Un Testamento per la bella Giulia
E’
una sorta di storia romanzata, ambientata nel nostro paese. Un racconto
collocato in un preciso momento storico e con riferimenti a luoghi fatti e
personaggi assolutamente reali. Solo talune situazioni particolari sono state
volutamente “raccontate”.
Il
racconto si rifà al periodo della peste del 1600 (narrata anche da Alessandro
Manzoni in un libro di un certo successo: I promessi sposi) è insieme storia
d’amore e rispetto di norme ed imposizioni ormai scomparse.
Di
Paolo Tricarico
Mastro
Zenone ciondolò un poco il capo, sbattè le calcagna sui fianchi spellati del
povero mulo e decise che a rincorrere i nomi nella testa e nella memoria era
come perdersi, lasciarsi affondare…: nomi di morti, nomi di vivi: gente che
passa, tra una peste e l’altra, e lui a raccogliere le cifre e le lettere
nude, a grattare sui registri…: forse non ne valeva la pena! Forse la storia
non esisteva, neppure la piccola storia (in qualche modo magari sarebbe nato uno
che la peste l’avrebbe raccontata bene…).
In
un ghiacciato tramonto di gennaio del 1631 Mastro Zenone, di professione
“contatore di anime” (censitore di morti e di vivi) per conto
dell’illustrissimo ed Eccelentissimo Signor Aloise Vallaresso Cavalier
Proveditor sopra la Sanità della Serenissima, si affrettava lungo il ponte sul
Fibbio, lasciando alla sua sinistra la Parrocchiale, e sentiva, ahimè che non
gli anni pesavano, ma il senso inutile della storia, che grande o piccola si
ripeteva, ma sempre ricominciando dal contagio!
Dalla
morte…
Era
difficile barcamenarsi in tale altalena (Zenone stesso era nato ai tempi
dell’ultima grande peste del 1575), uno finiva per dire che i sopravvissuti
ogni volta pesavano sulle spalle dei loro morti, oppure viceversa… il vecchio
si grattò la testa, in ogni caso era un peso, sia vivere che morire.
Solo
i nomi erano leggeri, così leggeri (Francesca Marcenar Antonio Cerin Santo di
Grandi Giovanni Reinin Tonio Tafan Bernardo Boaro…), per questo si perdevano
nel tempo …
E
finivano per godere del silenzio. Così doveva accadere alla sua “Giulia”,
meglio per lei sparire. E i segni nella storia..?
Era
partito, ancor prima dell’alba, dalla corte Cengia, estremo limite nord,
nord-ovest, del territorio della Villa sanmartinese.
Seguendo
il confine naturale della Rosella (che tagliava fuori la borgata di S. Antonio,
allora sotto Villa di S. Michele, mentre Montorio inglobava la Scimmia e le
Ferrazze), era sceso nelle campagne a sud, passando per Fenil Novo, Ca Vecchia e
Acqua Grossa. Da lontano, sulla riva destra dell’Adige, sotto Porto S.
Pancrazio, si scorgevano le ultime colonne di fumo dal Lazzaretto: da oltre due
mesi non si registravano più ufficialmente morti per contagio.
A
mezzogiorno Zenone contò le anime a Campalto, poi nel pomeriggio risalì per
Ca’ dell’Aglio e Pignatte falcidiate: quasi nessun cartiere era rimasto vivo
dopo la peste!
Terminò
la sua conta visitando Casa Nova, Radice, e le case della Stanga, dove iniziava
il territorio della Villa di Marcelise.
Mastro
Zenone toccò sul dorso del mulo le sue carte, i suoi libracci neri, sorrise un
poco disgustato ripetendo che in fondo S. Martino non stava peggio dei territori
confinanti. C’erano stati 95 morti, i vivi rimasti erano 126 (A Marcellise, ad
esempio i morti erano stati 262, a Montorio 217, a Lavagno 247). Naturalmente i
numeri registravano solo la povera gente: lui non aveva compito di censire la
peste nelle famiglie nobili e proprietarie di terreni. A S. Martino erano 8 codeste
famiglie: Zenone pensò che sarebbero rimaste 7, con la scomparsa della
famiglia Basso!
Era
già notte quando la vecchia fantesca lo accolse nella corte antica della famiglia
Basso, all'interno, non molto, rispetto la via principale che portava verso la
lontana capitale, la Serenissima, la Venezia d'oro!
Zenone
pensò per un attimo che anche le città finivano, come le famiglie, pensò che
in quella notte non solo di oro c'era bisogno, ma di speranza: si sentì vecchio
e disutile quando Giulia gli aprì la porta: lei era talmente bella da
renderla improponibile in quella notte dopo la peste, fiore e ghirlanda
vagheggiata un attimo: sulla fronte posta per gioco un giorno di festa, e
subito gettata ai piedi del viandante ... : povera Giulia, nata ultima in quel
tempo di forza e di miseria, attesa e spreco di una famiglia allo stremo.
