Di
Piero Piazzola
Il termine “Sprontai”, così com’è pronunciato dalla gente a Campofontana, è una storpiatura del toponimo cimbro prundetàl che significa “vajo del torrente”. La zona del paese denominata con tale termine corrisponde sul terreno al territorio che abbraccia gli imbocchi delle strade per contrada Muschi e per contrada Flori, la strada delle cosiddette “Rive di Campo di Fuori”, costruita tra il 1915-1918, sulla quale insiste un capitello dedicato alla Madonna, e termina nel precipizio del cosiddetto “Cóvolo”, una parete rocciosa di una cinquantina di metri di altezza, sotto la quale si è venuto a formare un gran riparo naturale.
Il
toponimo conferma proprio la conformazione del terreno. Di lì, infatti,
transita un vajo di scorrimento delle acque piovane che poi va a forgiare
la parete del cóvolo. Anticamente il vajo serviva anche da mulattiera,
da scorciatoia, da sentiero, insomma, che congiungeva Campofontana a Selva di
Progno. Sentiero per il quale fu costretto a passare anche il vescovo Alberto
Valier nel 1613, il 9 luglio. La cronaca del trasferimento da Campofontana a
Selva di Progno, lungo appunto la strada del cóvolo, tra l’altro,
recita che l’unica via comunis è stretta, precipitosa e
dirupata. A metà strada, infatti, il presule è costretto a … desilire à
Mula et pededentim, scendere dalla mula e proseguire a piedi per oltre un
chilometro fino a Selva di Progno, tra macigni e sentieri stretti e difficili da
transitare.[1]
Attorno
al capitello la credenza popolare ha voluto creare anche una leggenda per
giustificarne la posizione e motivarne la sistemazione; giustificazione che
peraltro ha origini molto discordanti. Il capitello è stato costruito per
“GRAZIA RICEVUTA”, e inoltre per mettere un segno alla via, come tanti altri
capitelli e stele che fungevano da segnaletica. La leggenda è la seguente. Me
l’ebbe a raccontare Domenico Tornieri negli anni Sessanta del secolo passato.
«Quando ero bambino sentivo raccontare durante i “filò” che una volta la gente assicurava che in un bosco di Campo di Fuori, a Campofontana, c’era un uomo piccolo, piccolo, che era chiamato l’”Ometto”. Una bella sera alcuni dissero: —Andiamo a vedere questo benedetto “Ometto”. Quando però furono nel bosco, videro due luci forti e abbaglianti e qualcuno sussurrò: — Ma quelle luci sono prodotte da qualche ceppo d’albero bagnato o marcio sotto i riflessi della luna; andiamo avanti. Invece, qualche attimo dopo, quelle luci scomparvero e tutti videro una grande ombra di cavallo, ma del cavallo videro solo la testa e le zampe. Poi il cavallo si trasformò in un basilisco, che aperse le ali e, volando via, andò a posarsi sopra i faggi del bosco degli “Sprontài”. In quel posto, allora gli abitanti delle contrade vicine, piantarono una croce che c’è tuttora e assicurano che ve l’hanno messa apposta per tenere lontano l’Orco e il Basilisco »..
Non
è la prima volta, questa, che si sente parlare del basilisco. Cos’era
o, meglio ancora, chi era il Basilisco? Se prendi a salire lungo la
strada che da contrada Cancellata di Selva di Progno sì inerpica verso
Campofontana, la prima contrada che incontri sulla tua sinistra è Vanti,
ubicata sul costone boscoso di un monte che si staglia nel cielo a schiena
d’asino: nella toponomastica locale, che è “cimbra” anche in quei
paraggi, quel dosso aguzzo e lungo viene chiamato Aisaróche o
anche Esaróche. I due termini che compongono il nome sarebbero: eitzan
e loche (pascolo delle fiamme) oppure eitzan e roche
(pascolo del fumo); più probabile la seconda spiegazione per un motivo di
natura popolare.
A
metà della valletta che costeggia l’Aisaróche si possono vedere
ancora uno spiazzo pianeggiante, un posto di carbonaia in altre parole, e una
specie di pozzo, che era una calcàra, una fornace in pratica dove si
preparava la calce. Quando le due attività erano in piena funzione — di
solito in autunno, ed io ebbi la fortuna una volta di essere presente alla
benedizione solenne dell’accensione contemporanea della calcàra e
della carbonara — da quel luogo che ancora adesso è chiamato “Calcàra”,
si alzavano lunghe colonne di fumo che andavano a toccare la “schiena
d’asino” dell’Aisaróche e davano l’impressione che ci fosse un
essere ultraterreno che spaziasse ad ali spiegate sopra la valle. Da questo
paventato sbigottimento interiore e dalla paura di incontrare
quell’“essere” è nata, probabilmente, la leggenda del Basilisco
che sprizzava fuoco, vapori e fiamme da tutte le aperture facciali.
Perché
si chiama Basilisco? Giuseppe Rama, un bravo ricercatore e studioso del
folklore veronese, ne ha trattato in lungo e in largo le sembianze storiche e
scientifiche che ci permettono di abbozzarne i lineamenti più caratteristici
presenti nella favolistica popolare veronese. Anzitutto si chiama così perché
deriva dal greco βασιλισκός
(basiliscòs) e da βασιλήυς (basilèus),
che vuol dire piccolo re, regulus in latino, reuccio. Tanto per dire che
era conosciuto anche antichissimamente, la Bibbia lo cita col nome di tsepha,
simbolo del male, del peccato. Ed era considerato il re dei serpenti e di tutti
gli esseri viventi ad eccezione dell’uomo; probabilmente fu lui a tentare Eva.
