Tratto da "La Bolgia dei vivi" di: Nino Agenore Bertagna
LIBERAZIONE
= RESURREZIONE.
…Era lunedì 2 Aprile 1945 eravamo rifugiati nel pagliaio. Cominciammo a sentire un rombo fremere per l’aere. Sembrava il rombo di molte, moltissime macchine da guerra, un rombo lento, che si avvicinava lentamente, progressivamente, continuamente. Era come se un’infinità di fortezze volanti invadesse l’orizzonte, facendo tremare la terra …
Intanto grida di stupore e di gioia dei compagni mi attirarono nuovamente alle fessure: vidi una colonna immensa; interminabile di mastodontici carri armati, di proporzioni molto più vistose dei Panzer, passare sulla strada che menava a Sassenberg, poco lontano dal nostro covo. Nello scorcio di strada che era possibile intravedere dalla capanna notai il continuo interminabile afflusso di mezzi corazzati, dalla stella bianca cerchiata…
Intanto la punta della colonna americana era giunta al trivio che solca
Sassemberg, e in quel preciso momento udimmo scatenarsi violenta la battaglia
dei cannoni di bordo. Questa durò pochi minuti, poi tutto tornò con il ritmo
di prima, e l’avanzata riprese imperterrita, travolgente, spietata come non
mai…
Trovammo il coraggio di uscire all’aperto, e cominciammo a girovagare
nei dintorni. Di sorpresa in sorpresa notammo lo sventolio di drappi bianchi sui
tetti delle case vicine e pure del villaggio più lontano. Allora la nostra
gioia non trovò più limite ragionevole…
Spinti dall’euforia, dalla
grandiosità del momento che
sovrastava la situazione, verso mezzogiorno ci avviammo lungo il sentiero che
conduce al villaggio. Sassenberg, si presentò subito alla nostra vista come un
campo di battaglia in cui non rimane che la desolante constatazione di una
severa sconfitta.
I pochi edifici che erano ancora efficienti il
giorno prima, erano ridotti a cumuli di macerie, la strada seminata di rottami e
macerie pure, fumi salivano al cielo da incendi non ancora del tutto spenti.
Nel trivio che solca il centro del villaggio, tre Panzer tedeschi
giacevano sventrati e accavallati su di un lato della piazza. Tracce di sangue
si scorgevano ovunque nei dintorni…
Più oltre, sulla via che portava verso l’interno, una jeep, stava ferma. Ci appressammo e subito riconosciuti da un italiano d’America, fummo fatti avvicinare e rivolgendoci parole di conforto in un italiano americanizzato, ci riempì le mani di dolciumi, sigarette, scatolette di scorte contenenti verdure, carne, e companatico vario.
Ci disse inoltre che dovevamo aver pazienza ancora qualche giorno, fintanto che nella zona si sarebbe stabilito un Comando di Presidio al quale rivolgerci per ogni nostro bisogno.
Nell’attesa, -continuò il nostro benefattore,- penetrate pure nelle case dei tedeschi e occupatene gli appartamenti per vostra necessità, e se qualcuno osa fiatare, ci siamo noi qui! - E ci salutò affabilmente.
Rimanemmo un po’ stupiti, per tutta quella roba e per quelle parole, ma noi bastava di sentirci LIBERI, e di avere qualcosa da mettere sotto i denti.
Quindi ritornammo alla capanna. Passando accanto al rustico del proprietario, ci
appropriammo di una gallina e di qualche patata trovata sotto un portico, quindi
felici tornammo al nostro pagliaio ove facemmo bollire la refurtiva in un
secchio. Fatta una scorpacciata da tempo immemorabile, ci stendemmo a riposo
nella felice beatitudine di un sogno che finalmente si era avverato.
L’OCCUPAZIONE
ALLEATA.
Dopo i primi giorni vissuti ai
margini del bosco, nell’attesa dell’arrivo di un presidio Alleato, andammo
nel villaggio per conoscere la situazione. I tedeschi che incontravamo avevano
cambiato repentinamente faccia. Non udimmo più il classico “Heil Hitler”;
ma per la prima volta sentimmo parlare di buon giorno e buona sera…
Intanto giunse in quei giorni a Sassenberg un Ufficiale americano, il quale
coadiuvato da soldati suoi e francesi, riassestò le cose nel villaggio e ci
fece partire per il Campo raduno dei profughi di Warendorf.
Warendorf, è una cittadina di Wesfalia sulle rive dell’Ems, e fu allora sede di un immenso concentramento di profughi di ogni nazionalità, raccolti da tutti i grandi centri industriali della zona!
