Tratto da "La Bolgia dei vivi" di: Nino Agenore Bertagna
L' 8 settembre del '43.
NOTTE D’INFERNO.
Uno fra i momenti che mi hanno fatto fremere di paura fu la notte che
doveva essere quella della fine delle ostilità in Italia.
Ero, in quella notte, in servizio di Ronda al Comando di Presidio di
Rovereto con pochi altri compagni e il mio secondo turno andava alla mezzanotte.
Ad un tratto, non seppi da quanto tempo mi ero assopito, una scarica di
arma da fuoco mi fece sobbalzare nella branda. Nella palestra dove alloggiavamo,
ci guardammo stupiti e ansiosi per lo strano colpo sparato, quando un compagno,
di servizio, in quel turno, entrò barcollando ed appoggiandosi alle pareti,
trattenendosi in uno sforzo di dolore dei gemiti.
Tre pallottole gli erano state conficcate
nelle gambe e nel piede sinistro.
Lo stendemmo sopra un giaciglio strappandogli di dosso i pantaloni e le scarpe, quindi lo fasciammo alla meglio, mentre fra un gemito e l’altro ci invitava a dileguarci nella notte onde sottrarci alla caccia intrapresa ai nostri danni dal tedesco.
Inconsapevoli di questo nuovo fatto, volemmo sapere più chiaramente
quanto stava succedendo, e sapemmo allora che pattuglie tedesche erano
sguinzagliate ovunque per la cattura di noi soldati italiani.
Un rauco vociare cavernoso ci fece fremere in quel momento.
-Andate!-
ci disse ancora una volta il ferito, -e occultatevi ove meglio potete!- E così,
prese armi e munizioni in nostra dotazione, scendemmo nel giardino sito
all’interno del fabbricato, ove folte siepi sembravano attenderci.
Ovunque echeggiava sinistramente l’Halt! Mentre fischi e spari
rompevano il silenzio della notte. Dalla palestra intanto i tedeschi avevano
indovinato le nostre mosse e ci sparavano addosso come forsennati, Per fortuna
la direzione di mira non era esatta, e così nessuno di noi subì conseguenza
alcuna.
Poi la pattuglia, non udendo rumore alcuno e forse perché temeva
un’imboscata, cessò il fuoco, lasciandoci colà tra le fitte siepi.
Con il cuore in tumulto, ci sparpagliammo sotto i sempreverdi,
nell’attesa degli eventi che si giudicavano abbastanza seri e incerti.
L’attesa fu straziante: palle fischiavano in tutte le direzioni, grida
salivano al cielo.
Come un turbine vertiginoso passavano nella mia visione sconvolta figure
e presentimenti strani, tutto balenava in me convulsamente, privandomi della
padronanza dei miei pensieri.
Passò così diverso tempo che non seppi controllare, quando una secca
detonazione squarciò l’aere nella fresca notte.
Era quello il cannone dei Panzer delle SS?
Ma perché? Cosa stava accadendo?
Come risposta vidi tra la folta vegetazione che mi occultava, un razzo
rosso sfrecciare nell’oscuro velo dell’orizzonte. Subito dopo un altro
ancora, e poi altri saettarono in varie direzioni.
Uno cadde intorno al Comando di Presidio ove noi eravamo. L’ordine di
fuoco fu così dato e in breve tempo un carosello infernale di fuoco e
detonazioni investì il centro di Rovereto. Mitraglie, carabine e cannoni
sgranavano i loro rabbiosi rosari di morte, rendendo sempre più indiavolata
quell’atmosfera.
Mi tappai le orecchie e gli occhi cercando di isolarmi con i sensi dal
luogo d’inferno, ma era inutile e comprensibile estraniarmi dalla realtà.
Nemmeno la preghiera o il richiamo a visioni care potevano far tanto.
Da tutto quell’infernale baccano potei trarre una sola conclusione: i
soldati italiani di stanza nella città intendevano vendere cara la loro pelle!
Il tempo passava con lentezza esasperante e sembrava pesare sul capo come
un’enorme cappa di piombo. Le tenebre rendevano agognate le luci del giorno e
la fine di quella sparatoria.
L’aspetto più terreo sembrava impresso in tutto ciò che a malapena
potevo scorgere d’attorno. Il mio cuore batteva con rapidità centuplicata, la
mia testa sembrava di fuoco, il ragionamento mancava.
