Premessa
Continuando nel percorso
etnico/storico delle zone dei Lessini, parliamo della famosa Fiera dei bogoni o
di Sant’Andrea.
I bogóni e la “Fiera di Sant’Andrea” tra storia e tradizione.
di Piero Piazzola
I testi e le immagini sono tratti dalla pubblicazione della Pro Loco “Sprea cum Progno” di Sant’Andrea di Badia Calavena che ringraziamo sentitamente.
AA.VV., Sant’Andrea e i suoi “bogòni”, a cura di Piero Piazzola, Editrice “La Grafica” di Vago di Lavagno, novembre 2003.
Storia
Wido
de rozonis de monteaurio stando in aeclesia S.ci Andree…rifiutò
all’abate Rodolfo del monastero di San Pietro di Calavena i diritti che gli
spettavano di circa duobus casalium,
posti in Cusignano… Il documento è datato 13 dicembre 1160.
Non
è stato finora possibile identificare il posto denominato Cusignano; il
Cieno afferma che Cusignano, in una carta del 1311 è identificato in Romagnano;
nei diplomi scaligeri, invece, è chiamato Rumiago; più tardi ancora Romagnaci;
quindi, tenta di identificare Cusignano e gli altri toponimi con le contrade
Corbellari, Trettene, Tanara.
Per
noi, però, ha poca importanza sapere se il toponimo si identifica in una o
nell’altra delle contrade di Sant’Andrea; interessa, invece, conoscere con
documenti storici, che già nel 1160 — e direi ancora molti anni prima —
Sant’Andrea, con la sua “chiesa”, con la sua popolazione, con i suoi
interessi, se vogliamo anche con le sue miserie, c’era già sulla mappa della
Montagna dei Lessìni; interessa sapere che la gente di questo paese più tardi
(secolo XIII) formò la comunità di Sprea cum Progno, uno dei XIII Comuni Veronesi; interessa sapere che
la prima parte del toponimo, Sant’Andrea, corrisponde a questo paese e che il
nome Sprea cum Progno più tardi indicò l’intero comprensorio
comunale; importa sapere, infine, che tutta la zona era soggetta al Monastero
dei benedettini di San Pietro sul Monte.
I
quali benedettini, per assolvere a quell’opera di evangelizzazione e di
insegnamento che il fondatore, San Benedetto, aveva loro comandata (ricordiamo
il loro motto: ORA ET LABORA), dovevano per forza di cose vivere, e per
vivere dovevano chiedere aiuti o un qualche sostegno. E sappiamo pure che non
sempre si trattò di piagnistei, di questue, di elemosine; ma che essi
arrivarono anche a imporre, tasse, tributi, sui territori di loro giurisdizione.
Che cosa avrebbero dovuto fare altrimenti per vivere e aiutare gli altri?
Nello
Statuto del 1333 tra l’abate e i “masèri” (i contadini che avevano
ricevuto in conduzione un maso) si trova stipulato tra l’altro che: «… ciò
che essi possiedono dichiarano che l’hanno avuto dall’Abate e per conto del
monastero … che essi devono contribuire tre o quattro libbre di ducati
veronesi, e in più le decime degli animali minuti e di ogni altro prodotto che
lavorano…». Tanto per dire che anche i monaci furono … esosi.
Ancor
prima dell’arrivo dei coloni bavaresi che verso la fine del XIII secolo
giunsero numerosi dal Nord ad occupare la Lessinia, il territorio di Badia
Calavena e dintorni era abitato da elementi teutonici, come afferma Lodovico
Perini nella sua opera: “Dell’antichità, ed origine del Monistero e della
Badia di Calavena”: «Oltre di ciò abbiamo che indi nello stesso luogo fù
edificata anche ad onore dei S.S. Vito e Modesto ed à comodo de’ popoli
circumvicini la Chiesa matrice dell’antica Pieve di Calavena di cui i
Chierici, o Canonici la maggior parte erano di nazion Teutonica, come non
picciol indicio ci porgono i nomi di alcuni di loro, cioè Ottone, Cimbro,
Rodolfo, Fenzo, ed altri consimili menzionati in alcuni pochi documenti di Atti
Capitolari massime del 1145 e tanto più abbisognava che fosser tali per
somministrare li Sacramenti alla Gente, quando la maggior parte della Plebanìa
come si è detto con altro linguaggio che con il Teutonico non favellava».
