I bogóni e la “Fiera di Sant’Andrea” tra storia e tradizione.
di Piero Piazzola
Tradizione
Sant’Andrea di Badia Calavena. Il piú antico mercato dei bogóni d’Italia.
Sant’Andrea, ridente paese del comune di Badia Calavena, si distende con le sue case là dove la Val d’Illasi si squarcia a est per ricevere la confluente Val Tanara e concedersi al primo sole che rotola giù a illuminare il minuscolo campanile, la piazzetta e le contrade sparpagliate sui terrazzi alluvionali sulla destra del Progno, che hanno accolto i primi insediamenti, al riparo dai pericoli delle inondazioni: Docco, Carpene, Battisteri, Xami, Fietta. Più in basso, la Triga riceve la luce più tardi. Sulla sinistra del torrente, ancora in posizione elevata, troviamo Cisamoli e Trettene e poi, in Val Tanara, la cimbra Tannental, la valle degli abeti, Croste , Salgari e Caveci e, di nuovo fuori da Val Tanara, Valcava, Stizzoli, Santoli e Ca’ del Diaolo.
Lo strano nome di questa contrada avrebbe un’origine controversa, raccontata da due storie differenti. Una dice che il parroco, andatovi a prelevare un morto, sentendo provenire bestemmie e grida di giocatori dall’osteria vicina all’abitazione del defunto, abbia esclamato al colmo dell’indignazione: “Qui è la casa del diavolo”. La seconda storia narra di misteriosi rumori, come di sferragliar di catene, percepiti dai viandanti che di notte transitavano sulla strada alta che dai Pergari conduce alla Fietta, e dagli stessi abitanti della contrada, che rabbrividivano di spavento a quel suono sinistramente diabolico. E’ intervenuto il prete che ha impartito una benedizione e collocato una croce di pietra, tuttora esistente. In seguito le notti sono ritornate tranquille.
Quello
di Sant’Andrea era un mercato importante, con settori distinti, secondo la
specie degli animali, e comprendeva un elevato numero di scambi. Nel prato tra
la piazza e l’antica trattoria della “Gata”, c’era il parco divertimenti
e il mercato del bestiame bovino. Il Parco divertimenti non poteva mai mancare
— una volta e nemmeno adesso — in una fiera che si rispettasse. Più a nord,
lungo la strada che porta a Selva di Progno c’è sempre stato El marcà dei
bogóni. Chi lo dice? La tradizione. E la tradizione il più delle volte fa
storia, quando mancano documenti che non dicono diversamente.
E
se la tradizione orale afferma che il mercato dei bogóni si teneva
all’alba e in quella parte del paese e che c’è sempre stato, vuol dire che
novanta su cento è un fatto storico.
Nei
primi anni della mia adolescenza, quando venivo a Sant’Andrea in
occasione della Fiera dei bogóni, come era in altro modo chiamata
la Fiera di Sant’Andrea, andavo per l’appunto a curiosare tra le abitudini e
domandavo spiegazioni. Un domanda che ho rivolto spesso a tanta gente: — Ma da
quando tempo si tiene questo mercato? La risposta, in una forma o nell’altra,
era pressappoco questa: Me nono, me pupà, i nostri veci i me contava che la
gh’è sempre stà cossìta ed ho potuto constatare de visu che
veramente la fiera dei bogóni si svolgeva di mattino, ancora quasi al
buio, come di tradizione; ma ho anche potuto notare con qualche malizia che
quell’atmosfera non era proprio del tutto tranquillizzante, rilassata; cioè
non tutto si svolgeva all’insegna dell’indifferenza. Compratori e venditori,
ammiccavano, si facevano l’occhiolino; sembrava che cercassero di nascondere
qualcosa. Insomma non si fidavano né dell’oscurità né delle disposizioni
superiori e neanche di chi stava curiosando. Forse lo facevano anche per
imbrogliare i bogonàri.
I
bogóni — nei miei ricordi
personali — andavo anch’io a raccoglierli perché mio nonno e mio zio si
erano costruita una bella bogonàra, fatta come dio comanda, e anch’io
nella tarda estate li raccoglievo e li mettevo in bogonàra e andavo a
cercare le sbardanàsse (le foglie di bardana) e ogni tanto, in
primavera, ne cucinavamo una cinquantina; noi non li portavamo a Sant’Andrea
per venderli, ma li tenevamo in serbo per quando veniva il tempo di
mangiare di magro. Famiglia numerosa, la nostra, e tanta fame.
