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IL FORTE DI SAN BRICCIO

 

 di Renzo Zerbato e Giuseppe Corrà

 

(le notizie qui riportate sono tratte dal libro “All’ombra del forte. San Briccio: fatti, storie e racconti” di Renzo Zerbato e Giuseppe Corrà, Comune di Lavagno, 2012).

 

Le difese militari del veronese e il forte di San Briccio

Nel 1861 venne proclamato il Regno d’Italia, ma il Veneto restava ancora saldamente sotto il dominio austriaco. Al termine della Terza guerra di indipendenza (1866), il Regno Italiano, dopo un plebiscito, ottenne  la cessione del Veneto tramite un passaggio formale alla Francia, poiché l’Austria non era stata battuta sul fronte italiano. Così il 16 ottobre 1866 le truppe italiane entravano a Verona.

 

L’unificazione al Regno d’Italia non portò, tuttavia, alcun beneficio al Veneto. La povertà iniziata sotto i francesi, proseguita con il Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall’Impero Austriaco, e consolidata sotto il Regno Sabaudo, diede inizio al fenomeno dell’emigrazione.  Tra il 1876 e il 1976 emigrarono quasi 26 milioni di italiani e i Veneti furono in testa alla classifica degli espatri regionali. Inizialmente l’emigrazione fu a carattere temporaneo o stagionale ed ebbe come principale destinazione i paesi europei. Successivamente, gli spostamenti divennero di fatto definitivi quando ebbero come meta la Mèrica. Anche Lavagno e con esso San Briccio vide tanti suoi cittadini, ridotti alla miseria, partire per il Nuovo Mondo con pochi stracci e tante speranze dentro alla famosa valigia di cartone legata con lo spago.

 

Nell’ultimo ventennio del XIX secolo gli operatori del Genio Militare del Regno d’Italia furono impegnati, nella piazzaforte di Verona, a chiudere la regione pedemontana a nord della città, con una corona di opere permanenti. La disposizione di tali opere riprendeva e concludeva il concetto del campo trincerato austriaco, attuato fino al 1866 sul settore meridionale, verso i terreni pianeggianti della campagna veronese.

 

Grafico dell'itinerario per San Briccio di: Davide Zerbato .

 

Anche il forte San Briccio, sorto sull’omonimo colle a circa 230 metri di quota, là dove si trovava il complesso delle opere parrocchiali, è una delle fortificazioni militari che, assieme alla propria batteria in località Monticelli di Vago, al forte Santa Viola di Azzago, di Monte Castelletto a Cancello, di Monte Tesoro a Sant’Anna d’Alfaedo, forte Masua a Breonio e San Marco a Rivoli Veronese, doveva proteggere il territorio veronese da eventuali attacchi austriaci dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia. Nessuno di questi forti si è trovato sul fronte di combattimento nel primo conflitto mondiale, perciò non è possibile dare un giudizio sulla loro efficienza, sia per quanto riguarda l’offesa, che per quanto attiene alla difesa.

 

La Batteria Monticelli, fortificazione di pianta trapezoidale, fu costruita a sud del forte di San Briccio per battere la strada Verona-Vicenza e per rafforzarne l’azione difensiva del forte di San Briccio. E’ circondata da un fosso fiancheggiato da due cofani di controscarpa ed è dotata di paradorso. I suoi pezzi di artiglieria erano sistemati in barbetta, in postazioni singole, separate da traverse. Il manufatto, oggi di proprietà privata, si trova ancora in buono stato sulle alture di Lavagno, nascosto in mezzo alle vigne, approssimativamente tra via Monticelli, via Preare e via Fontana.

 

Gli espropri fondiari

Limite della proprietà demaniale espropriata

 

Il Regio Decreto 17 agosto 1882 n. 1007 dichiarava di pubblica utilità la costruzione delle nuove opere di difesa da erigersi attorno alla piazza di Verona. Inoltre, indicava, tra le altre, come area destinata alla costruzione di un’opera militare la parte più panoramica del territorio comunale di Lavagno, che venne espropriata dal Governo Italiano il 9 ottobre 1882. Il 9 dicembre dello stesso anno, il Genio Militare procedette all’occupazione forzata dei terreni per iniziare la costruzione del forte. Tra questi risalta la prebenda parrocchiale di Lavagno (San Briccio) goduta da don Serafino Manzatti. Dopo laboriose trattative, la somma ottenuta come risarcimento, inclusa la chiesa, fu di lire 57 mila, pari 228.000 euro o 441.489.560 lire circa. Ai restanti 11 proprietari compresi nell’elenco dei terreni espropriati furono corrisposte 17.293,60 lire per i 26.135 mq. Loro sottratti. Si tratta di circa 69.174,40 euro attuali. Successivamente, sulle somme da liquidare furono riconosciuti gli interessi del 5% annuo. I pagamenti avvennero il 1° maggio 1884 per un importo complessivo di lire 1.346,60.

 

Un primo Foglio Annunzi della Provincia di Verona n. 93 del 26 novembre 1882 riporta un’inserzione con la quale si avvisa che viene depositato presso l’ufficio comunale di Lavagno l’elenco dei fondi da espropriare, comprese le strade, con l’indicazione delle indennità offerte dall’Amministrazione Militare ed invita gli interessati ad esaminarlo per eventuali osservazioni e per la dichiarazione di accettazione. Da notare che, a parte il caso della prebenda parrocchiale per la quale vi fu una laboriosa trattativa che portò le parti ad un reciproco soddisfacimento e per le strade di proprietà comunale, per tutti i restanti terreni si trattava di indennità offerte. In altre parole, poiché erano espropri considerati di pubblica utilità, non vi fu libera trattativa commerciale, ma soltanto valori imposti.    Davanti al rifiuto degli espropriati di sottoscrivere i documenti di cessione dei terreni, furono convocate presso il Genio Militare nella zona di Porta Palio a Verona riunioni per chiarimenti e tentativi di convincimento. Ma per i militari il tempo stringeva e il braccio di ferro non accennava a risolversi tanto che il Genio Militare, con una nota del 10 ottobre 1882, informava il sindaco del Comune di Lavagno di avere ottenuto l’autorizzazione del Ministero della Guerra per procedere all’occupazione d’ufficio in via d’urgenza dei terreni in questione. Nonostante ciò, i rifiuti e i contrasti andarono per le lunghe e gli annunci di convocazione ai fini della sottoscrizione degli atti di esproprio si succedettero nel tempo.