Anche Sant’Andrea rientrava nelle vastissime pertinenze del Monastero
Benedettino di Badia Calavena. Poi i coloni formarono Sprea cum Progno, uno dei
XIII Comuni Veronesi. Progno corrispondeva all’attuale Sant’Andrea.
Numerosi
documenti parlano di annose, addirittura secolari, liti che avevano per
protagonisti il comune e gli uomini di Sprea cum Progno da una parte e,
dall’altra, gli abati proprietari delle terre, che imponevano affitti non
particolarmente generosi e pretendevano decime fin sui novali, le nuove terre
che i coloni avevano messo a coltura dopo
averle svegrate con tanta fatica strappandole alle pietraie o al bosco.
I
frati, a sostegno dei loro diritti, dicevano che « i predetti uomini sono
vassalli e feudatari del detto Monastero con l’onere di corrispondere la
decima di tutti i frutti in genere e in specie, né ad impedire la riscossione
valga il fatto che abbiano ridotto con grandissima fatica a coltura le dette
terre, poiché all’incontro hanno avuto la legna e hanno dato grandissimo
danno al Monastero in quanto non si può più a lungo pascolare in detti luoghi
ove prima si poteva e non si percepisce più la decima sugli animali ».
Tra
le numerose testimonianze relative alla colonizzazione dell’area montana,
esaminate dallo storico Carlo Cipolla presso l’archivio di San Nazaro di
Verona e l’archivio di Stato di Venezia, in un documento del 10 gennaio 1333,
una trentina di persone affermano di essere «habitatores monasterij» e
dipendenti dallo stesso, cui riconoscono ogni autorità «in civilibus et
criminalibus» per quanto tengono «in Gamela et Gamelino et eius pertinentijs.
In Spreda et eius pertinentijs. In Progno et eius pertinentijs, in Stizolo et
eius pertinentijs, in Scandolaria – l’attuale Santa Trinità – et eius
pertinentijs».
Confessano
quindi di avere l’obbligo di presentarsi all’abate «cum armis et sine armis
secundum quod eis fuerit impossitum» (presentarsi al cospetto dell’abate con
le armi o senza secondo quello che verrà loro imposto); accettano che il «dominus
abbas et eius successores et eorum vilici – possano – imponere banna inter
eos et condemnationem facere et exigere». Giurano infine fedeltà all’abate
che, da parte sua, ammette di avere non solo piena giurisdizione su di loro «in
auere et personis» ma anche l’obbligo di difenderli.
I
Benedettini imposero anche la decima sugli animali. Facciamo un esempio: un
certo affitto dovuto ai monaci di Badia dagli affittuari Bartolomeo da Verona,
Corrado da Sprea, Federico da Costa Boara, Alessandro da Valcava, Gabriele da
Scandolara, Ancio del fu Bertoldo dalle Vacche Negre di Selva di Progno, doveva
essere pagato “in Sant’Andrea” — poniamo l’accento sulla parola
— con la consueta aggiunta di una … bonam gallinam… e la decima di
tutti i beni che Dio concesse al conduttore, più le bestie minute… (Documento
del 1313).