Zenone
ricordava bene: era stato scelto, in base ad antichi legami di amicizia con il
vecchio padre malato, come padrino ancor prima della nascita, doveva gioire
assieme della benedizione finalmente del primogenito. Di colui che avrebbe
continuato ...
Ma
non era nato maschio. Ma tutta la sua infanzia era stata un miracolo di
bellezza, a racconto d’uomo, in tutto il contado: Giulia era così bella, così
perfetta, così nel sorriso assente ... : sua madre, Isabella Pindemonte, fermò
un pittore (un allievo del celebre Brusasorci), di passaggio verso Venezia e
fece affrescare il suo ritratto, gli fece aggiungere un bambino allattato al
seno: così Giulia, all'età di 15 anni. venne dipinta come Madonna. Questo
avveniva nell'estate del 1629, esattamente un anno dopo, all'inizio di luglio,
Isabella, ultima padrona di casa Basso, moriva di peste, fra le mani della
figlia: l'ultimo suo pensiero fu per il testamento.
Impose
che venisse eretta una chiesa in onore della Beata Vergine Maria con obbligo
di celebrare quattro messe alla settimana e un versamento annuale perpetuo
di cento ducati alla parrocchia di S. Martino. Per la figlia neppure una parola!
Giulia fu vista piangere per la prima volta.
In
casa rimase da sola, soffocata non dalla peste, ma dalla miseria, dalla
solitudine, e dal tarlo della madre, dell'amore negato, e di un testamento
atroce per lei. Un tempo la famiglia Basso era stata potente e facoltosa. Di
tanto era rimasto poco. E quel poco se l'era portato via la peste
e la drammatica situazione economica. (Verona era rimasta tagliata fuori per
quasi un anno!)
Zenone
sapeva, come tutti, che per soddisfare le esigenze del testamento Giulia non
solo doveva impegnare gli ultimi «campi» rimasti, ma se stessa: doveva vendere
la sua bellezza e accettare l'obbligo del matrimonio con la vicina famiglia
dei Drago.
Seduto
vicino al focolare acceso, tra le mani rigirando la scodella vuota di brodaglia,
unico pasto che la casa era in grado di offrire, Zenone alzò il capo, cercò
di non vedere il volto della figlioccia attraverso i riflessi fatiscenti delle
fiamme, guardò lontano dicendo: «Allora hai deciso?». Giulia sembrò non
sentire. «Allora cosa fai? Accetti di sposarti?» Questa volta Giulia si
scosse, il suo «no» bruciò l'oscurità e il freddo della stanza: «Non mi
sposerò mai. Mai con Leonardo Drago».
L’uomo
lasciò che la coltre del silenzio si ricomponesse. Poi biascicò piano: «E con
il testamento? ... con la volontà di tua madre?»
«Mia
madre mi odiava».
«Tua
madre pensava alla famiglia, ai segni, alla storia, a ciò che ci sopravvive
... » «Mia madre io la odio, mia madre mi ha messo le catene ai polsi ... »
«Allora
vuoI dire che riconosci il testamento, accetti di impegnare la proprietà
per l'Oratorio ... »
«Non
sposerò mai Leonardo ... è brutto è avido ... » ripeté Giulia, e nel suo
sussurro c'era la nenia dell'infanzia perduta, dell'ossessione, della
sconfitta.
Mastro
Zenone sorrise di pena: lei non aveva scelta. Se voleva rispettare il testamento
doveva darsi ai Drago. Come una vergine fanciulla si consegna al drago,
rimpiangendo per sempre il cavaliere santo che non arrivò ...
Le
nozze tra Leonardo Drago e Giulia Basso si svolsero dopo Pasqua, nell'aprile del
1631. Non si seppe mai più nulla di lei. Forse morì di inedia e di disamore
pochi mesi dopo. Fece in tempo, ma non le interessava, a vedere gli inizi della
costruzione dell'Oratorio.
La
famiglia Drago rispettò le clausole. Si impadronì dei resti della proprietà
di Giulia, ne confiscarono perfino il nome, ma rispettarono le volontà della
madre:
la chiesa della Beata Vergine del
Carmine
sorse, anche se fin dall'inizio fu chiamato Oratorio del Drago.
Nell'abside portava l'affresco della Madonna che allatta.
Che
la Storia non sia maestra di nulla che ci riguardi (e accorgersene non serve
nemmeno a farla diventare più vera), lo testimonia il fatto che l'attuale
edificio, costruito nel 1772, non ha niente a che vedere con il precedente e
vicino Oratorio, demolito del tutto all'inizio del 1800. L’unico frammento
conservato, l'affresco della Madonna, oggi nella sacrestia, ci guarda con gli
occhi della stupida insignificanza. Che una volta, sotto quel brutto lacerto
smozzicato di nerofumo, esistesse il volto di Giulia Basso, è sogno assurdo!