Ponte del Cristo e dintorni negli anni del 1950
di
Attilio G. Scolari
Sono nato a San Martino in via Piave al n.3, ma subito dopo i miei si trasferirono in una casa (1), situata in prossimità del Ponte del Cristo sul fiume Fibbio. Essa si trovava proprio a ridosso di una delle chiuse “ciaighe” del laghetto che servivano a regolare l’acqua dei vari mulini ivi esistenti, cioè proprio dove adesso c’è lo studio di un architetto.
Ho abitato lì fino al quinto anno di età. I miei ricordi di quel tempo sono vivissimi perché come un cucciolo di animale in quel luogo ho incominciato a fare la mia conoscenza del mondo, delle avventure e dei pericoli.
Per me il posto era bellissimo e tuttora conserva intatto il suo fascino.
Dal piccolo poggiolo anteriore, situato al primo piano, si osservava tutto ciò che passava sulla statale 11. Allora era sempre un evento veder transitare il TRAM, i carretti, le colonne dei mezzi militari o il carro che in estate passava a spruzzare l’acqua sulle rotaie e sulla strada per evitare che si sollevasse la polvere e forse per raffreddare le rotaie per evitarne la deformazione.
C’era tutto, in quei pochi metri, che consideravo vastissimi, perché contenevano un micromondo da esplorare da conoscere ed ogni giorno riservava una sorpresa. Ma quello che più mi attraeva in tutta la zona erano i mulini, ce n’erano molti e tutti utilizzati da quella “piccola zona industriale” nata grazie alla forza motrice delle acque del Fibbio e dei suoi fossi, che erano elemento vitale per i residenti ed il paese. Chi è venuto a stare a San Martino dopo gli anni sessanta non sa che le varie strade coprono vene d’acqua che in precedenza scorrevano a cielo aperto.
Nelle case, a quell’epoca, c’era la corrente elettrica anche se era la 125 e non la 220 come ora, per cui si potevano utilizzare le lampadine per l’illuminazione notturna e far funzionare le prime radio che erano dei veri mobili in legno. La famiglia si riuniva davanti ad esse per ascoltare i programmi, come più tardi, per un certo periodo, si è fatto davanti al televisore.
Non c’era però l’acquedotto e così per avere in casa l’acqua potabile, era necessario andare a prenderla alla pompa (2), con dei secchi in ferro: operazione che di solito era demandata alle donne. La pompa più vicina a casa mia si trovava dall’altra parte della statale a lato dell’ “ostaria del Fante” in uno spazio tra le case, dove oltre alla pompa c’erano i vespasiani. Poi i secchi venivano appesi a ganci sopra il secchiaio che di solito era ricavato da una lastra di marmo. L’acqua di scarto andava a defluire nel fossato vicino, anche i servizi igienici avevano uno scarico diretto sui fossi. Nella mia casa il servizio igienico era pensile e scaricava direttamente nel fosso da un’altezza di circa 3,5 mt.
Come ogni bambino, appena potevo, correvo giù in corte a giocare.
La corte dei Gonella (3).
Quella che veniva chiamata la corte dei Gonella (cenni storici della famiglia Gonella) era il complesso delle case che costituiscono, anche oggi, la continuazione della casa che dal ponte del Cristo va verso la ex sala cinematografica ( il mitico cinema Felisi!!!) e proseguiva poi sul retro fino alla segheria (oggi casa Felisi). Allora oltre alle abitazioni c’era un vero e proprio insediamento artigianale.
Nella prima casa, subito giù nel vallo della corte, c’era un’azienda artigianale di produzione di materiale abrasivo (4) per la fabbricazione della “carta vetrata”. In pratica arrivava, trasportata dai carri, la pietra selce che veniva poi macinata da un mulino che ne polverizzava le scaglie a seconda della grana richiesta. Era un luogo che frequentavo “da lontano” in quanto i proprietari ne vietavano l’ingresso per ragioni di sicurezza: infatti c’erano delle pulegge con dei nastri (cinghie) che giravano a velocità folle, ed allora non c’erano protezioni: solo l’attenzione evitava incidenti.