Altra
testimonianza del 1332: lo stesso Ancianus dalle Vacche Negre era tenuto
a corrispondere 20 denari e le consuete decime, con la sopratassa di agnellos,
capretos et porcellos…. Pecore, capre, maiali, galline, capretti,
porcelli… che i monaci venivano a riscuotere puntualmente, tutti gli anni, in
tempi prestabiliti e nei luoghi che erano stati concordati con rigorosa
precisione
Non ci sono notizie che parlino di decime sui bogóni, ma il fatto che il loro commercio si tenesse quasi in forma clandestina, prima ancora delle prime luci dell’alba, e proprio alla periferia dell’abitato, fuori dal controllo degli “esattori” (tra virgolette), fa pensare a un voluto nascondimento per sfuggire alla longa manus dell’autorità che al tempo stesso era religiosa e civile ed era inflessibile nel rivendicare il rispetto dei suoi diritti. C’è però chi sostiene che la vendita doveva/deve concludersi prima dello spuntar del sole per evitare che ai bogóni salti l’opercolo. In questo caso la merce non varrebbe proprio niente.
Si sa anche che nei conventi, nel periodo quaresimale in cui non si faceva uso di carne, era consentito mangiare chiocciole. Non sarebbero, quindi, arrivati, i monaci, al punto di pretendere la decima anche sui bogóni; ma non possiamo affermare con altrettanta sicurezza che i bogóni ne fossero stati esclusi. Tanto è vero che in un documento del 1358 si replica il diritto dei monaci a riscuotere le decime sugli animali, ma « …non sulle noci, sui pomi, sulle pere, sul fieno…». E se le decime le pagavano anche gli alberi da frutto, nulla toglie che più addietro nel tempo i monaci non l’abbiano applicata anche sui bogóni.
Ma
quali sarebbero stati tali luoghi e tali tempi prestabiliti? Quello che abbiamo
citato più sopra, per esempio, che precisa … stando in aeclesia S.cti
Andree. Quando? Nei tempi più “propizi”. Quali
erano i tempi più propizi per tali pagamenti, per le riscossioni, per i
prelievi? Potevano essere quelli della stagione autunnale, quando i prodotti
della terra erano portati a maturazione e, quelli in esubero, pronti per la
vendita… Oppure la ricorrenza del patrono della comunità: Sant’Andrea nel
nostro caso. Ma quando soprattutto? Quando la gente aveva bisogno di vendere i
suoi prodotti di scarto o in sovrappiù e di comprarne di nuovi, per affrontare
l’invernata; quando era ora di comprare generi di prima necessità: viveri
soprattutto e bestiame.
Sant’Andrea
era proprio il mercato adatto per cambiare qualche capo di bestiame vecchio o
malandato, come vuole la tradizione. Era il mercato più vicino alla gente dei
pesi dell’alta montagna.
Tradizione
Sant’Andrea di Badia Calavena. Il piú antico mercato dei bogóni d’Italia.
Sant’Andrea, ridente paese del comune di Badia Calavena, si distende con le sue case là dove la Val d’Illasi si squarcia a est per ricevere la confluente Val Tanara e concedersi al primo sole che rotola giù a illuminare il minuscolo campanile, la piazzetta e le contrade sparpagliate sui terrazzi alluvionali sulla destra del Progno, che hanno accolto i primi insediamenti, al riparo dai pericoli delle inondazioni: Docco, Carpene, Battisteri, Xami, Fietta. Più in basso, la Triga riceve la luce più tardi. Sulla sinistra del torrente, ancora in posizione elevata, troviamo Cisamoli e Trettene e poi, in Val Tanara, la cimbra Tannental, la valle degli abeti, Croste , Salgari e Caveci e, di nuovo fuori da Val Tanara, Valcava, Stizzoli, Santoli e Ca’ del Diaolo.
Lo strano nome di questa contrada avrebbe un’origine controversa, raccontata da due storie differenti. Una dice che il parroco, andatovi a prelevare un morto, sentendo provenire bestemmie e grida di giocatori dall’osteria vicina all’abitazione del defunto, abbia esclamato al colmo dell’indignazione: “Qui è la casa del diavolo”. La seconda storia narra di misteriosi rumori, come di sferragliar di catene, percepiti dai viandanti che di notte transitavano sulla strada alta che dai Pergari conduce alla Fietta, e dagli stessi abitanti della contrada, che rabbrividivano di spavento a quel suono sinistramente diabolico. E’ intervenuto il prete che ha impartito una benedizione e collocato una croce di pietra, tuttora esistente. In seguito le notti sono ritornate tranquille.
