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Venturi dott. Umberto Primario emerito.
a cura di Anna Solati
A
parte coloro che esercitano attualmente la professione, fino ad ora due sono
stati i primari ospedalieri originari di San Martino: il prof. Carlo Secco e il
dott. Umberto Venturi Il prof. Carlo Secco, tra l’altro anche benefattore
della nostra casa di riposo, è stato primario di medicina interna presso
l’ospedale di Borgo Trento.
Il
dott. Umberto Venturi è stato primario di ortopedia presso l’ospedale di San
Bonifacio. Egli vive nella casa in
cui è nato nel 1926, quando la zona era ancora sotto il comune di Marcellise il
cui territorio arrivava fino al Ponte del Cristo. La villa è di una bellezza incomparabile.
La villa.
Un giardino curatissimo con piante secolari, circonda una dimora dai classici colori veneziani. L’interno è elegante, di quella classe che non conosce il tempo, che comunica la serenità e il piacere di una esistenza di cui si gustano con intelligenza anche le piccole gioie. La casa è come chi la abita.
Il
dott. Venturi è persona pacata, gentile, parla con una voce serena e coltivata:
sicuramente quella che avrà riservato ai suoi pazienti ed ai loro famigliari
per rassicurarli nei momenti critici.
Racconta:
“Sono
nato nel 1926, ad assistere al parto c’era il medico condotto del paese il
dott. Rensi, padre della mia futura moglie. Ero il quinto figlio, il bambino di
casa, in quanto prima di me mia sorella era di ben dieci anni più vecchia.
La
mia famiglia abitava in parte a San Martino, in parte a Mantova dove possedeva
delle campagne, mio padre era “agricoltore”.
Il padre.
Ho
frequentato le scuole un po’ qui, un po’ là: l’ultimo anno di liceo
l’ho fatto a Verona.
Ho
scelto la facoltà di medicina sia perché ammiravo uno zio scapolo, medico
condotto a Santa Lucia, che abitava in famiglia, sia per inclinazione personale.
Nella fotografia appare
mio zio con il lungo camice come si usava a quei tempi.
Lo zio
Un
po’ seguendo gli amici ho frequentato l’Università di Parma e mi ci sono
laureato.
Durante
il corso degli studi dal quarto anno al sesto ho lavorato nel reparto di
medicina interna del prof. Secco. Mi sembrava che qualsiasi specializzazione
avessi scelto una buona base di internistica fosse indispensabile. Ricordo il
primario come un maestro di vita e di professione.
Mi
sentivo particolarmente portato per la chirurgia. Ho scelto di specializzarmi
nella, allora, fresca branca di ortopedia che stava muovendo i primi passi per
sganciarsi dalla chirurgia stessa.
Cominciavano
infatti ad aumentare gli incidenti traumatici che richiedevano interventi più
specialistici che in precedenza.
Sono
andato a lavorare nel reparto di ortopedia di Borgo Trento prima come
volontario, poi ho fatto il concorso per essere assunto e ho percorso tutte le
tappe della carriera, come allora si usava, fino a diventare primario a San
Bonifacio.
A
quei tempi facevamo tutti i concorsi possibili, anche se si sapeva che non si
avrebbe vinto, perché l’idoneità dava un piccolo punteggio che poteva
servire. Questo sistema era validissimo perché obbligava
ad un continuo aggiornamento di studio, cosa che la rivistina letta
frettolosamente non poteva dare.
Il
mio maestro, in campo ortopedico è stato il famoso prof. Enzo Marcer. Era un
uomo molto preparato, ma aveva anche una formidabile cultura umanistica e un
tratto umano che ha trasmesso ai suoi allievi.
Ci
ha seguiti con sollecitudine e appoggiati in campo professionale per cui in
molti siamo diventati primari. Non
era questione di raccomandazione ma solo del fatto che eravamo
dei precursori nel campo.
Io
che sono diventato primario nel ’65, a trentanove anni, ho praticamente
istituito il reparto che nell’ospedale non esisteva e così altri miei
colleghi a Bussolengo, Legnago etc.
Un
episodio dell’inizio della mia carriera che ricordo in particolare è stato
quello riguardante il presentatore Mario Riva.
Era
un personaggio amatissimo della televisione italiana. Doveva presentare una
trasmissione in Arena ma prima di arrivare sul palco cadde in una buca del
proscenio che non era segnalata.