 

Il primo elenco dei terreni espropriati copriva un totale complessivo di 68.712 metri quadrati che non garantiva ancora la superficie necessaria per la realizzazione del forte, stimata dal Genio Militare in circa 74.000 metri quadrati. Con un successivo Foglio Annunzi del 20 maggio 1883, si avvertì che era stato affisso nel municipio di Lavagno un elenco suppletivo degli immobili da espropriarsi. Ma la superficie non bastava ancora. Si giunse così nel 1884 ad un ulteriore Foglio Annunzi datato 19 giugno e firmato dal sindaco di Lavagno, conte Carlo Da Lisca, il quale informava gli interessati che, per 15 giorni, in Municipio sarebbe stato depositato un ulteriore elenco della Direzione del Genio Militare di Verona dei terreni da espropriarsi e delle indennità offerte ai proprietari.

 

Problemi sorsero anche al momento di incassare gli importi degli espropri perché i vari padroni dovettero produrre gli atti di proprietà e/o usufrutto, cancellazioni di ipoteche, atti di morte o, in caso di terreni appartenenti a minori, l’approvazione dell’indennità convenuta da parte del Tribunale di Circondario. Non fu sempre facile reperire i documenti necessari per attestare le successioni in modo da poter incassare il denaro. Discussioni e malumori andarono avanti per molto tempo, anche a causa dei comportamenti dei militari. Comportamenti legittimi sotto il profilo delle leggi e del diritto, ma poco rispettosi della sensibilità degli abitanti del luogo che, dopo aver subito una inaspettata e per alcuni drammatica invasione nella propria sfera privata e sociale, non ricevettero nemmeno quelle attenzioni utili per lenire, almeno in parte, i “torti” percepiti.

 

Un caso per tutti. Si legge in un documento del 29 gennaio 1883 della Direzione territoriale del Genio Militare di Verona, indirizzato al Sindaco di Lavagno, che il Ministero della Guerra aveva autorizzato la vendita all’impresario Perotti Casimiro di tutte le piante e delle viti con i relativi sostegni esistenti sui fondi espropriati. Agli ex proprietari era concesso di poter recuperare solamente le asticelle orizzontali poste a sostegno delle viti. Tale comportamento dei Militari, sia pure legittimo, non fu gradito ai contadini, che consideravano ancora di proprietà personale i beni inclusi nell’elenco delle espropriazioni e ritenevano di poter rendere meno pesante il danno che stavano per subire grazie al recupero di quanto si trovava sul terreno. Non desta, quindi, meraviglia se con un documento del 1° aprile 1883 il Genio Militare di Verona informava il Sindaco di Lavagno che gli operai dell’impresario Perotti erano stati oggetto di insulti e minacce mentre procedevano alle operazioni di taglio ed asportazione delle piante nonché dei materiali esistenti nei campi. Il documento si concludeva con l’invito rivolto al sindaco di far desistere i contadini da tali atteggiamenti.

 

La burocrazia era all’opera anche a quel tempo e le pratiche di esproprio e gli indennizzi andarono per le lunghe tanto che nel 1885, a distanza di tre anni da quando avevano perso i terreni, c’erano ancora degli espropriati in attesa dei rimborsi.  Anche in questo caso per tutte valga la vicenda (ben documentata negli incartamenti conservati negli archivi del Comune di Lavagno relativi alla realizzazione del forte) di Angela Zumerle, una povera vedova che dovette tribolare a lungo prima di ricevere l’indennizzo dei beni che le erano stati espropriati perché dagli atti catastali non ne risultava proprietaria.

 

L’esproprio della prebenda parrocchiale e delle strade

Identificazione degli edifici sulla base del documento di esproprio del Genio Militare

 grazie al quale è stato possibile ricostruire l'aspetto del vecchio complesso parrocchiale.

 

Ricostruzione del vecchio complesso parrocchiale secondo la mappa catastale,

disegno di Renzo Zerbato.

 

Verso la fine del 1882 don Serafino Manzatti, allora parroco a San Briccio, venne convocato dall’Amministrazione del Genio Militare di Verona, per l’occasione rappresentata dal colonnello Giacinto Boetti, per definire gli atti di esproprio della prebenda parrocchiale (43.000 mq. dei 74.000 ritenuti necessari dai militari per la realizzazione del forte). Il convocato si presentò all’appuntamento accompagnato da alcuni membri della Fabbriceria [Ente morale composto di ecclesiastici e laici incaricati dell’amministrazione dei beni di una chiesa] e da subito si oppose alla proposta dei militari che prevedeva l’espropriazione per i due terzi del «Beneficio Parrocchiale» e della casa canonica, senza, peraltro, la chiesa in quanto, essendo collocata più a nord, non doveva interessare il perimetro del forte. Don Manzatti insistette perché, unitamente alla casa canonica, venisse espropriata anche la chiesa o, al contrario, che rimanessero tutte e due fuori dell’esproprio. Il motivo addotto dal parroco fu sostanzialmente quello che l’abbattimento della casa canonica lo avrebbe costretto a trasferirsi in altro luogo senza la possibilità di continuare a custodire la chiesa che sarebbe rimasta in balia «di eventuali inconvenienti». Tanto insistette e tanto fece don Manzatti che alla fine il Genio militare fu costretto ad accettare le richieste del parroco e a considerare anche la chiesa fra i beni da espropriare.

 

Si trattò, poi, di determinare il valore complessivo dell’esproprio (chiesa, sacrestia, oratorio, campanile, casa canonica a due piani, con undici camere, cantine portico e fienile, casa colonica ad un solo piano con quattro camere e un portico, porticato a colonne posto tra la casa canonica e la chiesa parrocchiale, per un totale di 43.000 mq. Rimaneva escluso il cimitero che era di proprietà comunale). Il parroco, assistito dai due fabbricieri, Luigi Maschi e Giobatta Composta, rifiutò il primo prezzo offertogli di 40.000 lire, sottolineando che quella cifra sarebbe stata «appena sufficiente per trasportare lassù i materiali se si avesse a fabbricare là una simile chiesa». Da buon commerciante chiese il doppio: 80.000 lire. Il Genio Militare si dichiarò disposto ad arrivare al massimo a 47.000; il parroco ridusse la cifra a 75.000. Dopo lunghe consultazioni il colonnello salì a 50.000, mentre il parroco scese a 70.000. Poi ancora il colonnello offrì 55.000 lire ad il parroco ne chiese 65.000.