Quello
di Sant’Andrea era un mercato importante, con settori distinti, secondo la
specie degli animali, e comprendeva un elevato numero di scambi. Nel prato tra
la piazza e l’antica trattoria della “Gata”, c’era il parco divertimenti
e il mercato del bestiame bovino. Il Parco divertimenti non poteva mai mancare
— una volta e nemmeno adesso — in una fiera che si rispettasse. Più a nord,
lungo la strada che porta a Selva di Progno c’è sempre stato El marcà dei
bogóni. Chi lo dice? La tradizione. E la tradizione il più delle volte fa
storia, quando mancano documenti che non dicono diversamente.
E
se la tradizione orale afferma che il mercato dei bogóni si teneva
all’alba e in quella parte del paese e che c’è sempre stato, vuol dire che
novanta su cento è un fatto storico.
Nei primi anni della mia adolescenza, quando venivo a Sant’Andrea in occasione della Fiera dei bogóni, come era in altro modo chiamata la Fiera di Sant’Andrea, andavo per l’appunto a curiosare tra le abitudini e domandavo spiegazioni. Un domanda che ho rivolto spesso a tanta gente: — Ma da quando tempo si tiene questo mercato? La risposta, in una forma o nell’altra, era pressappoco questa: Me nono, me pupà, i nostri veci i me contava che la gh’è sempre stà cossìta ed ho potuto constatare de visu che veramente la fiera dei bogóni si svolgeva di mattino, ancora quasi al buio, come di tradizione; ma ho anche potuto notare con qualche malizia che quell’atmosfera non era proprio del tutto tranquillizzante, rilassata; cioè non tutto si svolgeva all’insegna dell’indifferenza. Compratori e venditori, ammiccavano, si facevano l’occhiolino; sembrava che cercassero di nascondere qualcosa. Insomma non si fidavano né dell’oscurità né delle disposizioni superiori e neanche di chi stava curiosando. Forse lo facevano anche per imbrogliare i bogonàri.
I bogóni
— nei miei ricordi
personali — andavo anch’io a raccoglierli perché mio nonno e mio zio si
erano costruita una bella bogonàra, fatta come dio comanda, e anch’io
nella tarda estate li raccoglievo e li mettevo in bogonàra e andavo a
cercare le sbardanàsse (le foglie di bardana) e ogni tanto, in
primavera, ne cucinavamo una cinquantina; noi non li portavamo a Sant’Andrea
per venderli, ma li tenevamo in serbo per quando veniva il tempo di
mangiare di magro. Famiglia numerosa, la nostra, e tanta fame.
“Mangiar
di magro” per modo di dire, perché di magro si mangiava spesso, soprattutto
durante la Quaresima. E il nostro calendario, a quei tempi, registrava
“quaresima” parecchie volte all’anno. La carne, che io sappia, si mangiava
(ma con molta sobrietà) il giorno della sagra o il giorno del matrimonio o nel
giorno del funerale di qualcuno della famiglia. Il pesce era un genere che si
poteva dire impossibile: sia per la distanza dal mare o dal lago dove si
pescava, sia perché non v’erano mezzi per mantenerlo fresco, sia perché per
quando arrivava fino al mio paese, lassù oltre i 1200 metri di altitudine,
dentro la cesta di un rivenditore in bicicletta…….costava tanto e puzzava
…troppo. Così pure per il bacalà.
E
allora, bogóni. Ma anche i bogóni non è detto che si
sprecassero inutilmente; è vero che costavano niente se non la fatica di andar
a raccattarli. Ma in tavola pochi bogóni, tagliuzzati sottili sottili,
un po’ di pocio e soprattutto tanta tanta polenta;…ti so dire io che
piatto!