Fu
portato da noi in ortopedia: quella sera ero di guardia. Credo di aver assistito
al primo grande episodio di isteria collettiva. I giornalisti tentavano
continuamente di intrufolarsi in reparto, noi eravamo braccati per dichiarazioni
ed interviste, la gente stazionava in piazzale Stefani, i pazienti erano in
subbuglio. Non si poteva lavorare tranquilli.
Adesso
queste scene sono all’ordine del giorno anche per una divetta di secondo
piano, ma allora era una sgradevole novità.
Purtroppo
il presentatore morì per motivi indipendenti dalle fratture riportate.
A
noi, a parte il rammarico per la morte di un personaggio molto simpatico,
rimase un senso di disagio per la confusione che si era creata in un
ambiente professionale e ordinato come lo aveva creato il nostro primario.
Quando
io ho cominciato a lavorare l’orario di servizio era pesante: si cominciava
alla mattina alle otto e si finiva, se andava bene, alle otto di sera. La
domenica eravamo in reparto perché passava anche il primario per le visite, lui
non ce lo chiedeva, ma si capiva che aveva piacere che fossimo presenti: c’era
sempre qualche cosa da imparare.
Passavamo
le giornate in sala gessi e tornavamo a casa bianchi come muratori, non
riuscivamo mai a toglierci del tutto quella polvere dalle unghie. Tira di qui,
torci di là cercavamo di sistemare le fratture senza dover aprire per paura
dell’osteomielite: la terribile infezione ossea che poteva diventare cronica
perché gli antibiotici di allora non riuscivano ad arrivare nel punto della
frattura
Adesso
è tutto cambiato: sono state quasi eliminate quelle pesanti corazze sostituite
da placche, viti, chiodi. Si è di nuovo fatta avanti la chirurgia e anche i
tempi di guarigione si sono abbreviati.
Un
altro grande progresso si è ottenuto con l’artroscopia. Si praticano dei
piccoli fori si entra con un tubicino contenente fibre ottiche che proietta la
situazione interna su un monitor. Questo è un sistema non invasivo che permette
di avere un quadro preciso della situazione e di intervenire con la massima
precisione.
Le
tecniche continuano raffinarsi e se ora, dopo dieci anni, tornassi ad operare
forse mi troverei un po’ a disagio.
Il
gruppo di lavoro che ho lasciato a San Bonifacio si fa onore e mi ricorda ancora
con affetto: mi dicono che un mio ritratto è appeso là dove era il mio vecchio
studio. Non ho “controllato”, ma tutto questo non può che farmi piacere.
Me
ne sono andato dal lavoro con rammarico. La pensione ti arriva addosso
all’improvviso e ti accorgi che non puoi più dire: “Faremo una riunione la
settimana prossima.” o “Lunedì quando faremo il giro..”
Si,
per un po’ di tempo ho sofferto per la mancanza del lavoro, ma poi….ci sono
tante altre cose da fare, basta uscire da una certa ottica.”
Infatti
nel 1993 partecipa, come candidato sindaco alle elezioni nel nostro paese.
Rappresenta
un partito che allora aveva un seguito esiguo presso i sammartinesi, ma si batte
da par suo.
In
una serata/dibattito organizzata dal giornale la Cronaca in collaborazione con
l’Associazione cinema-teatro San Martino e il Nuovo Veronese nel novembre del
1993, pochi giorni prima delle elezioni, surclassa tutti gli altri candidati.
Scrive “il nuovo Veronese”:
“Effervescente e brillante, Umberto Venturi - candidato sindaco del Movimento
sociale- è stato l’unico dei “sei personaggi in cerca d’autore” (N.B. Benini , Gaiga, Cavalieri, Spiazzi, Toffalini, Venturi) a cavarsela con successo
personale a tutto tondo. Caustico, ottimo battitore e con un gran senso
dell’umorismo, pienamente consapevole di avere a che fare con una platea
ancora legata ai vecchi spauracchi ideologici, ha ravvivato la serata tra un
sonnellino e l’altro dimostrando un gran talento degno di miglior causa.
(Ved.
gli articoli: Il nuovo Veronese giovedì 18 novembre 1993; La Cronaca
18 novembre 1993).
Archiviata
questa esperienza, non particolarmente confortante per le scelte di noi
elettori, a riprova di quanto fosse stimato, l’anno successivo il suo partito
lo candidò per la carica di Senatore nel collegio di Verona collina ed ottenne
risultati lusinghieri.
