendo finalmente deciso per il Carega,
ero andato sul posto molte volte assieme ad altri per cercare il luogo più
adatto per la costruzione dell’edificio. Era infatti necessario sapere dove la
neve si depositava di più, e restava più a lungo, e dove erano i punti più
riparati dal vento. Per far questo non bastava la ricognizione di una giornata,
così era stata montata una tenda per ospitarci per qualche tempo. La cima del
Carega fu scartata per lo spazio esiguo e perché troppo esposta agli eventi
atmosferici e scegliemmo la cresta,
nei pressi del punto dove la mulattiera di guerra proveniente dal vallone di
Campobrun scavalca la montagna e si affaccia sulla conca di malga Posta.
Con
le mine venne sbancato lo spiazzo in cui sarebbe sorto il rifugio e il materiale
di scavo fu adoperato per i muri perimetrali per innalzare i quali occorrevano
cemento e sabbia in gran quantità.
Per
la sabbia era necessario un
frantoio che macinasse i sassi del posto. Ma occorreva un frantoio
“speciale” che si potesse far salire fino in zona. Nella mia fonderia
costruii un frantoio smontabile il cui pezzo più pesante, 50 chili, arrivò su
con un mulo mentre noi ci caricammo a spalle le altre parti. Il motore era un
vecchio motore a scoppio DKW 350.
Il
trasporto del restante materiale da costruzione fu portato a spalle da poco
oltre Revolto per oltre 700 metri di dislivello.
Sempre
nel 1953, il 20 agosto, una squadra di ragazzi ospiti di Don Calabria collocò
sulla cima Carega la croce che tuttora esiste.
Ai
primi di ottobre la capanna era finita, almeno per i muri perimetrali ed il
tetto. Venne inaugurata l’11
ottobre prima con una messa celebrata nella chiesetta del rifugio Scalorbi da
mons. Luigi Piccoli, poi ci fu la
benedizione dell’edificio e lo scoprimento di una targa commemorativa. Nella stagione 1954 il rifugio cominciò a funzionare come riparo e luogo di ristoro per gli escursionisti., ma era ancora capanna: in un solo locale c’era cucina e sala da pranzo, nel sottotetto dieci cuccette, niente luce, il frigorifero era in un deposito di neve.
Nel
1955 per facilitare il trasporto del materiale dal fondovalle preparai, sempre
nella mia fonderia, una teleferica lunga 1200 metri utilizzando materiale
residuato di guerra e il solito motore DKW 350 che avevo usato per il frantoio
della sabbia. Dal 1958 al 1970 fui ispettore del Rifugio, e sono più di 500 le volte che vi sono salito per questo incarico. Il mio compito era quello di fare in modo che non mancasse niente al suo buon andamento anche provvedendo a riparare gli eventuali danni e prevedendo le future opere.
Foto Lovisetto Giovanni, che attacca la targa.
Nel
’59, dopo 29 anni di presidenza Angelo Poiesi dette le dimissioni.
Nel
’66 si decise di trasformare la capanna in rifugio.
Una
difficoltà che incontrammo per un bel po’ di anni fu quella di avere gestori
che mantenessero l’incarico a lungo. Per fare la vita di rifugio bisogna
essere portati perché le comodità, specialmente nei primi tempi, erano
assenti, i sacrifici tanti, anche
se c’erano grosse soddisfazioni. Per due anni riuscii a convincere dei miei
dipendenti a recarsi al rifugio per garantirne l’apertura, almeno nei fine
settimana, naturalmente pagando del mio per il tempo che spendevano. Poi nel
’68 arrivarono i coniugi Baschera che rimasero 27 anni e ora ci sono i loro
figli.
Nel
1967 ripresero i lavori per ingrandire il rifugio e renderlo sempre più
confortevole e così si è continuato nel tempo fino a farne la bellissima
struttura attuale che è anche in regola con tutte le normative in campo di
sicurezza.