D’un tratto un’alta fiammata salì al cielo rischiarandolo
sinistramente. Poi una densa cortina di fumo fece seguito al chiarore del fuoco,
finché tutto si smorzò gradatamente: gli spari, il fuoco, le fiamme
dell’incendio.
Mentre nel cielo il riflesso del braciere quasi spento, tingeva d’una
rossastra luce morente la volta celeste, trovai un momento di assopimento pel
mio essere contratto dalla tensione nervosa.
La tempesta era cessata e le prime luci del giorno tingevano d’un
chiarore vitreo e incerto le tenebre dell’infausta notte.
TUTTI
PRIGIONIERI!
Un improvviso vociare
mi fece destare dall’assopimento che mi aveva colto. Erano i soldati delle SS
(Battaglioni d’assalto) tedesche in rastrellamento che venivano a prelevarci,
sapendoci colà dalla sera prima.
Nascondemmo armi e munizioni sotto le siepi che ci occultavano e
ubbidendo all’imperioso: “Heraus, hier!” (uscite fuori) intimatoci col
mitra spianato, uscimmo e raccolti i nostri bagagli in palestra fummo condotti
al campo sportivo della città, che nel frattempo funzionava da campo di
concentramento per i soldati italiani.
La giornata settembrina prometteva caldo come era di consueto in quel
periodo e il sole di una forza primaverile saliva lento nell’arco del cielo.
Una vaga sensazione di amarezza empiva il mio cuore: Prigioniero! Ma cosa
era accaduto mai così repentinamente da capovolgere le sorti senza essercene
nemmeno accorti?
Questo il primo interrogativo a non trovare risposta in noi. Avevamo appena preso posto sul prato del campo, che tutto il 132° Artiglieria, composto di nuove reclute, molte ancora in abiti borghesi, faceva il suo ingresso. Li seguirono i pochi anziani del 2° Artiglieria Alpina, i Bersaglieri del mio Battaglione, seguiti dagli altri due Battaglioni del Reggimento, tutti di stanza a Rovereto.
La popolazione tutta dopo la brutta nottata s’era ridestata con
l’amara sorpresa di vedere i suoi soldati prigionieri delle SS tedesche, e le
Caserme vuotate e sfasciate o ridotti in bracieri ancora ardenti. E con ansia e
la preoccupazione che la distingueva accorreva a noi, attorno al cinto
metallico, sfidando la brutalità del tedesco, per conoscere le nostre sorti e
quanto successe.
Veramente encomiabile la premura della gente roveretana, per
l’assistenza, per quanto fosse stato loro possibile, per i nostri bisogni
morali e materiali.
Pur non sottilizzando in particolari, dirò che il cuore di Rovereto
rimarrà impresso in me, finché rimarranno vive nel mio pensiero quelle
giornate.
Era allora il 9 Settembre 1943, il giorno si può dire in cui cadde sul
capo dell’Internato comune il tradimento più bruto degli uomini!
Contadino, operaio, artigiano, il soldato italiano obbedì sempre
ciecamente, credendo in qualcosa di essenziale, di umano, di leale.
Ma alla fine si trovò con la più spietata delle delusioni: nessuna
vittoria, nessuna ricompensa, ma solo il martirio del corpo e dello spirito.
Quale dramma più grande può essere ricordato se non quello
dell’Internato italiano?……
LA
RESA DELLA MAFFEI.
In un ex magazzino a nord della città chiamato Maffei, risiedeva la Compagnia
Autonoma Specialisti Radio dell’8° Reggimento Bersaglieri, alla quale io pure
appartenevo.
Ciò che successe quella notte alla Maffei, potei saperlo il giorno della
resa dai compagni d’arma che hanno vissuto quelle ore.
Il corpo di guardia era già rinforzato dalla sera innanzi.Pure in
Caserma ognuno era pronto agli eventi che ancor si presentavano confusi.
Poco dopo la mezzanotte la Sentinella avvertiva dei rumori all’esterno.
Prontamente appostandosi poté avvertire dei passi che si dirigevano
all’ingresso e la risolutezza nel voler entrare poi. Intimato l’alt
parecchie volte e notando l’insistenza all’esterno imbracciò il moschetto.
Una raffica di MaschinePistole, (il mitra tedesco) stese al suolo il malcapitato
di servizio.
In un attimo l’allarme fu dato, e ognuno si trovò al proprio posto, in
attesa di un ordine.