Non
ha però proseguito su questa strada:
Sembra
conclusa la storia della vita del dott. Umberto Venturi, iniziatore del reparto
di ortopedia dell’ospedale di San Bonifacio.
Prima
di andarmene, non so come si lascia sfuggire una frase riguardante: “Quando ho
fatto il militare”. Così, e solo con una punta di curiosità, gli chiedo:
“Mi racconti cos’è successo quando ha fatto il militare”.
Dice
quest’uomo pacato e tranquillo: “Sa, io a 18 anni sono stato volontario
nella Repubblica di Salò.
Non ero obbligato, la chiamata
di leva del generale Graziani arrivava fino al 1925, ma ho dovuto farlo. Forse
eravamo giovani, forse eravamo plagiati da venti anni di propaganda, a noi
pareva giusto fare così: seguivamo un’idea. Ci vergognavamo del fatto che
l’Italia avesse tradito il suo alleato e si fosse messa con il nemico di poco
prima. E’ stata una scelta di coerenza.
Per noi della repubblica di
Salò è stato un titolo d’onore dire: “Pur perdendo andiamo lì”. Eravamo
in 300.000 non eravamo pochi. I partigiani erano molto meno, erano quelli
dell’ultima ora. I giovani della Repubblica erano moltissimi.
Mi sono presentato
nell’Aprile del ’44 sono stato assegnato ai paracadutisti della Folgore ed
ho fatto il corso a Tradate. Poi siamo stati mandati in Piemonte e poi sul
fronte francese che allora si chiamava “gollista”.
Ho partecipato ad azioni
belliche contro i francesi. Poi mi sono rotto un piede. Ero in infermeria da 15
giorni senza che mi facessero niente ed è passato il generale Graziani che mi
ha fatto subito trasferire per le cure necessarie in un ospedale. In quella
occasione ho avuto modo di parlare un po’ con lui. Era un uomo che aveva fatto
una scelta obbligata anche se era una strada che si sapeva senza ritorno.
In seguito alla frattura mi
hanno mandato a casa in convalescenza. Era la fine di Febbraio del ‘45 e sono
ripartito per il fronte. Altri, visto come stavano andando le cose, se ne
sarebbe restato al sicuro anche perché i trasporti erano difficilissimi, ma io
ho seguito la mia strada.
Così verso la fine di Aprile
abbiamo dovuto arrenderci: c’erano state delle trattative per evitare un
massacro inutile.
Dalla Valle d’Aosta siamo
andati ad Ivrea, con i nostri mezzi. In una fabbrica, credo fosse l’Olivetti,
abbiamo consegnato le armi, poi ci hanno caricati su camion americani e portati
in Toscana prima a San Rossore e poi a Coltano P.W.E. 337 .
La guerra civile è la cosa più
orrenda che ci sia, ci si ammazza di giorno e di notte tra fratelli. Ne sono
stato segnato per anni. Avevo gli incubi di notte e di giorno per strada un
passo dietro le mie spalle mi faceva temere di essere seguito.
A Coltano le sofferenze e le privazioni non sono mancate però la guerra era stata peggio. Sono rimasto prigioniero sei mesi fino ad ottobre. Nella mia stessa situazione si è trovato anche il grande poeta Ezra Pound (poi trasferito negli Stati Uniti ed internato in un manicomio fino al 1958!) e Walter Chiari, e Giorgio Albertazzi ecc.
Foto di gruppo (Il dott. Venturi è il terzo da dx in ultima fila)
I miei non sapevano se ero
vivo o morto e non hanno avuto mie notizie fino a settembre quando, tramite la
P.O.A. (Pontificia Opera di Assistenza), ho potuto mandare un biglietto a casa.
Mia madre, poveretta, in quel periodo non viveva quasi più.
Ai primi di Ottobre mi hanno
liberato ho fatto a piedi i 12 chilometri tra Coltano e Pisa, mi hanno
consegnato un lasciapassare e, in treno, in due giorni sono tornato a casa.
Durante il tragitto nessuno mi ha tormentato.”
Mi
ha prestato il libro: Coltano 1945 - Un campo di concentramento dimenticato.
Dal
libro riporto le notizie che non ho avuto il coraggio di chiedere al Dott.
Umberto.
Nella prefazione scrive Franco
Bandini: “ La gran parte dei
fascisti ristretti a Coltano, ma anche in altri campi, vi si trovavano in forza
della Legge sugli “atti rilevanti”, visto che quasi tutti i responsabili di
colpe individuali più gravi e magari gravissime, erano già stati fucilati o
variamente uccisi all’atto stesso della fine della guerra.”