Il 13 luglio 2003 per festeggiare i 50 anni del Rifugio è arrivato l’Arcivescovo di Verona Padre Flavio Roberto Carraro, quel giorno gli ospiti erano più di 2000.
Foto Lovisetto Giovanni. foto dal libro .. E di lassù si vede il mare. Didascalia: Festeggiamenti per i 50 anni del rifugio Fraccaroli.
La costruzione del Fraccaroli è stata nel tempo un’opera corale, eseguita non solo dagli operai ingaggiati di volta in volta, ma anche da singole persone o gruppi che per un giorno o più a lungo hanno lavorato con passione e dedizione. Gli ospiti spesso si sono incaricati dell’approvvigionamento dei viveri, o hanno dato una mano in cucina, o a servire altri ospiti.
Potrei
dire ancora tante altre cose sull’argomento ma vi invito a leggere il bel
volume : “…e di lassù si vede il mare…” dove il socio Alessandro Brutti
ha raccolto anche i nostri scritti e memorie
e che la Battisti ha pubblicato nel 2004. Vi troverete raccontata più ampiamente questa bella
storia.
Altra
opera a cui mi sono dedicato è
stato il restauro della chiesetta Santa Rosa in prossimità del rifugio
Telegrafo sul Monte Baldo.
Questa
chiesetta, che risale al 1901, alla fine degli anni 70 era ormai cadente, si era
piegata la parete di sinistra e la s’era crepà.
Era il cruccio di mons. Luigi Piccoli allora responsabile delle 5 chiesette
alpine: la Chierego dedicata ai morti in Russia, quella dello Scalorbi costruita
negli anni 50, quella del Lozze sull’ Ortigara in cui si sono raccolte le ossa
dei tanti caduti su quell’altipiano, quella di Revolto.
Io
avevo con mons. Piccoli una grande amicizia, non solo era un capocordata con cui
facevo volentieri le escursioni, ma ero anche il suo “autista” quando andava
a ispezionare le chiesette. Ci accomunava la forte passione per la montagna, e
un senso della religione profondo e riservato.
L’ultima
volta che lo portai con me, nel ’79, eravamo andati proprio per vedere la
Santa Rosa. Ma, arrivati al Rifugio Chierego, le forze gli vennero a mancare e mi
disse:”Vai su tu e dì alla Madonnina che mi dispiace, ma proprio non ce la
faccio”. Io salii e, al ritorno, vidi che proprio non avrebbe potuto arrivare
al Pralongo dove avevo la macchina: stava troppo male. Lo riportammo giù con
amici che si trovavano sul posto. Il lunedì entrò in ospedale e vi morì dopo
tre mesi: sono 25 anni che se n’è
andato.
Mi
lasciò due milioni e mezzo per rimettere a posto la Santa Rosa e la
responsabilità delle cinque chiesette, che ho tuttora.
Per
assecondare la sua richiesta la cifra era esigua. La Battisti, impegnata nel
Fraccaroli, non poteva accollarsi altre spese. Dopo averci riflettuto un bel
po’ decisi di rivolgermi all’ordine di Don Mazza di cui mons. Piccoli era
stato membro e responsabile delle missioni. Andai da
don Germano, cappellano della Famiglia Alpinistica, e gli esposi il problema. Lui, prima di
tutto, mi nominò tesoriere e poi mi assicurò che avrebbe
coinvolto il suo gruppo che raccoglieva giovani amanti della montagna, e,
allora, aveva la sede davanti alla chiesa di San Nazzaro.
Ci
mettemmo all’opera per raccogliere fondi. Qualcosa ci diede la Cassa di
Risparmio, qualcosa la Popolare. Le “braccia” non mancavano: oltre a noi
c’erano gli alpini di Bussolengo, quelli di Pacengo e tutti si lavorava
gratis: ci portavamo da mangiare da casa, chi restava sul posto dormiva al
Telegrafo e Albino, il gestore, gli
offriva un piatto di minestrone. Un
amico, l’architetto Verdolin, naturalmente senza farsi pagare, aveva preparato
disegno e progetto, la diocesi di Brenzone lo aveva approvato.