La corte era piena di scarti di questa attività produttiva e mi ricordo che tante volte mi sono tagliato, giocando, su quel terreno.
In precedenza sempre lo stesso mulino era stato utilizzato per macinare il grano ed il frumento.
In fondo alle case a schiera, c’era invece un portone (c’è anche oggi) in legno, dove c’era un deposito di carbone (5) ed una pesa. Lì si andava a comprare il carbone per il riscaldamento. Tale magazzino, però, prima di allora era servito per la lavorazione e lo smistamento degli stracci e successivamente e divenuto anche deposito per altre attività, bibite e ghiaccio che veniva distribuito a chi in paese possedeva la “giasara”: il frigorifero elettrico ancora non si usava.
Deposito
di legname nella corte.
Nella corte c’era un vastissimo deposito di tronchi d’albero che venivano trasportati lì per essere lavorati. Arrivavano su carri trainati da enormi cavalli, bardati di tutto punto con paraocchi, basto e cinghie.
Mentre procedevano le operazioni di carico e scarico, al cavallo veniva infilato davanti alla bocca un sacco di iuta con dentro il fieno, così poteva mangiare e ristorarsi.
A spostare il legname nella corte sia per la prima lavorazione che da e verso la segheria dove venivano prodotte le tavole di legno, venivano usati degli appositi carretti che agganciavano, con delle catene, i tronchi sollevandoli. Questi venivano chiamati in dialetto “diaolo”: c’è n’erano di tre misure piccolo, medio e grande, normalmente veniva usato il medio. Il traino era fatto dagli uomini: in questa fase non si usava il cavallo.
In corte, i tronchi venivano ripuliti il più possibile dagli “spuntoni dei rami” e segati ad una lunghezza standard. Poi venivano impilati e trattenuti con cambre di ferro. Era un deposito a cielo aperto, dove da bambino ho giocato molto, saltando da un tronco all’altro, infilandomi pericolosamente in stretti tunnel che si creavano tra di essi, arrampicandomi fin dove potevo, e correndo sulle tavole lavorate che attendevano di essere ritirate dai compratori.
Dietro le case c’era un piccolo ponte che congiungeva ad un isolotto al centro dei due rami del Fibbio, sul lato sinistro del ponte, prima di transitarlo, c’era il posto per i lavandari (6) di legno, dove le donne andavano a lavare i panni. I lavandari appartenevano alle varie famiglie e, dopo essere stati usati, venivano tirati su e lasciati sul posto, In quel punto l’acqua non era profonda e la corrente, non eccessiva, formava una larga pozza dove il gioco preferito per noi bambini era dato dall’utilizzare i lavandari come zattere per navigare e d’estate il contatto con l’acqua, pulitissima, era stupendo. Inoltre, quando abbassavano le chiuse diveniva anche un punto dove si potevano catturare pesciolini con mezzi rudimentali (barattoli , retine, o a mani nude).
Passato
il ponte sulla destra c’erano i mulini ed a sinistra sul fondo della striscia
di terra, bagnata ai due lati dai rami del Fibbio, c’era un capanno in
legno dove lavorava, quasi a tempo pieno, un fabbro
(7).
Dentro al capanno c’erano: il banco da lavoro, gli attrezzi, una forgia con il mantice a mano, un’incudine, ed un bidone dell’acqua che serviva a raffreddare il ferro rovente ed una mola, per smerigliare, mossa da un piccolo mulino.
Ho trascorso molte ore in quel luogo, per me affascinante, a sentirmi raccontare le storie e mentre le ascoltavo imparavo il mestiere del fabbricatore di cambre, aiutando Guido Gonella, come potevo, nelle sue incombenze.
Era un uomo che lavorava senza soste con attività diverse in quanto faceva il fabbro, il meccanico ed aiutava anche in corte per la movimentazione del legname.