Un’immensa caserma rimasta miracolosamente illesa, fu la sede di europei e
occidentali. Un’altra poco lungi dalla nostra accolse prigionieri e internati
russi. La sistemazione fu più che ottima. Il Comando alleato ci fornì ogni
cosa che fosse svago, ci sfamò con viveri destinati alle truppe americane, e la
cui razione faceva invidia a qualunque tavola imbandita in una festività, ci
fornì vestiario decente per sostituire i nostri luridi stracci donandoci una
vita di quiete e serenità, tanto proficua per il nostro fisico dopo la
terribile burrasca.
Warendorf era divenuta una città internazionale, che forse ben poche nel corso della storia possono vantarsi di ciò. Gente di tutte le nazionalità e razze si incontravano nelle sue vie e piazze: francesi, belgi, inglesi, polacchi, olandesi, sudafricani, italiani, slavi, greci, americani, cecoslovacchi, australiani, canadesi, rumeni, bulgari, e neri, bianchi, gialli … era una Babele in cui i bagordi che vi si inscenavano degeneravano spesso oltre i limiti del consentito…
In Germania forse il 10% delle case era ancora efficiente, e la gente viveva in baracconi, baracchine, e catapecchie, drizzate in su in qualche modo, nella più squallida miseria. Le industrie erano sparite, polverizzate, di commerci non se ne parlava, le ferrovie avevano subito danni gravissimi, le organizzazioni assistenziali cominciarono i loro primi passi molto più tardi, quando cioè fu prima coordinato il servizio di polizia.
Autorità non ce n’erano nessuno sapeva a chi rivolgersi. La gente senza tetto
che si accampava nelle fattorie rimaste in piedi nelle campagne, era in numero
incalcolabile. I viveri erano ridotti a qualche verdura trovata nei campi. Solo
qualche Backerei, (forno) aveva modo, chissà come di distribuire del pane alla
popolazione affamata. Quindi a questo punto la popolazione si divise in due
tronchi: gli uomini, i bambini e gli anziani in generale, si buttavano alla
campagna per raccogliervi qualche prodotto rimastovi, mentre le donne presero
un’altra strada, quella della prostituzione…
Nel frattempo i prigionieri di nazionalità alleata e delle nazioni confinanti,
iniziarono, pur lentamente, a intraprendere il viaggio per le loro case.
VERSO
L’ITALICO CONFINE.
In considerazione della cattività delle condizioni delle strade ferrate della
Germania, (che hanno dovuto essere ricostruite per il 90%) la nostra attesa
dovette essere prolungata per circa sei mesi prima di iniziare il viaggio di
ritorno verso l’Italia.
Nell’Agosto, penultimi partirono dalla zona i russi. Ma fatto strano che subito non capii, fu che vidi molti, (i più) ostinarsi nel voler rimanere nella zona o altrove piuttosto che far ritorno nelle loro case di Russia.
Non furono pochi inoltre coloro che saliti su treni in altre nazioni seguirono
il nuovo itinerario con l’intenzione di sistemarsi chi in Francia, chi in
Belgio, chi in Italia o altrove.
Noi italiani dovemmo attendere fino alla fine di Luglio per vedere
finalmente le tanto nominate colonne americane che ci portassero in un punto che
fosse l’inizio della partenza.
Ma gli ultimi partirono il 3 Agosto del 1945, tra i quali io, Serafino e Anna, una ragazza di Crimea che il mio miglior amico fece nel frattempo sua sposa (nella foto, con l'abito offerto dalle truppe americane). Da Warendorf fummo scaricati a Ikern. piccolo villaggio in quel di Dortmund.
La sposa con l'abito offerto dalle truppe americane.
Accogliemmo con disappunto quella sosta, ma non ci fu altro da scegliere:
Riprendemmo la corsa il 13 dopo aver sostenuto disinfezioni e pulizie generali.
Al 15, una tradotta in servizio di spola tra la zona occidentale della Germania
e la Svizzera ci caricò per portarci verso la Patria.
La prima tappa del convoglio fu Munster, capitale della Wesfalia, cioè a nord, poiché era l’unica via libera e ripristinata dopo il flagello. Quindi scese rapidamente verso sud.
Una pioggia violenta e continua sbatteva intanto le sue raffiche contro le pareti del vagone e contro la natura, inzuppando instancabilmente ogni cosa. Era il saluto della zona della Ruhr occidentale della Germania, che certamente non aveva dovuto essere diverso.
Nella discesa potemmo osservare
più da vicino i disastri della guerra aerea su quelle strade ferrate, stazioni
e industrie lungo la ferrovia. Il flagello era infinito, immenso, ovunque, e
sull’unico binario in funzione doveva passare con lentezza il convoglio
nostro, superando scarti, buche, ponti provvisori, rialzi.
Ma col scender più a sud, il tempo si ristabilì alquanto, dandoci la
gioia di vedere un po’ di sole che da chissà quanto tempo non vedevamo. Sulle
pareti esterne dei carri, grandi tricolori sventolavano, sibilando al vento
assieme ai canti che uscivano impazziti dalle nostre gole.