Il Capoposto volle nel frattempo rispondere con il fucile mitragliatore
che avevamo in dotazione, ma al secondo colpo l’arma si inceppò, costringendo
il difensore a internarsi. La pattuglia tedesca vista la risolutezza da parte
dei Bersaglieri a non aprire fece entrare in azione i Panzer, i quali con i loro
cannoni cominciarono a vomitare fiamme e proiettili scassinando l’ingresso.
Di buono i compagni della Maffei avevano il favore della posizione, il che permise al loro coraggio di mettersi in evidenza. Infatti la Caserma era inaccessibile sul retro, in quanto tallonata dalla collina, che si ergeva ripida, mentre tutto intorno era circondata da abitazioni, unica via d’accesso alla Maffei era un sottopassaggio costruito nel palazzo di centro.
Comunque alla rabbiosa sparatoria dei Panzer, ne seguì una violenta
reazione dei Bersaglieri i quali non intendevano cedere tanto facilmente la
posizione, e manco meno la loro pelle.
Così la lotta si inaspriva sempre più: i carri armati sull’ingresso
vomitavano fuoco all’interno e i compagni d’armi a rispondere dalla Caserma
e dalla collina su cui si erano appostati dalla sera prima. Ne seguì un rovinio
generale della Caserma in particolare modo e delle abitazioni circostanti. Ma
malgrado ciò nessun uomo delle SS si azzardò a uscire dal proprio Panzer per
chiedere la resa ai Bersaglieri. Era ciò un sottoporsi al facilissimo bersaglio
dei difensori.
Così decisero di cessare il fuoco e di fare buona guardia all’ingresso
nell’attesa dell’indomani. Purtroppo la disperata difesa di quel gruppo di
giovani, non valse a nulla: al mattino seguente un Maggiore dei Bersaglieri
seguito da una pattuglia di SS, entrò con bandiera bianca per chiedere la resa
per conto dei tedeschi, ai cento ragazzi che nella notte avevano fermato i
Panzer e fatti acquietare.
Così tutti inquadrati, zaino in spalla, disarmati, ci raggiunsero al
campo sportivo ove noi già stavamo da qualche ora.
A S. Ilario, più a nord, c’era il nostro V° Battaglione: da un Panzer
scesero tre uomini per chiedere la resa alla nostra ronda che vigilava nei
dintorni. Diversamente accadde uno scambio di raffiche da entrambe le parti, che
lasciarono stesi a terra privi di vita, un tedesco subito, due dei nostri
poi…..
PRIMI
DISAGI DEL RETICOLATO.
Il giorno11 giunse da Riva sul Garda quel Presidio al completo, facendo salire
il numero degli inquilini di quella casa senza tetto a circa ottomila. La
mancanza di acqua, di gabinetti, costituirono i primi problemi e i primi disagi
dell’internamento.
Per l’acqua dobbiamo ancora ringraziare la buona gente di Rovereto che
tanto si prodigò, per quanto lo permisero le SS, ma la totale mancanza di
gabinetti influì enormemente sull’igiene personale di tutta quella massa.
Ottomila persone che giornalmente devono soddisfare i propri bisogni
corporali, in un recinto entro il quale non un solo metro quadrato era
disponibile, poiché tutti dovevano coricarsi per passare alla meno peggio la
notte, dovevano preoccupare abbastanza quegli esseri dal cuore peloso. Unica
loro preoccupazione era invece di piazzare mitragliatrici in ogni lato del campo
e di sparare continuamente per farci stare fermi e uniti.
Il fatto avrebbe importanza relativa in breve, ma la nostra permanenza in
quelle condizioni cominciava a dilungarsi e il pericolo dello scoppio di
malattie infettive incombeva su di noi costantemente…..
Tutto
ciò, come dissi, accadeva senza che nulla fosse fatto dalle autorità Militari
tedesche.
Un altro fatto che causava disordini, era la distribuzione del rancio. Nelle sussistenze militari i viveri non mancavano e ci venivano distribuiti largamente. Quando però i camion entravano nel recinto era un vero caos. Tutti si precipitavano sulle marmitte, spinti dalla fame, creando confusione continua, il che faceva intervenire le mitraglie tedesche per mettere un po’ d’ordine in quel vespaio. Ma nemmeno in quel caos pensavano minimamente a coordinare la distribuzione.