Io ero affascinato specialmente quando lo vedevo nella sua opera di fabbro, mentre usava il mantice, la forgia, e quando dava i colpi di martello sul ferro rovente posto sull’incudine che facevano sprigionare scintille sfarfallanti nell’aria …… ma provavo anche un vero piacere nel trascorrere le ore in sua compagnia perché era buono e paziente con un bambino come me che ero come “l’argento vivo”.
La segheria (8)
Subito dopo il ponte che portava all’isolotto, a destra c’era il caseggiato della Segheria. Da lontano prima di arrivarci si sentiva il rumore sordo delle pulegge e delle macchine che incuteva un certo timore. Ed il cuore, man mano che ci si avvicinava batteva sempre più forte. Tutto era mosso dalle pale dei mulini che azionavano vari macchinari. L’uomo doveva intervenire in più punti per governare quella fabbrica.
Le chiuse sul Fibbio regolavano la potenza dell’acqua sulle pale dei mulini, gli ingranaggi collegati alle pale mettevano in moto poi, azionati da delle leve, gli ingranaggi delle pulegge che con dei nastri (cinghie) erano collegate ai macchinari.
Per quel che mi ricordo i macchinari fondamentali erano due. Le seghe orizzontali ed i carrelli su rotaia mossi da una cremagliera. Lì venivano segati i tronchi per fare le assi di legno. Il tronco era posto sul carrello posizionato sui binari di ferro che, mosso dalla cremagliera, avanzava verso la sega orizzontale per essere tagliato con lo spessore desiderato.
Anche lì trovavo motivo per il gioco. Di nascosto, con mia sorella salivamo su di un carrello per farci trasportare fin sotto alla sega, per poi balzare giù. Un giorno però andò diversamente e caddi all’interno del carrello rimanendo impigliato con la maglietta nella cremagliera, mentre inesorabile la corsa proseguiva verso la lama della sega. Fortuna volle che l’operaio mi vide e sganciò le pulegge a pochi metri dalla fine….una scena da film horror!! Dopo di allora non ho più giocato con … quel trenino.
Sempre in zona, c’erano nelle altre corti, il molino Provolo ed il molino Mercanti.
Il
Laghetto del Fibbio.
Dalla parte della statale, tra il ponte del Cristo e la Segheria, c’era il laghetto del Fibbio con la cascata d’acqua provocata dalla chiusa. Vicino al capitello dietro al monumento dei caduti, si trovava lo scivolo per le lavandaie (9). Era stupendo il posto anche per i colori, l’acqua era abbondante, il fondale era tenuto pulito: era un punto d’incontro per i giovani.
Oltre a lavare i panni c’era chi d’estate si tuffava giù dal ponte (qualche temerario anche d’inverno) e faceva il bagno, chi pescava e chi andava con dei barchini, soprattutto alla domenica a farsi un giro. Più di una volta sono salito su quei barchini neri (stretti come le gondole) e si risaliva la corrente passando sotto i due ponti per poi proseguire dietro la cereria Barbieri fin dove era possibile.
Uno degli ultimi ricordi che ho di quel luogo è questo: ero sul poggiolo di casa assieme a mia madre a veder transitare i carri armati che da Verona andavano verso Vicenza (dove c’era il comando della SETAF), e ne abbiamo visto uno che all’improvviso, perso il controllo per un blocco al nastro cingolato di sinistra, si è diretto senza fermarsi, a sfondare il parapetto del ponte del Cristo precipitando poi in acqua e sprofondando nel fango del letto del fiume. Furono momenti di terrore, perché alcuni militari riuscirono ad aprire il portello e vennero fuori subito mentre chi si trovava alla guida era ancora sott’acqua. Fu una corsa contro il tempo per estrarre gli occupanti vivi. Alla fine furono tutti tratti in salvo, il più grave lo portarono a casa mia, in attesa dei soccorsi e fu sdraiato tutto fradicio sul letto di casa.