 

A quel punto, arrivata l’ora di colazione, la trattativa s’interruppe, anche per la fame. Inoltre, prima di accettare qualsiasi accordo, il colonnello ritenne di dover sottoporre al Ministero il prezzo concordato. Durante il pranzo di quel giorno il parroco, i fabbricieri e un certo ingegner Vincenzo Balconi, stabilirono che si sarebbe potuto combinare per lire 57.000 lire (la somma corrisponde a 228.000 euro attuali o 441.489.560 lire) con «diritto al pulpito, agli altari, balaustri e con la riserva di sentire il giorno seguente, che era domenica, il parere e il voto del paese». La domenica, il parroco informò i paesani e chiese il loro parere temendo di essere smentito e sperando che dal popolo arrivasse un suo aiuto per resistere ed ottenere un qualche ulteriore vantaggio. La risposta dei parrocchiani, sicuramente anche stanchi di salire fino alla chiesa lassù sul monte, fu, invece, che i militari quella chiesa «la pagavano molto cara».   Rimane il rammarico di sapere per mano dello stesso don Serafino Manzatti che almeno la vecchia chiesa sul monte e il cimitero a nord della medesima, attorno ai quali si conservavano ancora tracce, affioranti dal terreno di un’antica fortificazione, potevano essere salvati. Da precisi documenti, nel libro stato possibile dare un volto,  anche grafico, alla prebenda parrocchiale demolita.

 

Assieme alla vecchia chiesa, alla canonica, alla casa colonica, all’attiguo cimitero e ai fondi agricoli, per la realizzazione del forte vennero espropriati anche alcuni tratti della strada comunale detta “Parrocchiale”, che in origine servivano per l’accesso alla chiesa.

 

Il 9 febbraio 1884 la Direzione Territoriale del Genio Militare di Verona informava il sindaco di Lavagno che dal giorno 15 del corrente mese in poi, gli abitanti provenienti dalla parte di San Pietro avrebbero dovuto accedere alla chiesa passando dalla strada comunale che parte dal paese di San Briccio.

 

 

L’interruzione della strada provocò notevole disagio ai fedeli provenienti dal basso. Essi furono costretti temporaneamente a passare dal paese per accedere alla chiesa ed anche visitare i defunti divenne più faticoso, in quanto i loro resti mortali non erano ancora stati trasferiti dal vecchio al nuovo cimitero, in fase di allestimento. Il sindaco avanzò al Genio Militare la richiesta di procrastinare la chiusura della strada fino alla realizzazione della nuova chiesa (1883-1885) o almeno fino a quando non fosse stata effettuata l’esumazione dei cadaveri. La direzione del Genio Militare con lettera dal 14 febbraio 1984 rispose che non poteva indugiare, «urgendo spingere alla massima alacrità i lavori del forte S. Briccio».

 

Vi furono delle trattative, finite in tribunale, anche sul prezzo al metro quadrato della strada espropriata dalla Direzione Territoriale del Genio Militare di Verona. I soldi si dovevano corrispondere al Comune di Lavagno. Il Comune, sulla scorta di altri espropri analoghi, riteneva di dover ottenere 70 centesimi al metro quadrato, mentre il Genio Militare ne offriva soltanto 20. Si ricorse allora ad una perizia giudiziaria. In una nota del tempo si legge che il prezzo al metro quadro per le strade, a seguito di perizia giudiziaria, fu fissato in lire 0,40, per un importo totale di lire 758.

 

La gara d’appalto per la costruzione del forte

Negli ultimi anni dell’800, le opere fortificate (forte poligonale) erano caratterizzate da sistemi costruttivi e da materiali (pietra, laterizio e masse coprenti terrose) che non si discostavano da quelli austriaci di metà dello stesso secolo. I manufatti di questo tipo erano considerati «a prova di bomba», erano cioè coperture o strutture atte più che altro a proteggere con efficacia i locali dagli effetti delle esplosioni dei proiettili.

 

Un avviso d’asta notificava che alle tre pomeridiane del 22 febbraio 1883 in Verona, davanti al Direttore del Genio Militare, nell’ufficio di via Porta Palio, 73, si sarebbe proceduto all’appalto per la costruzione di un forte sulle alture di San Briccio, presso Lavagno, per l’ammontare di 1.500.000 lire, da eseguirsi nel termine di 600 giorni. Seguirono altri tre avvisi di gara: il quarto porta la data del 25 giugno 1883. Per incentivare le partecipazioni alla gara d’appalto, la somma, era stata aumentata a 1.650.000 lire. Oggi corrisponderebbero a 6.600.000 euro, qualcosa come circa 13 miliardi di vecchie lire. Il 4 luglio 1883 i lavori furono aggiudicati al signor Eugenio Laschi fu Giacomo. Circa un mese dopo, il 17 agosto 1883, il Laschi cedeva il contratto all’impresa Giovanni Antonio Ronchi e cav. Federico di Cirillo Bagozzi di Villa Cogozzo (Brescia). Cessione approvata il 6 ottobre 1883 dal Ministero della Guerra di Roma.  Per questa operazione il Laschi percepì 1.728.000 lire. Nel maggio 1883 furono eseguiti i primi saggi con la dinamite per conoscere la natura e la compattezza del terreno. I lavori per la realizzazione del forte iniziarono nell’ottobre del 1883.

 

I lavori di demolizione della chiesa e gli scavi per la costruzione del manufatto militare riportarono alla luce diversi importanti reperti archeologici che risalgono a differenti epoche: dal Medio Evo, all’Epoca Romana e indietro fino alla Preistoria. Sommariamente si tratta di vasellame di varie forme e dimensioni; asce, zappe, manici, chiodi, aghi; coltelli, cucchiai e oggetti riconducibili alla cucina; archi, coltelli, giavellotti per la caccia; fibule, orecchini, collane, pallottoline in vetro con buco, pettini, bottoni, monete di varie epoche, palchi (alcuni con incisioni euganee), ossa, corna e denti di cervidi, ossa di maiale e di bue.