“Mangiar
di magro” per modo di dire, perché di magro si mangiava spesso, soprattutto
durante la Quaresima. E il nostro calendario, a quei tempi, registrava
“quaresima” parecchie volte all’anno. La carne, che io sappia, si mangiava
(ma con molta sobrietà) il giorno della sagra o il giorno del matrimonio o nel
giorno del funerale di qualcuno della famiglia. Il pesce era un genere che si
poteva dire impossibile: sia per la distanza dal mare o dal lago dove si
pescava, sia perché non v’erano mezzi per mantenerlo fresco, sia perché per
quando arrivava fino al mio paese, lassù oltre i 1200 metri di altitudine,
dentro la cesta di un rivenditore in bicicletta…….costava tanto e puzzava
…troppo. Così pure per il bacalà.
E
allora, bogóni. Ma anche i bogóni non è detto che si
sprecassero inutilmente; è vero che costavano niente se non la fatica di andar
a raccattarli. Ma in tavola pochi bogóni, tagliuzzati sottili sottili,
un po’ di pocio e soprattutto tanta tanta polenta;…ti so dire io che
piatto!
Spariti i bogóni acquistati dai pochi grossisti precedentemente accordatisi sul prezzo, la sagra continuava con il viavai della folla tra i numerosi banchetti che esponevano le più varie mercanzie, dagli indumenti alle scarpe, ai giocattoli, al mandorlato ed allo zucchero filato. La sagra di Sant’Andrea con la fiera dei bogóni, ultima nel corso dell’anno tra tutte quelle dell’alta Val d’Illasi, era occasione di incontro, non solo per i morosi, di allegria, di festa nella migliore tradizione della gente di montagna.
Fino
agli anni Cinquanta gli alunni delle scuole elementari di tutta la zona
disertavano in massa le lezioni e calavano a frotte da Giazza e dalle contrade
di Campofontana, di San Bortolo, di Sprea, di Velo
con pochi o senza soldi in tasca, ma con un prezioso sacchetto di bogóni
in mano da trasformare in lire, sufficienti forse per acquistare una stecca di
mandorlato, una carruba o per fare un giro in giostra. Nei tempi passati i
molluschi portati dai ragazzi davano un sensibile incremento alla quantità del
prodotto.
Per
togliere da un calendario inesistente, ma ben radicato nelle consuetudini, un
giorno di vacanza abusivo, non previsto dal calendario ufficiale, il direttore
didattico di Tregnago Beniamino Tagliaro diramò una bonaria circolare, nella
quale lamentava che «quando la giostra gira all’equatore si fa festa anche ai
poli».
Alla
sera in qualche osteria ragazzi e ragazze intrecciavano danze ritmate dal suono
di una fisarmonica. Forse per questo la fiera di Sant’Andrea era considerata
la “Fiera dei morosi”. E le ragazze, per l’occasione, erano lasciate
libere di parteciparvi senza la compagnia di un fratello o altra guardia del
corpo, sembrerà strano; i genitori che tenevano sott’occhiole figlie come
delle “galeotte”, in quell’occasione le…lasciavano andare. Tuttavia noi
si veniva a Sant’Andrea anche per il fatto che essa costituiva l’ultima sagra
dell’anno e chi aveva la morosa per quel giorno poteva…godersela..
Ed
era quello, allora, il momento giusto per piantar el moróso vècio,
che non andava più e di trovarsene un’altro. Era quello il giorno dei
cosiddetti sachi e della restituzione dei pegni (l’anèl, la colàna,
el fassoléto da testa ecc.).. Ci sarebbe tutta una storia da raccontare.
Un
giovanotto forestiero che nei locali della “Colomba” si azzardò a chiedere
un triplesec si sentì rispondere che non avevano trippe secche, ma solo bogòni:
nei primi anni cinquanta i liquori sofisticati non erano ancor arrivati negli
esercizi dell’alta valle.