Spariti i bogóni acquistati dai pochi grossisti precedentemente accordatisi sul prezzo, la sagra continuava con il viavai della folla tra i numerosi banchetti che esponevano le più varie mercanzie, dagli indumenti alle scarpe, ai giocattoli, al mandorlato ed allo zucchero filato. La sagra di Sant’Andrea con la fiera dei bogóni, ultima nel corso dell’anno tra tutte quelle dell’alta Val d’Illasi, era occasione di incontro, non solo per i morosi, di allegria, di festa nella migliore tradizione della gente di montagna.
Fino
agli anni Cinquanta gli alunni delle scuole elementari di tutta la zona
disertavano in massa le lezioni e calavano a frotte da Giazza e dalle contrade
di Campofontana, di San Bortolo, di Sprea, di Velo
con pochi o senza soldi in tasca, ma con un prezioso sacchetto di bogóni
in mano da trasformare in lire, sufficienti forse per acquistare una stecca di
mandorlato, una carruba o per fare un giro in giostra. Nei tempi passati i
molluschi portati dai ragazzi davano un sensibile incremento alla quantità del
prodotto.
Per
togliere da un calendario inesistente, ma ben radicato nelle consuetudini, un
giorno di vacanza abusivo, non previsto dal calendario ufficiale, il direttore
didattico di Tregnago Beniamino Tagliaro diramò una bonaria circolare, nella
quale lamentava che «quando la giostra gira all’equatore si fa festa anche ai
poli».
Alla sera in qualche osteria ragazzi e ragazze intrecciavano danze ritmate dal suono di una fisarmonica. Forse per questo la fiera di Sant’Andrea era considerata la “Fiera dei morosi”. E le ragazze, per l’occasione, erano lasciate libere di parteciparvi senza la compagnia di un fratello o altra guardia del corpo, sembrerà strano; i genitori che tenevano sott’occhiole figlie come delle “galeotte”, in quell’occasione lelasciavano andare. Tuttavia noi si veniva a Sant’Andrea anche per il fatto che essa costituiva l’ultima sagra dell’anno e chi aveva la morosa per quel giorno poteva… godersela.
Ed era quello, allora, il momento giusto per piantar el moróso vècio, che non andava più e di trovarsene un’altro. Era quello il giorno dei cosiddetti sachi e della restituzione dei pegni (l’anèl, la colàna, el fassoléto da testa ecc.).. Ci sarebbe tutta una storia da raccontare.
Un giovanotto forestiero che nei locali della “Colomba” si azzardò a chiedere un triplesec si sentì rispondere che non avevano trippe secche, ma solo bogòni: nei primi anni cinquanta i liquori sofisticati non erano ancor arrivati negli esercizi dell’alta valle.
La
“Fiera di Sant’Andrea” che non era solamente il marcà dei bogóni
o solo quello; era anche un’altra cosa. Quello dei bogóni era il
mercato minore, collaterale, ma non meno importante (e interessante sotto
l’aspetto folkoristico), tant’è vero che ha lasciato il nome alla fiera. Il
mercato più importante, quello che attirava la gente che di norma non si
muoveva mai di casa — soprattutto le donne —, fatto di articoli di
secondaria importanza, voluttuari se vogliamo, era la sagra, la “Sagra de
Sant’Andrea”. E “sagra” significava non solo divertimento, ma anche
banchéti, pochi, ma belli, interessanti, il parco divertimenti, i giochi. La
gente che si muoveva solo o quasi una volta all’anno, alla Fiera di
Sant’Andrea costituiva una compresenza coreografica non solo necessaria ma
anche utile.
Quanta
gente ci viveva sopra, sulla tradizione, sulle distrazioni, sul parco
divertimenti, sulle giocate truffaldine. Li ricordate i gabbamondo? I venditori
ambulanti? I saltimbanchi? I cantastorie? I giocolieri e i giochetti di abilità
manuale? I buffoni? La gente del circo equestre? I funamboli? La donna cannone?