 

Durante gli scavi vennero alla luce anche tracce di fondamenta e pavimentazioni, pilastrini, muri di sostegno e pareti romane, tracce di costruzioni preromane e medioevali. Pietre con iscrizioni euganee e romane. Schegge di selce. Purtroppo, come quasi sempre avviene in questi casi, non tutto fu chiaro fin dall’inizio nei riguardi degli effettivi ritrovamenti, soprattutto di natura umana e nei confronti di eventuali trafugamenti dei materiali archeologici.

 

I numerosi reperti rinvenuti in diversi siti dimostrano come in tutta la zona del forte e dintorni vi siano stati insediamenti umani fin dai tempi antichi. Altri ritrovamenti di documenti romani nella zona in basso del colle di San Briccio, denominata Palù, avvennero nel 1866, ancora prima che iniziasse la costruzione del forte.

 

Ma tutti questi reperti del passato dove sono finiti? Tolti quelli andati distrutti durante i lavori per gli scoppi delle mine, quelli andati perduti e quelli sicuramente rubati, degli altri di certo sappiamo che il conte Cipolla acquistò personalmente alcuni di questi oggetti rinvenuti; molti pezzi furono raccolti dalla Direzione del Genio Militare di Verona, altri furono acquistati dal Museo Civico di Verona; qualcosa era in possesso dell’altro ispettore, il cav. De Stefani; altri risultavano conservati nella camera dell’impresario Bragozzi; infine, altri ancora erano conservati presso l’assistente del Genio. Proprio una grande confusione di destinazioni, non c’è che dire, con un’unica certezza: nulla, purtroppo, sembra essere rimasto a San Briccio.

 

I lavoratori del forte

Gli scavi si protrassero dalla fine del 1883 fino alla seconda metà del 1885. Un documento dell’epoca riporta che alla data del 19 giugno 1884 erano impegnati complessivamente 344 operai, dei quali 27 scalpellini provenienti, prevalentemente, dall’intera Provincia di Verona, ma anche da altre località limitrofe e non. Nel diario di Celestino Chiaffoni, residente a San Briccio, si legge che lavoravano alla costruzione del forte 600 “carriolanti”. Raccontano alcuni vecchi del paese di aver saputo dai loro genitori che la stragrande maggioranza di questi operai non tornavano a casa la sera. Molti dormivano nelle baracche della ditta costruttrice, alcuni in paese, d’estate nei fienili o all’aperto, d’inverno nelle stalle. Sempre nel suo diario Celestino Chiaffoni scrive che gli impresari e i militari, durante la costruzione, erano alloggiati nella casa di Chiaffoni Pietro in San Briccio. Ancora dai racconti degli anziani del luogo emerge che vi era anche un continuo via vai di carri trainati da buoi, cavalli, muli provenienti dalla Valpolicella per trasportare le pietre necessarie alla costruzione del forte.

 

Le operazioni di realizzazione del forte non dovevano procedere secondo i tempi previsti se, nel giugno 1884, durante un suo sopralluogo, il generale Giuseppe Salvatore Pianell ordinò di aumentare il numero dei lavoratori, che, dai 344 del giugno 1884, salirono a 364 al 30 ottobre dello stesso anno. Per migliorare le capacità operative, sempre nel giugno 1884, fu realizzata una funicolare, mossa da una motrice a vapore, dotata di vaschette per agevolare il trasporto dei materiali e anche degli operai dalla pianura fino alla sommità del monte e viceversa.  

 

Durante il lavoro per la costruzione del forte ci furono anche dei morti e feriti. Ne abbiamo conferma dal Centone di storia, scritto a mano da don Antonio Pighi nel 1919 per l’allora parroco di San Briccio, don Nicola Modesti, e da un documento prefettizio del 28 luglio 1884 che informava il Sindaco di Lavagno della morte di alcuni operai addetti ai lavori. Di uno, chiamato per soprannome Richelma, sappiamo che era morto perché gli era crollata addosso una parte della parete, mentre un altro operaio si ferì cadendo dall’alto. Entrambi, il primo inutilmente, furono soccorsi dal dottor Tommaso Dal Dosso, ufficiale sanitario di Lavagno. Nello stesso documento il prefetto avvisava il sindaco anche della cattiva qualità dell’acqua potabile invitandolo «ad impartire al capo li necessari provvedimenti igienici» perché l’acqua potabile era indispensabile per i circa 400 operai impegnati nei lavori. Ma questa opera non venne realizzata e si continuò a trasportare l’acqua potabile e a conservarla in cisterne fino a quando, il 12 luglio del 1896, non venne inaugurato l’acquedotto di San Briccio. Ma allora la costruzione del forte era già terminata, secondo i dati ufficiali. Non, però, secondo il diario di Celestino Chiaffoni che la fissa al 1887 con l’inaugurazione alla presenza del principe Vittorio Emanuele divenuto poi Re d’Italia. Altra versione quella di don Antonio Pighi che nel Centone pone il collaudo al 1° agosto 1888. Per l’esecuzione dell’opera furono impiegati almeno 1.300 giorni lavorativi,  più del doppio dei 600 stabiliti nel capitolato di gara.

  

Da forte armato a deposito munizioni

Dopo il 1890-95, l’importanza del forte di San Briccio decadde soprattutto per il superamento delle sue caratteristiche costruttive in fatto di adeguatezza offensiva e difensiva. Pure l’evoluzione  dei cannoni e l’efficacia dei proiettili  rese vane le fortificazioni tradizionali. Ciò nonostante, il forte fu ancora mantenuto come opera militare attiva fino al 1979. Anche se, dopo il 1918, fu destinato a deposito di munizioni.