Scrive Piero Ciabattini:
“Coltano era una campagna di proprietà dell’Opera nazionale combattenti a
circa 12 chilometri da Pisa. Il campo di Coltano, come altri PWE (campo per prigionieri di guerra), fu costruito velocemente con tecnica semplice e poco costosa tenendo conto dello scarso valore che rappresentava la “merce” da stiparci dentro. In quella enorme area (m 510*700), leggermente in pendenza da ovest ad est, e resa deserta dai diserbanti e dallo strofinio di decine di migliaia di piedi, fu realizzato il più vasto campo di prigionia esistente in Italia. Gli americani circondarono quella vastissima estensione di terreno con una duplice recinzione parallela, costituita da alte reti metalliche infisse oltre un metro nel terreno, e nel corridoio così formato alzarono le torri per le sentinelle armate di mitragliatrici e munite di potenti riflettori.
Dall’ingresso del recinto si dipartiva in lieve pendenza uno stradone ghiaioso e polveroso che divideva il campo esattamente in due. Dopo l’ingresso, sia dall’una che dall’altra parte, avevano ancora sezionato la superficie in dieci Lager o recinti separati da enormi rotoli di filo spinato…
piantina del campo di Coltano (il lager 3 dove stava il dott. Venturi)
I
Lager, o recinti erano tutti uguali. Ognuno aveva, a ridosso della rete
confinante con lo stradone, una grande tenda per il comando americano-tedesco,
idricamente refrigerata dall’alto, mentre a destra erano sistemate le baracche
in legno del magazzino viveri e materiali vari. Davanti a queste baracche, sotto
una specie di tettoia c’erano i fornelli a benzina della cucina alla quale
provvedevano alcuni prigionieri sotto la direzione dei tedeschi”.
Da
quanto sopra si apprende una notizia stupefacente: i tedeschi, quelli che erano
stati i loro nemici più accesi, venivano considerati dagli americani “un
gradino più in su” dei nostri soldati ed erano stati elevati al rango di
guardiani feroci e beffardi che godevano di un trattamento privilegiato.
“Dall’allestimento di quel
P.W.E. al 30 agosto del 1945, il servizio di sorveglianza del campo fu affidato
alla 92° divisione USA Buffalo, composta da militari bianchi, neri,
giapponesi-filippini naturalizzati USA e dalla Legione ebraica. Al mantenimento
dell’ordine interno (burocrazia, alimentazione, disciplina) fu preposto un
numeroso reparto di prigionieri tedeschi prevalentemente altoatesini…..”
“Nei
pressi della tenda-comando, una tendina canadese funzionava da ambulatorio
accudito da un medico prigioniero, mentre in altre due tendine venivano
ricoverati i malati in osservazione, sdraiati per terra con la loro unica
coperta…
Sempre
davanti alla tenda-comando erano in bella vista il “palo” di punizione e la
“gabbia” chiamata “il letto del fachiro”, e poi dopo un largo spiazzo
che serviva per le adunate o le “conte”, erano allineate le tendine
canadesi, intervallate fra loro per lasciare il posto agli scoli
dell’acqua.”
Le
tende canadesi avrebbero dovuto ospitare al massimo quattro prigionieri mentre
erano occupate da sei o otto persone.
La
mattina “… al suono dell’adunata, ci schieravamo inquadrati in compagnie
nello spiazzo prospiciente il comando in attesa della “conta” e della
meticolosa ispezione delle tende.
Quella
operazione, eseguita con pignoleria teutonica, poteva durare dalle due alle
quattro ore, mentre noi prigionieri dovevamo rimanere in posizione di
“attenti” (senza muoversi) sotto i raggi del sole di quell’estate torrida,
dopo essere stati chiamati tutti, rispondendo forte “presente” dichiarando
il numero di matricola e le tende ispezionate ad una ad una con minuzia ed
esasperante lentezza, veniva ordinato lo “sciogliete le righe”.
Eseguita
la “conta” era proibito ripararsi sotto le tende fino al suono del
silenzio…….”
Il rancio veniva distribuito due
volte al giorno.
“Non
è una minestra anche se si mangia o si beve due volte al giorno: non è
pietanza anche se contiene farina, prugne, ovolina, carote, cacao, zucchero,
latte etc..; non è pasta, anche se vi affogano dieci o dodici maccheroni.”