Il
materiale, per quello lì dovevamo proprio tirar fuori i soldi, lo trasportava
gratuitamente, lungo la strada Graziani fino a Novezzina, la ditta di un mio
amico di Caldiero.
Tutto
a posto? Per niente. Restava il problema grosso di far arrivare il tutto da
Costabella a cima Telegrafo. Si era pensato di andar su portandolo in sacchi di
plastica, ci avevamo anche provato una domenica,
ma avevamo capito che era un
sistema impraticabile
Decidemmo
di usare l’elicottero. Il pilota voleva 22.000 lire al minuto dal momento
della partenza da Ronchi di Valsugana. Da Novezzina, dove avevamo preparato uno
spiazzo di atterraggio, il materiale arrivava
al Telegrafo in sei minuti. Per ogni viaggio il carico massimo era 7/8
quintali. A caricarlo e a scaricarlo provvedevamo noi sul posto. Una volta che
avevamo cercato di giocare di astuzia aumentando il peso, l’elicottero non
riuscì a decollare e il pilota ….
Quando
c’era nebbia e non poteva atterrare, l’elicottero tornava indietro … soldi
buttati via. Io di nascosto parlavo con Monsignor Piccoli e gli dicevo:”Monsignor
dane ‘na man ti, perché schei no’ ghe n’è”.
Ogni
giorno l’elicottero faceva 7 o 8 giri e alla sera al “Gallo cedrone”, il
rifugio di Novezzina, pagavo il pilota con i soldi, se ne avevo, con un assegno
mio, se non ne avevo.
Un
po’ alla volta il denaro arrivava e, in qualche occasione, non sapevo neanche
chi lo mandava. Insomma in do ani o’ tirà su 280
milioni. A lavori finiti ci fu una riunione con la Famiglia Alpinistica, eravamo una quarantina, per rendere i conti. Al tesoriere (io) mancavano purtroppo quattro milioni ed ecco arriva un signore, gnanca lo conossea, el me slonga un assegno e el me dise: “Tien 4 milioni e paga tuto”. Monsignore la man el ne l’avea data!
Trasportammo
alla Santa Rosa l’altare di legno che ci avevano regalato e io portai su la
croce dello stesso altare in una sera di pioggia. Da allora, ogni anno, questa
processione con il Cristo si ripete.
Davanti
alla chiesetta fu posto un Cristo dono di Beppino Cinetto che aveva fatto per
mons. Piccoli, praticamente gratis, anche il monumento a passo Fittanze. Per
la Santa Rosa sono andato su 300 volte.
Altro
lavoro, anche se meno impegnativo, è stato quello di mettere a posto la
chiesetta di Revolto. L’ ho compiuto
con il gruppo di San Martino 8 anni
fa, ma mi hanno aiutato anche i
soci della Battisti e altri concittadini. Si lavorava nei momenti liberi: al
sabato, alla domenica, in ferie ...
E’ stato rifatto il tetto, dato il bianco e par
pagar tutta ‘sta gente, anca la forestale, che ci aveva
regalato quello che poteva, siamo
andati a mangiare al rifugio vicino. Invece una cosa che non è andata come speravo e stata creare un gruppo della Battisti nel nostro paese. Inizialmente ero riuscito ad avere una quarantina di soci. Però un po’ alla volta si sono ritirati perché non erano attratti dalle nostre escursioni sopra i 4000, specialmente a fare scalate di 4° grado superiore, erano più portati per altre specialità alpinistiche. Ma adesso basta parlare di montagna, perché non finirei più.