 

La pericolosità di tale deposito ha, fin da subito, destato la preoccupazione della popolazione di San Briccio e dei territori limitrofi. Ma, nonostante le manifestazioni di protesta, si arrivò all’ultimo conflitto (1940-1945) con il forte ancora pieno di munizioni. Questo fatto e la guerra in corso aumentarono nella popolazione locale la preoccupazione, soprattutto quando il deposito, prima occupato dalle truppe tedesche, fu lasciato incustodito poiché i militari fuggirono dopo averlo minato. Il pericolo principale era rappresentato dal fatto che i soldati tedeschi in ritirata, per ritorsione, volessero farlo saltare in aria. Raccontano i vecchi di San Briccio che al suono delle sirene tanti scappavano con i pochi loro averi verso il monte alle spalle del paese, altri si rintanavano nelle cantine profonde con i volti a botte. Avevano, infatti, terrore che qualche bomba lanciata dagli aerei potesse colpire il forte e farlo scoppiare. Era ancora vivo nel ricordo della popolazione lo scoppio avvenuto poco distante il 13 settembre 1943 del forte Castelletto, posizionato tra le frazioni di Moruri e Cancello. Scoppio che costò la vita a 37 persone accorse, dopo l’abbandono dei militari, per cercare di recuperare i sacchi di lino nei quali era custodita la polvere da sparo con lo scopo di potersi confezionare dei vestiti.

 

Tra il 1943 e il 1945 nel forte si alternarono diversi “ospiti”. Dopo l’abbandono da parte dei militari italiani in seguito alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, arrivarono i tedeschi con carri armati e ci rimasero per circa due mesi. Poi giunsero i repubblichini di Salò. Nei giorni della liberazione il forte venne occupato dai partigiani che, aiutati dalla popolazione di San Briccio, lo svuotarono della polvere e delle munizioni che conteneva, evitando che i tedeschi in ritirata potessero farlo saltare in aria. Marino Composta, il comandante “Anselmo” del gruppo partigiano di San Briccio, appartenente al Battaglione “Gian Dalla Bona” della Brigata “Luciano Manara”, ricorda quelle giornate di fine guerra: «Il mio gruppo, con il consenso del CNL [Comitato di Liberazione Nazionale] veronese, si aggregò alla Brigata Manara comandata dalla medaglia d’oro Luciano Dal Cero, nome di battaglia Paolo. Ricordo il mio primo incontro con lui: una staffetta mi avvertì che il comandante di brigata mi voleva vedere. L’appuntamento era all’angolo della chiesa di Colognola ai Colli. Là mi recai con Germano Dal Dosso e, riconosciuti, fummo accompagnati in un casolare disperso nel bosco. Senza tanti preamboli, Dal Cero ci propose di assalire (era il 14 o 15 aprile 1945) il forte e di farlo saltare in aria con l’aiuto di altri partigiani che dovevano scendere dalla montagna con dei camions. Lo scopo era di impadronirsi delle armi e di compiere un’azione eclatante. Là, nel forte però c’erano solo una dozzina di moschetti, un fucile mitragliatore ed un mitra. C’erano, invece circa 400 quintali di tritolo T4, molto pericoloso, una grande quantità di balistite, circa 15.000 granate senza bossolo pronte all’uso, cartucce per fucile, munizioni antiaeree e bombe da mortaio 88 sequestrate ai francesi e che non si potevamo utilizzare. Lo sapevo con precisione perché al forte lavorava Ottone Ruffo appartenente al mio gruppo. Sapevo anche che il deposito era già stato minato dai tedeschi. Per quelle poche armi, dunque, non valeva la pena di farlo saltare e mettere in pericolo tutta la popolazione di Lavagno e Marcellise». Composta venne creduto e il forte e la popolazione furono salvi. Ma l’azione più importante fu quella della notte del 24 aprile, quando con il consenso del comando di artiglieria di Verona, da cui dipendeva il deposito di San Briccio, e l’aiuto della popolazione, il forte fu svuotato del tritolo che venne poi bruciato. Le fiamme salirono alte circa 200 metri. La guardia fascista che presidiava il forte rimase a guardare e, finita l’operazione, riprese il proprio posto. La mattina del 25 aprile un’autoblinda e una camionetta di tedeschi si presentarono sulla strada che sale al forte da San Martino Buon Albergo. Si fermarono al guado del Progno di Marcellise e gli ufficiali tedeschi, che volevano far saltare il forte, lo scrutarono con i binocoli insospettiti dall’insolito movimento. Se fossero saliti non saremmo stati in grado di bloccarli con le nostre armi. Allora ho fatto vuotare lungo la strada una quarantina di casse di balistite da bruciare al passaggio dei mezzi tedeschi. Ma non fu necessario perché rinunciarono a salire e se ne andarono. Verso sera dello stesso giorno il colle di San Briccio fu preso a cannonate dalle truppe alleate arrivate alla linea dell’Adige. Il bombardamento cessò solo quando, a fatica perché c’era un vento fortissimo, fu issata sul forte una bandiera bianca».

 

Alla fine della guerra, per un certo periodo, il forte fu vigilato da una trentina di volontari di San Briccio armati con fucili da caccia. Successivamente i militari organizzarono la custodia con guardie giurate scelte sempre tra gli abitanti di San Briccio. Esse dipendevano dal Genio Militare. Non indossavano una divisa, ma solo un particolare berretto ed erano armate con moschetto e aiutate da tre cani. Per custodire il forte svolgevano turni regolari nelle ventiquattro ore.  Solo a fine 1960 i militari ripresero il controllo diretto del forte. Nel periodo antecedente e successivo alla Seconda Guerra Mondiale, fra i consegnatari militari del forte di San Briccio si ricordano Mario Ardu,  Alcibiade Scarabello, Guerrino Ziviani e  Santo Papa. La dismissione ufficiale del forte da parte dei militari risale all’8 marzo 1979.

 

Le servitù militari

Dal 1884 al 1960, pur essendo la strada che lambiva il territorio demaniale del forte passata sotto la competenza militare e, quindi, preclusa al transito delle persone non autorizzate, l’autorità militare, in accordo con quella comunale, aveva sempre concesso la possibilità di passaggio senza formalità per l’accesso ai fondi che altrimenti sarebbero stati difficilmente raggiungibili. Tale consuetudine venne mantenuta anche nei periodi più tragici delle due guerre mondiali. I rapporti con i militari furono quasi sempre improntati al reciproco rispetto ed era permesso transitare sulla strada sterrata che porta al forte fino al posto di controllo, situato a circa 200 metri dall’entrata, non soltanto per andare a lavorare nei campi, ma anche semplicemente per passeggiare.