Il giorno 15 settembre, quando ormai in ogni città d’Italia stava per
concretarsi la capitolazione dell’Esercito Italiano, venne a Rovereto la mamma
di Alfredo, un mio caro e intimo compagno d’arma che aveva condiviso sempre
con me le gioie e le fatiche della vita bersagliesca. Le calde lacrime di quella
mamma mosse a compassione ogni astante, ma l’effetto contrario sorse
nell’animo del Wachmann (guardia), il quale scorta la borsa che la mamma
introduceva, attraverso il filo spinato, al figlio, prontamente gliela strappò
di mano, non ammettendo discussioni in merito.
Ricordo le grosse lacrime che tradirono lo sforzo di quella mamma onde
contenersi e non mostrare al figlio il sentimento che in quel momento la
invadeva……
Muti, increduli, inconsapevoli dell’esistenza sulla terra di tanta
cattiveria umana, ristemmo per parecchio tempo a guardare un punto fisso, che
non era nulla, che non era speranza, che non era desiderio, né aveva forma
alcuna.
ALLA VOLTA DELLA
GERMANIA.
Man mano che i convogli ferroviari erano pronti, in scaglioni di un
migliaio circa, si partiva.
Da fonte tedesca si sparse la voce che la méta nostra era Innsbruck, la prima
città austriaca oltrepassato il Brennero. E pensai che almeno la méta non era
poi tanto lontana, e potevo vedere e conoscere ambienti nuovi. Solo più tardi
compresi quanto era fuori luogo quella idea.
Già i primi scaglioni erano partiti alla volta dell’Austria e la massa
si era assottigliata alquanto………
Il giorno 16, dopo le partenze dei giorni precedenti, i rimanenti, fummo
tutti radunati e avvertiti della partenza. Insbruck, a quanto sapevamo non era
poi tanto lontana.
Incolonnati, percorremmo il viale Rosmini, giungendo alla stazione tra
due fitte ali di popolo, che commosso ci salutava, pronunciando parole di
incoraggiamento al nostro indirizzo. Qualche mamma nascondendo il viso tra un
fazzoletto per trattenere le lacrime che le sgorgavano dal cuore, si volgeva di
lato.
Alla stazione prendemmo posto su di un convoglio per bestiame.
Quaranta
per vagone.
Indi ci fu data una scatoletta di carne e una galletta per il viaggio.
Sullo stesso convoglio viaggiavano, pure alla volta della Germania un centinaio
di prigionieri Sud-Africani.
L’aria in quella giornata settembrina era ancora calda, un sole
infuocato dominava nel cielo, mondo dal più piccolo cirro.
Erano le dieci del mattino, allorquando la locomotiva, dopo aver emesso
un lugubre fischio, quasi conscia del triste viaggio che stava per
intraprendere, mosse alla volta del confine. Dalla porta aperta del vagone
l’occhio poteva scorgere il cuore dell’Italia e degli italiani piangenti, e
il loro ultimo addio si sperse lasciandoci in cuore tanta amarezza.
Mi passai una mano sul volto per asciugarmi il sudore che mi imperlava la
fronte, e volsi altrove lo sguardo.
La sosta durò un’oretta, durante la quale i raggi
infuocati del sole
produssero all’interno un calore insostenibile. E ciò accresceva in noi il
bisogno d’un sorso d’acqua, ma ormai più nessuno si curava di noi…
Nel pomeriggio si sostò a Bronzolo e lassù i contadini che attendevano
i convogli dei prigionieri, ebbero concesso di aprire le porte dei vagoni per
darci della frutta, che nella zona abbonda nella stagione settembrina.
Rinchiusa la porta, la corsa riprese attraverso la Valle ove l’Adige
con le sue mille giravolte capricciose rende quella conca splendente, vivida e
ammaliante.
Dai fori dei finestrini, l’occhio poteva spaziare, pur se ristrettamente, tra la vita palpitante di quel Paradiso, che solo in Italia si può scorgere: campi di granoturco, di freschi erbaggi, siepi verdeggianti dalle quali piante di ogni specie si ergono verso il cielo vaste piantagioni di meli mostravano superbe e orgogliose i loro frutti sanguigni lucenti alla luce del sole, tra il fitto fogliame; vigneti carichi del prezioso frutto di Bacco, sembravano invitarci insistentemente al loro banchetto…
Oltrepassata Bolzano, in serata, mentre svaniva la luce del giorno, vedemmo
allontanarsi e svanire pure il mito della Val d’Adige.