Il caccincùlo ?… Divertimenti? Povero
parco! Ma ci si divertiva ugualmente e qualcuno ci lasciava le penne e, in tal
caso, quel poveraccio tornava a casa più presto di quello che si sarebbe
immaginato. Chi restava senza soldi già al mattino? Chi si era fatto fregare da
quelli delle tre carte, dei tre campanelli. Esperienza personale.
Il Mercato e i suoi partecipanti
Non
la conosciamo a fondo la storia della Fiera, ma, le poche considerazioni che
sono state fatte, e le indicazioni in merito al consumo di bogóni delle
nostre generazioni passate, ci hanno convinto che non ci siamo sbagliati di
molto quando l’abbiamo inquadrata attorno al Mille. Poi siamo venuti a
conoscenza che quella di Borgo San Dalmazzo era stata autorizzata nientemeno che
da Emanuele Filiberto. A ogni buon conto, quella di Sant’Andrea, per favore,
lasciatecela immaginare la più antica di tutte.
Il
movimento di persone che continuano a recitare la loro preziosa parte nella
rappresentazione storica e umana del Marcà dei bogóni di Sant’Andrea,
la somma di emozioni che esso suscita in chi crede ancora nelle cose buone di un
tempo, sono e rimangono tuttora un esempio vivo di tradizioni che non hanno
intenzione di morire, di usanze che trovano una radice nell’affetto alla terra
e ai suoi prodotti.
Fino
a non molti anni addietro il giorno destinato alla manifestazione era il 30
novembre, ricorrenza del patrono: periodo indicato perché i bogóni si
opercolano con l’ultima luna di novembre. Ancora oggi, come nel passato, esso
si svolge nelle tenebre alla Triga, la parte più settentrionale dell’abitato,
dato che il mercato viene aperto alle 5 e 30 del mattino della prima domenica di
dicembre e si esaurisce nel giro di un’ora e mezza.
A
nulla sono valse le disposizioni del Comune ad aprire il mercato alle otto, in
un’ora più comoda per i visitatori.
Nel
cuore della notte arrivano i conferenti, una cinquantina, provenienti con il
loro carico dai Comuni di Badia Calavena, Selva di Progno, San Mauro di Saline,
Mezzane, Verona, Villafranca, Vestenanova, Crespadoro, Altissimo, Chiampo e da
altre zone delle province di Vicenza, Padova e Mantova.
Gli
acquirenti provengono fin dalle province di Brescia, Bergamo, Sondrio, Pavia,
Milano per mettere le mani su una quantità di bogóni che va complessivamente
dai venti ai trenta quintali. Può verificarsi una più significativa
diminuzione del prodotto offerto in vendita se nell’annata precedente i prezzi
erano stati troppo bassi. I montanari hanno memoria lunga e limitano l’impegno
di raccolta delle chiocciole. Inoltre, sempre più spesso, si riscontrano
difficoltà di opercolamento, dovute alla persistenza delle piogge e alle
temperature più elevate che comportano una scarsa reperibilità del prodotto
opercolato anche a livello europeo, soprattutto per le chiocciole provenienti
dalla Polonia, dalla Romania e dalla Moldavia. Di fronte all’aumento della
temperatura dovuto, come ormai è da tutti accettato, all’effetto serra,
neanche la vecchia Luna tiene più fede ai suoi influssi.
Le chiocciole che arrivano sul mercato di Sant’Andrea sono in gran parte provenienti dalla raccolta dei cercatori, per lo più anziani, che infreddoliti per l’ora antelucana, impreparati a difendere piccoli quantitativi di prodotto, quasi sempre disomogeneo, soccombono rassegnati ai prezzi imposti dai pochi acquirenti precedentemente accordatisi. Qui il garante della concorrenza non può intervenire. Da vent’anni a questa parte il prezzo di un chilo di bogóni oscillava tra le dodicimila e le ventimila lire, tra 6 e 10 Euro circa. Alla fiera del 2000 tuttavia si è avuto un incremento del 20 per cento rispetto all’anno precedente, forse per la scarsità della merce.