 

Negli anni ‘60 il permesso per poter transitare lungo le strade demaniali fu formalizzato, limitato e reso sempre più difficile, sino ad essere tassativamente negato, anche temporaneamente, a chiunque, compresi i proprietari o coltivatori dei fondi a partire dalla primavera del 1967. Sulla strada che da San Briccio conduceva al forte vi era un presidio di guardie armate con tanto di sbarra mobile, che controllava gli accessi permettendo il transito soltanto a persone munite di autorizzazione. Nonostante gli interventi e le proteste dei contadini, che non portarono alcun risultato, si era arrivati ormai all’agosto del 1967 e, di lì a non molto, si sarebbe dovuto provvedere alla vendemmia. Con lettera, l’allora sindaco di Lavagno dott. ing. Gianni Chiaffoni inviò alla Direzione del Forte in Verona un elenco di 49 nominativi che avevano necessità di ottenere un permesso per lavoro, «in attesa di definizione della questione di accesso ai fondi dalla strada militare».

 

Il 12 settembre 1967 il V° Comando Militare Territoriale di Verona rispondeva al sindaco che l’autorità militare superiore aveva fatto conoscere che non poteva concedere, neppure con carattere di temporaneità, una servitù di transito su area del demanio pubblico militare. Al sindaco non rimase che prendere atto e far presente i gravi danni che quel comportamento dell’autorità militare provocava. Seguirono altre lettere del sindaco che non si dava per vinto e che riteneva un diritto dei suoi amministrati il poter transitare, muniti di permesso, sulla strada militare per accedere ai loro fondi. Purtroppo nessuno sembrava in grado di accontentare le sue richieste.

 

A seguito di questo comportamento dei militari, che dichiararono anche di voler interpellare l’Avvocatura di Stato, in data 2 settembre 1967, il sindaco inviò alla Direzione del Genio Militare di Verona una lettera di protesta. Non ottenendo risposta, il 5 dicembre 1967, inviò un’altra missiva al medesimo indirizzo minacciando la possibilità di incidenti in mancanza di soluzioni eque e pure il ricorso all’Autorità Tutoria. Facile immaginare che nel frattempo il raccolto dei campi ne soffrisse e, in qualche caso, andasse perduto.

 

Con una lettera dell’8 giugno 1968 indirizzata al Prefetto di Verona, il sindaco, nel lamentare ancora una volta il perdurare della chiusura ingiustificata della strada del forte da parte dell’Autorità Militare, lo informava del crescente malcontento della popolazione di San Briccio che si era vista respinta anche la richiesta di transito provvisorio per un numero limitato di persone e per il solo periodo della vendemmia del 1967, mentre era stato concesso successivamente e per altra via a persone diverse dall’elenco presentato dal Sindaco.

 

Nella stessa lettera il sindaco denunciava la maleducazione e il silenzio dei militari di fronte alle sue richieste tese a favorire il lavoro nei fondi agricoli. Da ciò si può comprendere e giustificare il risentimento degli agricoltori che dovevano sopportare il procrastinarsi dei divieti nei propri riguardi, vedere i raccolti compromessi e, per contro, assistere a favoritismi e discriminazioni a vantaggio di chi non poteva vantare nessun diritto. Il 22 giugno 1968, il sindaco di Lavagno inviava nuovamente al comando militare l’elenco dei 49 proprietari e coltivatori dei terreni che avevano necessità di transitare sulla strada militare. Il Genio Militare di Verona, il 27 giugno 1968, rispondeva, questa volta cambiando sostanzialmente la formula, che in base alle vigenti leggi non era possibile concedere in via permanente il diritto di passaggio sul tratto di strada militare ubicato all’interno del deposito. In questa lettera il Genio Militare ammetteva, però, la possibilità di permessi provvisori, anche se poi nella realtà non si assunse neppure questa responsabilità. La lettera concludeva con il suggerimento di rivolgersi al comando di Padova.

 

Seguirono ancora altre lettere del sindaco e rimostranze dei contadini che, in risposta, si videro arrivare i Carabinieri di Mezzane di Sotto, mandati per cercare di calmare gli animi. Alla fine qualcosa si mosse. Il 13 luglio 1968, 36 dei 49 contadini di San Briccio, per poter ottenere un permesso provvisorio valido per accedere ai fondi [furono costretti a sottoscrivere un documento che sollevava l’Amministrazione Militare da ogni responsabilità per danni a cose e persone che potessero verificarsi per qualsiasi causa durante il transito lungo la strada militare del deposito munizioni.]  A seguito di ciò, il 1° agosto 1968, il Comando Presidio Militare di Verona, rilasciava 36 autorizzazioni provvisorie di transito lungo quella strada militare.

 

Con una prima lettera del 1° giugno 1971, il Genio Militare di Verona comunicava al Sindaco di Lavagno che, in applicazione della Legge 20 dicembre 1932 n. 1849, stava procedendo allo studio dei vincoli e delle servitù militari a protezione del Deposito militare ex forte San Briccio. Nel frattempo, provvisoriamente veniva fissata una fascia di profondità variabile da 200 a 250 metri dalla recinzione, soggetta a vincoli, dove, tra l’altro non era possibile realizzare costruzioni.

 

Nel settembre 1973, fu emanato dal Genio Militare un elenco dettagliato di vincoli e di servitù a protezione del deposito munizioni. In primo luogo vennero identificate due zone circostanti il forte. La prima includeva i terreni entro i 100 metri dalla recinzione attiva del forte, la seconda si estendeva per ulteriori 150 metri, per un totale di 250 metri.  Nella prima zona, compresa nella fascia di terreno profonda 100 metri dalla recinzione attiva del forte (muraglione) per la parte non ricadente in area demaniale, era vietato:

1.      fare piantagioni di alto fusto, di piante fruttifere, di granoturco, frumento, segala, ecc.

2.      procedere ad operazioni di scasso con mine;

3.      accendere fuochi e bruciare residui delle piantagioni;

4.      lasciare seccare sul posto i prodotti di coltivazioni o le vegetazioni spontanee. Nel caso di vegetazioni spontanee, se i proprietari non provvedano direttamente al tempestivo sfalcio ed alla conseguente pulizia del terreno, vi avrebbe provveduto l’Amministrazione Militare;

5.      erigere muri e costruzioni di qualsiasi genere, di sopraelevare manufatti esistenti, di fare elevazioni di terra od altro materiale;

6.      aprire strade;

7.      scavare fossi o altri vani, ad eccezione di cunette per lo scolo delle acque della profondità massima di metri 0,50 dal piano di campagna;

8.      impiantare linee elettriche e condotte di gas;

9.      tenere depositi di materiali infiammabili;

10.  tenere fucine ed altri impianti provvisti di focolare, con o senza fumaiolo.