La
“Fiera di Sant’Andrea” che non era solamente il marcà dei bogóni
o solo quello; era anche un’altra cosa. Quello dei bogóni era il
mercato minore, collaterale, ma non meno importante (e interessante sotto
l’aspetto folkoristico), tant’è vero che ha lasciato il nome alla fiera. Il
mercato più importante, quello che attirava la gente che di norma non si
muoveva mai di casa — soprattutto le donne —, fatto di articoli di
secondaria importanza, voluttuari se vogliamo, era la sagra, la “Sagra de
Sant’Andrea”. E “sagra” significava non solo divertimento, ma anche
banchéti, pochi, ma belli, interessanti, il parco divertimenti, i giochi. La
gente che si muoveva solo o quasi una volta all’anno, alla Fiera di
Sant’Andrea costituiva una compresenza coreografica non solo necessaria ma
anche utile.
Quanta
gente ci viveva sopra, sulla tradizione, sulle distrazioni, sul parco
divertimenti, sulle giocate truffaldine. Li ricordate i gabbamondo? I venditori
ambulanti? I saltimbanchi? I cantastorie? I giocolieri e i giochetti di abilità
manuale? I buffoni? La gente del circo equestre? I funamboli? La donna cannone?
Il caccincùlo ?… Divertimenti? Povero
parco! Ma ci si divertiva ugualmente e qualcuno ci lasciava le penne e, in tal
caso, quel poveraccio tornava a casa più presto di quello che si sarebbe
immaginato. Chi restava senza soldi già al mattino? Chi si era fatto fregare da
quelli delle tre carte, dei tre campanelli. Esperienza personale.
Il Mercato e i suoi partecipanti
Non
la conosciamo a fondo la storia della Fiera, ma, le poche considerazioni che
sono state fatte, e le indicazioni in merito al consumo di bogóni delle
nostre generazioni passate, ci hanno convinto che non ci siamo sbagliati di
molto quando l’abbiamo inquadrata attorno al Mille. Poi siamo venuti a
conoscenza che quella di Borgo San Dalmazzo era stata autorizzata nientemeno che
da Emanuele Filiberto. A ogni buon conto, quella di Sant’Andrea, per favore,
lasciatecela immaginare la più antica di tutte.
Il
movimento di persone che continuano a recitare la loro preziosa parte nella
rappresentazione storica e umana del Marcà dei bogóni di Sant’Andrea,
la somma di emozioni che esso suscita in chi crede ancora nelle cose buone di un
tempo, sono e rimangono tuttora un esempio vivo di tradizioni che non hanno
intenzione di morire, di usanze che trovano una radice nell’affetto alla terra
e ai suoi prodotti.
Fino
a non molti anni addietro il giorno destinato alla manifestazione era il 30
novembre, ricorrenza del patrono: periodo indicato perché i bogóni si
opercolano con l’ultima luna di novembre. Ancora oggi, come nel passato, esso
si svolge nelle tenebre alla Triga, la parte più settentrionale dell’abitato,
dato che il mercato viene aperto alle 5 e 30 del mattino della prima domenica di
dicembre e si esaurisce nel giro di un’ora e mezza.
A
nulla sono valse le disposizioni del Comune ad aprire il mercato alle otto, in
un’ora più comoda per i visitatori.
Nel
cuore della notte arrivano i conferenti, una cinquantina, provenienti con il
loro carico dai Comuni di Badia Calavena, Selva di Progno, San Mauro di Saline,
Mezzane, Verona, Villafranca, Vestenanova, Crespadoro, Altissimo, Chiampo e da
altre zone delle province di Vicenza, Padova e Mantova.
Gli
acquirenti provengono fin dalle province di Brescia, Bergamo, Sondrio, Pavia,
Milano per mettere le mani su una quantità di bogóni che va complessivamente
dai venti ai trenta quintali. Può verificarsi una più significativa
diminuzione del prodotto offerto in vendita se nell’annata precedente i prezzi
erano stati troppo bassi. I montanari hanno memoria lunga e limitano l’impegno
di raccolta delle chiocciole. Inoltre, sempre più spesso, si riscontrano
difficoltà di opercolamento, dovute alla persistenza delle piogge e alle
temperature più elevate che comportano una scarsa reperibilità del prodotto
opercolato anche a livello europeo, soprattutto per le chiocciole provenienti
dalla Polonia, dalla Romania e dalla Moldavia. Di fronte all’aumento della
temperatura dovuto, come ormai è da tutti accettato, all’effetto serra,
neanche la vecchia Luna tiene più fede ai suoi influssi.