Per
tornare ad una storia più recente, quando sono partiti i nuovi festeggiamenti
della “Fiera” odierna?
Una
trentina di anni fa, quando la Pro Loco di Badia Calavena dapprima, poi la Pro
Loco attuale cominciò a interessarsi di questo fenomeno, unico nel suo genere
qui nel Veneto, della “Fiera e del mercato di Sant’Andrea” che aveva
superato brillantemente i secoli senza pubblicità o propaganda. Quando le varie
Amministrazioni comunali che si succedettero a Badia Calavena si ritennero in
dovere di partecipare contribuendo a dare un volto e un indirizzo nuovo alla
manifestazione e non solo a quella; quando anche la Comunità Montana della
Lessinia, l’Amministrazione Provinciale, la Camera di Commercio, il Consorzio
del Bima Adige e via via tutti gli altri enti pubblici capirono che il Marcà
dei bogóni di Sant’Andrea avrebbe potuto diventare uno dei più
importanti e interessanti appuntamenti economici —e non solo folklorici —nel
calendario delle fiere veronesi e non solo veronesi.
Un
gasteropode gigante in ferro battuto, opera dell’artista Gino Bonamini di
Cogollo, troneggia su di un masso precipitato alcuni anni or sono dall’alto
della montagna, ed ora posto ai piedi del paese, alte le corna come per fiutare
l’aria che tira da Valtanara o per captare la luce con i piccoli occhi
inalberati sulle antenne.
Gasteropode gigante in ferro battuto, opera dell’artista Gino Bonamini di Cogollo.
Il
maestro scultore del ferro, invitato dalla Pro Loco ad eseguire il lavoro, visto
il macigno, ha pensato subito come collocarvi sopra un bogón di forma classica
nell’atto di strisciare verso est. Ha dovuto faticare parecchio per ricavare
il guscio, perfetto nella sua spirale, dalle grandi lastre di lamiera dello
spessore di due millimetri battendole a caldo per parecchi mesi. È impossibile
calcolare quanti colpi di martello siano occorsi per trasformare una lamiera
piatta in un corpo tondeggiante perfetto nel giro delle spire. Ma, dal risultato
ottenuto, si può constatare che ogni colpo è stato assestato con intelligente
maestria. Maestria che si riscontra anche nella saldatura delle due parti del
guscio e del mollusco, e nell’aspetto finale raggiunto dopo la zincatura a
caldo, la verniciatura a spruzzo e l’imbrunitura a mano.
Il
bogón di due metri di lunghezza è diventato il simbolo del paese che è sede
di uno dei più antichi mercati di chiocciole d’Italia ed il logo
dell’Associazione Nazionale Elicicoltori. L’associazione Pro Loco con il suo
presidente Franco Gugole è riuscita ad erigere un monumento alla chiocciola,
quest’umile mollusco che negli anni di penuria ha qualche volta riempito lo
stomaco dei poveretti o ha fornito un pur piccolo aiuto alle loro scarse
entrate, ed ora promossa regina di piatti prelibati, è diventata protagonista
della festa. Una targa inchiodata sul masso reca la scritta in cimbro e la
traduzione:
Disan
pilastar vor me snecke
saib
an cenke in usarne tzimbarne laute,
in
die bo leban nau in disarne pergan
on
in die mo tze leban hen gamuzt ghian hia,
on
hia hen galat iz hertz.
«
Questa opera al “bogón” / sia anche un dono alla nostra popolazione cimbra,/
a quella che ancora vive tra queste montagne/
e anche a coloro che per vivere hanno dovuto andare via,/
ma che qui hanno lasciato il cuore ».