 

L’elenco concludeva evidenziando che per le culture a granaglia la distanza di metri 100 era ridotta a 50 con l’obbligo, però, di fare i covoni oltre il limite dei metri 100 dalla recinzione.

 

Nella seconda zona, compresa nella fascia di terreno della profondità variabile da m. 100 a m. 250, era vietato aprire strade ed erigere costruzioni di qualsiasi genere. La segnaletica per rendere visibile al pubblico la zona vincolata era formata da termini lapidei e tabelle indicatrici.

 

Complessivamente furono oltre 150 (153 secondo un elenco redatto dalla V Direzione Lavori Demanio e Materiali del Genio di Padova) i proprietari o comproprietari dei terreni ai quali nel 1976 vennero inviate le notifiche dei vincoli imposti. Approssimativamente tra i terreni soggetti a esproprio e quelli condizionati dai vincoli e dalle servitù furono in totale circa 420.000 i metri quadrati occupati dai militari per un totale di circa 130 campi veronesi.

 

Sul finire del 1975 e durante tutto il ‘76, molti proprietari terrieri o addetti alla coltivazione di campi (un elenco del Comune di Lavagno allegato a una lettera inviata alla V Direzione Lavori genio Militare di Verona ne riporta 41) presentarono ricorso al sindaco del Comune di Lavagno, prof. Giannino Corradini, contro i vincoli imposti dal Genio Militare in virtù del Decreto Ministeriale n. 2090 del 20 luglio 1974, anche perché l’imposizione di tali servitù presupponeva, a loro giudizio, la decisione di conservare il Forte-Deposito, perpetuando una situazione di incombente pericolo per la popolazione di San Briccio e dei centri abitati vicini e pregiudicando lo sviluppo sociale ed urbanistico della zona. Anche a seguito, di ciò l’Amministrazione comunale del tempo, denunciando lo stato di tensione nella popolazione di San Briccio, si mosse presso il Ministero della Difesa, la Regione Veneto ed altri organi competenti per ottenere il declassamento del forte o, in ogni caso, la sostituzione dei pesanti vincoli con altri meno onerosi nell’interesse generale.

 

Nonostante le continue manifestazioni di denuncia del pericolo di tale deposito munizioni e dei danni causati dai vincoli, il 17 maggio 1977 il Capo di Stato Maggiore del V Comando Militare Territoriale del Nord Est, gen. B. Giovanni de’ Bartolomeis, respingeva i ricorsi e affermava che il deposito di San Briccio non determinava alcun pericolo per i centri abitati circostanti. Anche il Prefetto di Verona interessato alla faccenda, fece come Pilato: scaricò la responsabilità della situazione sul Decreto Ministeriale n. 2090/74 che imponeva le servitù militari. Inoltre non trovò di meglio che invitare i proprietari dei terreni e dei fabbricati gravati da vincolo di servitù militare a richiedere ai competenti uffici finanziari la revisione dell’estimo catastale.

 

Nel 1978, una nuova regolamentazione delle servitù militari in materia di limitazioni collegata anche agli indennizzi, riconfermava sostanzialmente quelle stabilite nel 1973. Infatti, nella prima zona profonda 100 metri dalla recinzione attiva per la parte non ricadente in area demaniale era vietato:

a)

-          fare elevazioni di terra o di altro materiale;

-          costruire condotte o canali sopraelevati;

-          impiantare condotte o depositi di gas o liquidi infiammabili;

-          scavare fossi o canali di profondità superiore a 50 cm.;

-          aprire o esercitare cave;

-          installare linee elettriche;

-          scassare il terreno con mine;

-          lasciare seccare o bruciare sul posto i prodotti delle piantagioni.

b)  

-          aprire strade;

-          fabbricare edifici;

-          sopraelevare edifici esistenti.

 

Nella seconda zona di terreno, della profondità variabile da m. 200 a m. 250 dalla recinzione attiva (da m. 100 a m. 150 dalla precedente), furono confermati i divieti di cui alla lettera b) sopra riportati.

 

La Legge n. 898/76, disponeva  che ai proprietari degli immobili assoggettati alle limitazioni a) e b) spettava un indennizzo annuo rapportato al reddito dominicale e agrario dei terreni ed al reddito dei fabbricati come valutati ai fini dell’imposizione sul reddito. Gli importi erano ridotti alla metà qualora le limitazioni avessero riguardato una soltanto delle lettere sopra citate. In caso di non accettazione, si doveva ricorrere agli arbitri nominati dalle parti o dal Presidente del Tribunale. La stessa legge disponeva che, a decorrere dal 1° gennaio 1977, anche ai Comuni il cui territorio era assoggettato alle limitazioni sopra riportate era dovuto un contributo pari al 50 per cento dell’ammontare complessivo degli indennizzi spettanti ai proprietari degli immobili siti nei Comuni stessi. Lavagno solo per l’anno 1977 percepì 457.970 lire.

 

Gli importi delle servitù, indennizzate a norma di legge, cioè senza possibilità di trattativa, non dovevano essere granché remunerativi e la burocrazia da affrontare per ottenerli non era migliore dell’attuale se nel giugno 1978 la V Direzione Genio Lavori Demanio e Materiali del Genio di Padova inviava al sindaco del Comune di Lavagno sette manifesti da affiggere in prossimità delle zone sottoposte a vincolo di servitù militare, al fine di sollecitare i 113 proprietari degli immobili, che ancora non lo avevano fatto, a presentare domanda di indennizzo. La lettera informava inoltre il sindaco che la maggior parte delle richieste di indennizzo già pervenute erano irregolari e, per questo, andavano  ripresentate corrette.

 

Si aggiunga che, come è stato detto in precedenza, i contadini dovevano pure munirsi di permesso provvisorio per transitare sui tratti di strada militare ubicati all’interno del perimetro del deposito per raggiungere i propri poderi. Anche per questo le servitù si rivelarono oggetto di numerose controversie sollevate da parte dei proprietari dei terreni. Si deve, infine aggiungere, per dovere di verità, che il Comune di Lavagno per la cessione di detti tratti di strada comunale percepì degli indennizzi, ma non si adoperò per ricostruire i tronchi stradali sostitutivi come si era impegnato a fare.