L’iconografia cristiana mette accanto a San Giorgio e a Santa Margherita d’Antiochia
un mostro, un “drago”, che altro poi non è che la bella copia del Basilisco.
De
Plancy, nel suo “Dizionario infernale”, lo descrive: «Piccolo serpente
lungo mezzo metro, conosciuto solo dagli antichi. Aveva due speroni, testa e
cresta di gallo, ali, e una normale coda di serpente. Tanti affermano che nasce
dall’uovo di una gallina, covato da un serpente o da un rospo…si ritiene che
esso possa uccidere con lo sguardo… ». Queste alcune informazioni che ci
vengono dall’antichità. Ma vediamo adesso a cosa ne dicono i veronesi.
A
Vestenanova lo chiamano scurzón, un rettile cioè, ne più né meno,
simile al carbonazzo, rettile che conosciamo bene tutti.
Anche
a Cazzano di Tramigna sembra essere un carbonasso, ma con delle piccole
ali membranose, il capo adorno di una cresta carnosa di colore rosso fuoco,
aggressivo se è disturbato.
A
Castrano, nel Vicentino, è un serpente velenoso, di color rosso striato che
vive nei boschi, con piccole ali, cresta di gallo, zampe, e in testa porta un
rubino. A Cogollo è una piccola serpe di colore rossiccio, cresta di gallo, e
due piccole zampe.
A
Sant’Andrea, l’animale raggiunge dimensioni di circa 10-15 centimetri e
insidia le persone con il suo “magnetismo”, che si crede lo renda capace di
immobilizzare, di incantare in dialetto, le persone. Si rigenera da solo,
quando, inavvertitamente, falciando il fieno, si decapita una vipera. Alcune
memorie orali di montanari della Val Tanara di Sant’Andrea, raccolte
direttamente da Giuseppe Rama, affermano: « Maria, me passà sora la testa
un basilisco l’altro giorno che se el me ciapa el me cópa ». Un’altra
persona risponde: - Ce ne sono in giro! Ne ho visti tanti sopra il fienile!
A
Campofontana il basilico, come si è visto, aveva la sua dimora nel bosco dei Sprontài,
ma appariva ai mortali soprattutto nella valle dell’Aisaróche e
sprizzava fuoco, fiamme e vapori da tutte le aperture facciali contro i poveri e
disarmati passanti.
A
San Mauro di Saline era un essere simile a una lucertola che volava, aveva lo
sguardo micidiale e con gli occhi immobilizzava la gente che diventava di sasso.
A
Camposilvano il basilisco nasceva da un uovo di gallo (maschio) che deponeva
ogni cento anni; aveva la cresta e assomigliava a un drago.
A
Cerro il basilisco viveva in una spelùga (una cavità naturale) del Vaio
del Posso, ed era fatto come un serpente, lungo mezzo metro, con una cresta
rossa e ali membranose; emetteva un sibilo terrificante, era velenoso e spiccava
.lunghi balzi aiutandosi con le sue zampette.
Nella
zona di Romagnano, tra Lumiago e il Vajo della Pissavacca, il basilisco era
conosciuto come un serpente alato, velenoso, di color rosso vivo, con cresta di
gallo e con un comportamento aggressivo, tanto che esiste il detto: «Te sì
rabioso come on basilisco».
Nella
zona di Erbezzo un signore anziano dice che nella curva prima di entrare in
paese, incontrava spesso il basilisco fermo ad aspettarlo; aveva una cresta di
gallo, corpo rossastro e due piccole ali come quelle di un pipistrello.
A
Breonio-Fosse, vicino alla contrada Casaróle, vedevano spesso il basilisco;
dalle descrizioni che ne hanno fatto le persone del luogo, prendeva le medesime
sembianze già raccolte in altre zone della Lessinia: corpo rossastro, cresta di
gallo, ali membranose, zampette corte, lunghezza di mezzo metro circa, sguardo
micidiale, velenoso, capace di far lunghi balzi.
Per
concludere. In realtà il Basilisco esiste in carne e ossa e viene
identificato in un rettile dell’America tropicale appartenente all’ordine
dei Sauri, famiglia degli Iguanidi, della lunghezza di 50-80 centimetri. Il
maschio ha il capo ornato da una cresta di forma triangolare; un’altra cresta
corre lungo tutto il dorso. Ha colore variabile che va dal verde al
bruno-olivastro, una lunga coda, ma è innocuo.Vive di preferenza sugli alberi,
si nutre di vegetali e d’insetti.
Una
pittrice veronese, Giulia Pianigiani, in conformità a tutte le informazioni
raccolte, in un suo acquerello immagina un Basilisco
che vola e che
sprigiona fuoco dalla bocca.
[1]
- Il testo latino della relazione recita: … et continuando iter
predictum et descendendo e montanea, propter difficultatem ipisius itineris
et descensionis, idem illustrissimus dominus episcopus cum sua famiglia
caoctus fuit desilire a mula et
pededentim ab ipsa montanea discendere, cun gravi difficultate, tum propter
angustiam semitae, tum etiam propter multitudinem saxorum et longitudinem
ipsius decsndionis, quae fuit circa dimidium miliare…