Le
chiocciole che arrivano sul mercato di Sant’Andrea sono in gran parte
provenienti dalla raccolta dei cercatori, per lo più anziani, che infreddoliti
per l’ora antelucana, impreparati a difendere piccoli quantitativi di
prodotto, quasi sempre disomogeneo, soccombono rassegnati ai prezzi imposti dai
pochi acquirenti precedentemente accordatisi. Qui il garante della concorrenza
non può intervenire. Da vent’anni a questa parte il prezzo di un chilo di bogóni
oscillava tra le dodicimila e le ventimila lire, tra 6 e 10 Euro circa. Alla
fiera del 2000 tuttavia si è avuto un incremento del
20 per cento rispetto all’anno precedente, forse per la scarsità della merce.
Per
tornare ad una storia più recente, quando sono partiti i nuovi festeggiamenti
della “Fiera” odierna?
Una
trentina di anni fa, quando la Pro Loco di Badia Calavena dapprima, poi la Pro
Loco attuale cominciò a interessarsi di questo fenomeno, unico nel suo genere
qui nel Veneto, della “Fiera e del mercato di Sant’Andrea” che aveva
superato brillantemente i secoli senza pubblicità o propaganda. Quando le varie
Amministrazioni comunali che si succedettero a Badia Calavena si ritennero in
dovere di partecipare contribuendo a dare un volto e un indirizzo nuovo alla
manifestazione e non solo a quella; quando anche la Comunità Montana della
Lessinia, l’Amministrazione Provinciale, la Camera di Commercio, il Consorzio
del Bima Adige e via via tutti gli altri enti pubblici capirono che il Marcà
dei bogóni di Sant’Andrea avrebbe potuto diventare uno dei più
importanti e interessanti appuntamenti economici —e non solo folklorici —nel
calendario delle fiere veronesi e non solo veronesi.
Un
gasteropode gigante in ferro battuto, opera dell’artista Gino Bonamini di
Cogollo, troneggia su di un masso precipitato alcuni anni or sono dall’alto
della montagna, ed ora posto ai piedi del paese, alte le corna come per fiutare
l’aria che tira da Valtanara o per captare la luce con i piccoli occhi
inalberati sulle antenne.
Il
maestro scultore del ferro, invitato dalla Pro Loco ad eseguire il lavoro, visto
il macigno, ha pensato subito come collocarvi sopra un bogón di forma classica
nell’atto di strisciare verso est. Ha dovuto faticare parecchio per ricavare
il guscio, perfetto nella sua spirale, dalle grandi lastre di lamiera dello
spessore di due millimetri battendole a caldo per parecchi mesi. È impossibile
calcolare quanti colpi di martello siano occorsi per trasformare una lamiera
piatta in un corpo tondeggiante perfetto nel giro delle spire. Ma, dal risultato
ottenuto, si può constatare che ogni colpo è stato assestato con intelligente
maestria. Maestria che si riscontra anche nella saldatura delle due parti del
guscio e del mollusco, e nell’aspetto finale raggiunto dopo la zincatura a
caldo, la verniciatura a spruzzo e l’imbrunitura a mano.
Il
bogón di due metri di lunghezza è diventato il simbolo del paese che è sede
di uno dei più antichi mercati di chiocciole d’Italia ed il logo
dell’Associazione Nazionale Elicicoltori. L’associazione Pro Loco con il suo
presidente Franco Gugole è riuscita ad erigere un monumento alla chiocciola,
quest’umile mollusco che negli anni di penuria ha qualche volta riempito lo
stomaco dei poveretti o ha fornito un pur piccolo aiuto alle loro scarse
entrate, ed ora promossa regina di piatti prelibati, è diventata protagonista
della festa. Una targa inchiodata sul masso reca la scritta in cimbro e la
traduzione:
Disan
pilastar vor me snecke
saib
an cenke in usarne tzimbarne laute,
in
die bo leban nau in disarne pergan
on
in die mo tze leban hen gamuzt ghian hia,
on
hia hen galat iz hertz.
«
Questa opera al “bogón” / sia anche un dono alla nostra popolazione cimbra,/
a quella che ancora vive tra queste montagne/
e anche a coloro che per vivere hanno dovuto andare via,/
ma che qui hanno lasciato il cuore ».