Un’altra
mia passione, è la pittura. Come
ho raccontato all’inizio, fin da bambino mi piaceva disegnare e da ragazzo ero
stato a imparare da un bravo artista di San Michele che si chiamava Forti. Il
sogno, che non ho potuto realizzare, sarebbe stato frequentare l’Accademia
Cignaroli e, finita la guerra, sono andato a scuola di pittura al centro Toniolo. Negli anni 70/80, per arricchire la mia cultura che si era arrestata presto, ho frequentato per una decina d’anni l’Università della terza età a Verona. Seguivo particolarmente il corso di storia antica tenuto dal professor De Mori già insegnante di Greco e Latino al Liceo Maffei. L’argomento era svolto a tutto campo e così ho approfondito anche l’arte di quel periodo storico. Con lo stesso insegnante, ma anche per conto mio, ho visitato più volte i siti archeologici, e tutti i grandi musei europei, appassionato nel vedere i capolavori esposti che mi suscitavano una emozione estetica profonda. Anche le mostre che sono state fatte dagli anni 60 in poi, le ho viste praticamente tutte.
Prima
di partire per una di quelle” spedizioni” studiavo le opere sui libri, ne ho
la casa piena, in modo da arrivare preparato a cogliere tutti i particolari
tecnici, storici, emotivi.
Dato
che la pittura è un mondo enorme io mi sono specializzato nella conoscenza di
quella veneta dall’800 alla metà del 900. Sono andato per anni alla biennale
di Venezia. A un certo punto, però, mi sono detto: “Basta! Sarò io ormai
fossilizzato ma certa arte non la capisco e, purtroppo, non sono interessato a
capirla.”
Come
pittore mi piace il figurativo e, come si vede dai quadri attorno a noi, la
montagna è il soggetto che preferisco, ma anche il disegno a matita mi
interessa e nell’atrio ho un bronzo che l’amico scultore Gino Bogoni ha
ricavato da una mia copia della Venere medicea.
Ho
partecipato con risultati lusinghieri a diverse mostre ma la soddisfazione più
grande me l’ha data il restauro dei quadri della nostra chiesa parrocchiale. E’
stato un incarico che mi ha affidato don
Giovanni alla fine degli anni ‘80.
Nel
corso degli anni la via Crucis, i 12 Apostoli
opere del concittadino Romolo Nicolis, i miracoli di
Sant’Antonio e altre, in tutto più di cinquanta opere, erano diventate poco
visibili a causa della patina di fuliggine e grasso che le aveva ricoperte.
Particolarmente rovinate erano le pale dei miracoli di Sant’Antonio, la madonna del Rosario e quella
con gli Arcangeli. Sono copie del 700 e dei primi dell’800, di grandi dimensioni, alcune misuravano m 3,50X4, ed erano scrostate e
piene di buchi: in certi punti, mancando la tela adatta, mi sono servito di
vecchie lenzuola del corredo della zia!!
Foto Lovisetto Giovanni. Stazione XIII deposizione dalla croce.
Foto Lovisetto Giovanni. San Giovanni.
Foto Lovisetto Giovanni. I miracoli di San Antonio.
Mi
sembrava un lavoro impossibile. Fortunatamente un imprenditore locale ha
provveduto via via a far staccare le opere dalle pareti, a portarle a casa mia
dove avevo attrezzato il “cantiere”. Senza accorgermi il lavoro è venuto
facile, in tre anni era finito. La Casa di Riposo, di cui ero uno dei consiglieri, mi ha fatto restaurare il quadro della Sacra Famiglia che si trova in entrata. Si, la pittura è stata una grossa rivale della montagna!
Foto Lovisetto Giovanni. La sacra famiglia.
Questa è stata la mia vita fino a questo momento: molte prove, ma anche grandi soddisfazioni. Adesso che non sono più giovanissimo mi ritengo fortunato perché la mia natura mi ha dato passioni che ancora adesso posso coltivare come da giovane e giovane mi mantengono. La musica e la pittura mi sono sempre vicine e va bene che non vado più sui ghiacciai, ma una scappatina tra le montagne, la faccio sempre”.
Foto archivio Lovisetto Giovanni. Il protagonista: davanti le Pale di San Martino anno 2004.
Ottobre
2005 - di
Anna Solati
|