Fu la prima notte passata tra lo sballottamento e gli scossoni, di quel
lungo e sfibrante viaggio senza senso.
IL
PAESAGGIO TEDESCO.
La debole luce del giorno filtrava già dai fori del finestrino timidamente,
quando una scossa di gelo mi destò. Portavo allora un paio di calzoncini corti
per il troppo caldo nelle giornate trascorse e quel repentino cambiamento di
temperatura mi meravigliò non poco. Alzatomi spinsi lo sguardo fuori dal
finestrino e subito compresi che il confine era da tempo oltrepassato. Era il 17
settembre 1943. Un senso di amarezza mi sfiorò al pensiero che già eravamo in
terra straniera, lontano dal nostro Sacro Suolo d’Italia, alla mercé di gente
bieca, spietata, senza Dio, e che nulla potevo conoscere del mio destino
di quei giorni a venire.
Il paesaggio che ci si presentava alla vista era caratterizzato da una squallida
pianura di terra dissodata e sminuzzata, nuda da qualsiasi forma di vegetazione
e ricoperta da una brinata biancheggiante ovunque…
Unica
variante in quel panorama erano altrettanto estese piantagioni di conifere che
si intercalavano alla distesa di terra nuda e gelata. Dell’esistenza umana:
nulla!
Un secondo brivido di gelo mi distolse da quelle meditazioni e allora
corsi ad infilarmi i pantaloni grigio-verdi, tanto utili in quel momento. Quindi
sempre pensando che Innsbruck doveva essere prossimo, presi la grammatica
italo-tedesca che avevo con me e ne
osservai la cartina geografica in essa contenuta.
Notando la minima distanza del confine della città, convenni che
Innsbruck doveva essere alle nostre spalle già da qualche tempo…
Il sole era sparito. Era bastato il breve spazio di tempo dell’attraversamento delle Alpi, per trovarci già sprofondati nell’inverno…
Più oltre, a Schwrzdorf ( Villaggio Nero) il treno sostò in un binario
morto. Colà avemmo il primo rifornimento viveri in terra tedesca. La razione
dataci dalla Rote Kreutzer (Croce Rossa), consisté in qualche fettina di pane
nero e un mestolo di una pappina bianca. Se il pane era acre, fatto di crusca e
patata, ( non era certo da paragonare al pane integrale nostro del tempo di
guerra) la pappina era un intruglio di cereali spezzettati, cotti con farina di
orzo, d’un gusto acido, indefinibile, il che ne rese difficile l’ingollatura
a tutti.
Alle nostre smorfie per ingoiare la “Zuppe”, come loro la chiamavano, udii uscire dalle loro bocche parole, che pur conoscendo discretamente la loro lingua, non seppi definire e comprendere esattamente, ma erano auguri che nemmeno a un cane sentii mai rivolgere…
Più tardi a Irrenlohe, altra sosta in campagna. Venne la sera e ci
preparammo a passare la seconda notte sul tavolato del vagone.
Buona parte della notte passò in sosta alla stazione. Indi nelle prime ore del giorno 18 il convoglio ripartì per quel viaggio per noi senza meta…
Verso le ore 17, il treno sostò a Guben e sentendo già forte il bisogno
d’acqua mi affacciai al finestrino per vedere come fosse possibile risolvere
il problema. Qualche ferroviere passava qua e là, tra i binari per le sue
incombenze e, chiamando con insistenza, ebbi la fortuna di far avvicinare un
operaio. Lo pregai di prenderci dell’acqua, ma questi fece subito una smorfia
comprensiva.
Insistetti ancora e lui in cambio del servizio mi chiese cinque
sigarette.
Sapevo delle restrizioni di tabacco in Germania, ma non immaginavo certo
a quel punto, e siccome noi, chi poche chi tante tutti ne avevamo, ne allungai
quelle richieste assieme a tre borracce da riempire d’acqua.
Quando tornò mi accorsi che solo due erano piene d’acqua. La divisione
dell’acqua pertanto fu fatta con meticolosità, e potemmo bagnarci appena le
labbra.
Concludendo, da questi primissimi fatti insignificanti rispetto a quelli
descritti oltre, potemmo chiaramente capire quanto duro fosse il
destino che ci attendeva alla mercé di quella gente, il cui odio nei nostri
confronti li spingeva ad ogni azione e degenerazione.