Ovunque si poteva udire e leggere: “Viva l’Italia!”.
La tradotta era tutta una manifestazione di giubilo, tutta una festa nostra. Eravamo i vincitori della tirannia nazista, e forse in quel momento ci credemmo i vincitori della guerra.
Con vera soddisfazione, giunti a Nurnberg, potemmo capire che il
convoglio era diretto in Svizzera anziché al Brennero, e ciò fece aumentare il
brio in noi.
Più
giù del Wurttemberg, i segni della guerra apparivano assai meno evidenti, fino
a sparire del tutto verso il lago di Costanza.
A Lindau, all’estremità sud del lago, fummo fatti scendere, e il
convoglio tornò al nord per caricare altri italiani in attesa, (il lunedì
poiché sabato e domenica la Svizzera non concedeva transiti alle tradotte
italiane) ripartimmo per l’Italia. Il primo turno partito nel pomeriggio
attraversò la nazione Elvetica nella notte, mentre il secondo, il nostro,
partito nella notte di martedì, ebbe la fortuna di ammirare quel paese di fiaba
in pieno giorno.
Fu chiaro subito che la guerra
invece di passare e distruggere, aveva apportato al paese, sempre ligio alla più
stretta neutralità, maggior bellezza e consistenza economica. Tutto era bello,
tutto sembrava una fiaba, un giardino di fate.
La semplicità dei villaggi incastonati sulle pendici montuose come
pratoline nei verdi lucenti dei prati, si alternava al brio e al lusso della
vita cittadina.
Ovunque fiori olezzanti, frutta copiosa e un verde pieno di vita. Le maestose moli delle alte montagne si alternavano alle limpide distese d’acqua: il lago di Zurigo, il San Gottardo, cima imponente sperduta tra l’immensità di quel cielo limpido, l’incanto del Canton Ticino, il lago di Lugano.
Nella sosta a Bellinzona
sentimmo per la prima volta parlare il nostro bell’idioma, e anche ciò servì
a riempirci di euforia chiassosa. Dopo aver costeggiato il meraviglioso lago di
Lugano accecante di luce, giungemmo a Chiasso, fra il fracasso indiavolato di
tutti. Le guardie svizzere che ci avevano fino al confine accompagnato ci
consegnarono alle Autorità Militari italiane.
Queste con appositi autocarri ci accompagnarono a Como, ove un apposito
Casermone ci accolse per le prime rituali e necessarie bisogne nostre. In un
ufficio ognuno fu registrato e documentato, sia per gli anni in cui appartenne
all’Esercito Italiano prima dell’8 settembre, sia per il periodo trascorso
in Germania in prigionia.
Ricordo che in quell’occasione ci furono date, quale primo acconto, (
al quale non seguì poi più nulla) un aiuto finanziario di £ 400. Con quei
soldi, in città, comperai un pacchetto di sigarette, i cerini, cartoline e
relativi francobolli. Chiesto quanto fosse la spesa mi si disse: 450 lire! Io
ritenendo ciò un errore, ripetei la mia domanda.
Ebbi la medesima risposta! Ma non comprendendo da quale parte venisse
l’errore, ripetei la mia domanda, chiedendo spiegazioni.
Il tabaccaio mi disse: £ 250 le
sigarette, 30 i fiammiferi, 100 le cartoline, e 70 i francobolli. Totale £ 450!
Cosa? Balbettai istupidito io. Ma lei ha voglia di scherzare! Cosa sta
raccontandomi? Quegli benevolo mi mise una mano sulla spalla dicendomi:
-Comprendo
la sua meraviglia, lei torna in Italia oggi, dopo qualche anno di assenza, ma
creda, mi spiace per lei, ma la situazione economica italiana attualmente non è
quella d’anteguerra.-
Questa fu la prima sorpresa che provai al rientro in Patria. La seconda
la provai nell’entrare nella stazione della mia Verona.
La guerra aveva sconvolto ogni cosa, non un muro rimaneva in piedi. Non
avrei mai pensato a tanto scempio nella mia Verona, pur se conoscevo già bene
cosa significasse disastro aereo e bombardamento a tappeto.
Comunque la gioia di ritrovarmi tra gente amica e ambienti a me cari fece
sparire l’ombra che offuscò per qualche attimo la mia mente.
Ripreso con slancio il cammino, giunsi anelante e col cuore in gola alla mia
casa. Mi ritrovai d’un tratto di fronte a quella porta che fu per tanto tempo
un sogno, una chimera, potendo finalmente, quella volta, varcarla senza più
tema alcuna. Dietro di essa due ombre vi si profilarono, e con l’emozione più
travolgente che l’essere umano possa sopportare, mi sentii abbracciare, quasi
soffocare: -Sei tu? Possibile? Proprio tu? Si, -risposi loro- sono io, vivo e
felice!- Era
il 23 Agosto 1945!