Chi
tentava di fuggire veniva mitragliato dalle torri di guardia e, se ripreso vivo
punito duramente.
Gli
americani consegnarono il campo alle autorità italiane il 30 agosto 1945.
In seguito a varie pressioni il
governo mandò un commissario ad ispezionare il campo.
Il 12 settembre 1945 nel suo
rapporto il dott. Virgilio Soldani Benzi scrive:
“….La
zona. La zona è completamente pianeggiante, senza un
albero né un cespuglio; il terreno, una volta acquitrinoso, è di natura
argillosa, impermeabile, polveroso e torrido in piena estate, sottoposto a
ridursi un vero e proprio pantano impraticabile dopo anche una breve pioggia.”
Purtroppo in quel periodo piovve più di una volta.
“
Gli internati.
Su tale terreno vivono da qualche mese, completamente
attendati ma senza paglia per evitare il propagarsi d’insetti, protetti da una
coperta, ben 32.700 prigionieri di tutte le età e di tutte le condizioni, mal
vestiti, molti dei quali addirittura senza scarpe, che non potranno affrontare
la stagione invernale; fra di essi vi sono diversi generali e ufficiali
superiori; gerarchi dell’ex regime fascista; criminali responsabili di gravi
reati e colpiti da mandati di cattura; ragazzi tra i 9 e i 16 anni; vecchi fra i
55 e i 70; giovani delle classi ’23-’24-’25 obbligati a presentarsi
nell’esercito repubblichino per evitare rappresaglie contro le famiglie o tema
di essere catturati e fucilati. (una nota dell’autore ricorda che però si
arruolarono volontari moltissimi ragazzi delle classi
’26-’27-’28-‘29-‘30); civili erroneamente rastrellati per aver
usufruito indebitamente di mezzi automobilistici trasportanti prigionieri;
internati in Germania che hanno tentato di raggiungere il proprio paese con
mezzi di fortuna; partigiani; carabinieri e perfino numerosissimi mutilati”.
La
mattina del 26 settembre si installò una commissione che esaminando in ordine
alfabetico i vari prigionieri stabilì quali rilasciare e quali trattenere perché
colpevoli di reati. Questi ultimi risultarono essere 1637 e furono internati nel
campo di concentramento di Laterina ( Arezzo). Gli ufficiali ebbero altre
destinazioni.
Durante
il periodo dell’inchiesta più volte gruppi di partigiani entrarono nel campo
e, senza esserne impediti dai sorveglianti, prelevarono prigionieri su cui
esercitarono giustizia sommaria.
Conclude l’autore:
…” Una vicenda che non fece
certo onore ai vincitori americani ostinatamente impegnati in una vendetta
sterile e postuma poiché le armi tacevano sui fronti europei.
Essi infierirono sui vinti che si
arresero, ottenendo in qualche caso l’onore delle armi, oppure si consegnarono
disarmati per sfuggire ai massacri dei partigiani.
Proibirono
loro di corrispondere con le famiglie e di ricevere aiuti esterni; li
spogliarono dei vestiti e degli oggetti personali, trattandoli più da bestie
che da uomini….
Vietarono
alla Croce Rossa Italiana e ad altre organizzazioni di carità l’ingresso al
“campo”, permettendolo una volta sola e fuggevolmente ad una commissione del
CICR: (Organo di supervisione senza particolari poteri).
Non
permisero mai alla stampa nazionale di divulgare l’esistenza dei loro PWE e di
quanto vi avveniva dentro, e quando concessero ai prigionieri di inviare una
loro notizia a casa pretesero che scrivessero un indirizzo diverso da quello
dove si trovavano.”
Solo
l’impegno del cappellano militare del campo don Angelo Fusco permise che
uscissero dal campo brevissimi messaggi per la famiglie dei prigionieri e che il
PWE di Coltano venisse finalmente conosciuto.
A
questo si aggiunge l’impegno dell’arcivescovo di Pisa che collaborò in
modo esemplare ad assistere i congiunti degli internati.
Da quell’inferno ha ripreso la
sua strada il dott. Umberto Venturi.
Questo
ragazzo ha perso due anni della sua giovinezza per un ideale che, anche se
perdente , non ha mai rinnegato.
Ha
frequentato l’ultimo anno di liceo due anni più tardi, si è laureato due
anni più tardi, ha pianificato la sua vita due anni più tardi.
Grazie per la coerenza ed il coraggio.
Intervista:
Anna Solati
San Martino Buon Albergo 01/10/2003
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