 

I militari se ne vanno

La popolazione di San Briccio e l’Amministrazione comunale non avevano mai smesso di manifestare il proprio malumore e la propria contrarietà per i pericoli e per i vincoli derivanti dalla sopravvivenza del deposito d’armi e di munizioni quando pressoché tutti quelli costruiti nella stessa epoca e per lo stesso scopo, tutti tra l’altro in posizione più isolata, erano stati da tempo abbandonati. Ultimamente, alle altre proteste si erano aggiunte anche quelle di un’associazione di volontariato, il Circolo culturale di Lavagno.

 

Finalmente, a fine 1978, con grande sollievo di tutti, ma soprattutto di San Briccio, il forte, fino ad allora presidiato dai militari, venne dismesso e completamente svuotato da ogni esplosivo. Una lettera del Genio Militare di Verona del 5 marzo 1979 chiedeva al Comune di Lavagno di far sigillare o meglio rimuovere il contatore dell’acqua poiché non più necessaria all’Amministrazione Militare. Il contatore fu tolto pochi giorni dopo, esattamente il 16 marzo 1979.

 

Con una seconda lettera del 8 marzo 1979, il Comando Militare Territoriale di Verona informava il Comune di Lavagno che «l’infrastruttura denominata Deposito Munizioni S. Briccio alla data odierna non è più utilizzata e in attesa di essere restituita agli Organi del Genio Militare».

 

Fu festa per tutti. Per i contadini di San Briccio proprietari dei fondi, al sollievo per lo scampato pericolo, si aggiunse anche il decreto n. 50 del 9 aprile 1979 della Regione Militare Nord - Est che abrogava tutte le servitù militari.

 

Subito dopo la dismissione da deposito di munizioni, la prima volta il 14 giugno 1979 e successivamente in più occasioni, il Comune di Lavagno cercò di entrare in possesso del forte. La comunità di San Briccio rifiutava l’idea che il forte potesse essere usato a fini di lucro e, in più occasioni, chiese che l’Amministrazione comunale si facesse carico di acquisirlo per destinarlo ad attività di carattere pubblico.

 

Nel 1979 l’Ufficio Tecnico Erariale (Ute) di Verona aveva stimato il valore del forte in 206.000.000 di lire. Allora, a seguito di unanime delibera straordinaria del Consiglio comunale del 7 marzo 1980, il Comune manifestò la disponibilità ad intavolare trattative con l’Amministrazione Militare per la sua cessione mediante permuta con alloggi e/o aree fabbricabili secondo quanto previsto dalla Legge 18 agosto 1978 n. 497.

 

Con una petizione dei primi del 1981 i cittadini di San Briccio (firmarono in 326) chiesero al Comune di Lavagno di confermare all’Amministrazione Militare la volontà di acquistare il forte mettendo in atto tutte le soluzioni finanziarie utili, comprese necessarie limitazioni dell’area, da decidersi in ogni caso preventivamente con la comunità di San Briccio. In quel conteso gli abitanti offrivano di farsi carico della gestione del forte e di dare avvio ad iniziative di pubblica utilità. Le trattative si protrassero senza esito. La cronicità degli esigui mezzi finanziari a disposizione, la difficoltà di trovare alloggi o aree edificabili e le condizioni poste dai militari rendevano di fatto impossibile l’operazione.

 

Una seconda stima dell’Ute di Verona degli inizi del 1982 aumentava il valore complessivo dell’immobile a Lire 350.000.000. Peraltro, l’Amministrazione Militare, oltre alle richieste economiche in denaro o in permuta di alloggi, aveva posto al Comune il termine del 30 aprile 1982 (termine poi prorogato al 30 maggio successivo) per manifestare la concreta disponibilità ad acquisire l’immobile e le sue pertinenze, data oltre la quale il bene sarebbe stato utilizzato per le esigenze dell’Amministrazione Militare.

 

Il 4 marzo 1986 il Comando Regione Militare Nord-Est di Padova riconfermava la disponibilità a permutare l’ex forte di San Briccio a parità di valori, con possibilità di conguaglio da parte del Comune, a condizione che gli alloggi dati in permuta fossero completamente autonomi, con superficie di circa 95/105 mq. ed in Verona o nelle immediate vicinanze. Dopo quella data, fece seguito una consistente corrispondenza da parte del Comune di Lavagno con gli enti interessati, tutta tesa a ricercare l’accordo anche se era parso fin da subito chiaro che il Comune, da solo, si trovava nell’impossibilità di raggiungere lo scopo. Fu richiesto anche l’interessamento ed il contributo della Provincia di Verona e della Giunta Regionale del Veneto. Furono presentate mozioni e interrogazioni da parte di personalità politiche locali. Fu anche avanzata la proposta di costituire una cooperativa autogestita e controllata dal Comune. Il Centro Culturale di Lavagno, che in quel periodo custodiva e gestiva il forte, scrisse più volte al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Ministro delle finanze e dei Beni culturali, ai politici in generale per chiedere che il bene fosse assegnato direttamente alla comunità di San Briccio, tramite il Comune di Lavagno. Ad onor del vero va detto che ci furono anche dei contrari: per qualcuno (pochi per la verità) c’erano altre priorità per cui impegnare il denaro; altri avrebbe voluto fare nelle vicinanze del forte una cava di basalto, altri ancora costruire case.

 

Una prima possibilità concreta per ottenere il forte si presentò nel 1998. Con circolare 11/T del 15 gennaio 1998 il Ministero delle Finanze, fornendo chiarimenti sulla procedura di alienazione immobili e diritti reali immobiliari appartenenti allo Stato, alla luce di quanto disposto dalla Legge finanziaria 449/97, stabiliva un diritto di prelazione da parte del Comune, prima che il bene fosse messo all’asta pubblica. La Legge regionale 3 dicembre 1998, n. 29, all’art. 41 disponeva: «La Giunta Regionale concede un contributo fino a lire 500 milioni per l’acquisizione da parte del Comune di Lavagno (Verona) delle aree demaniali dello Stato ex forte San Briccio (capitolo n. 3473)». Il termine per presentare la domanda di contributo fu fissato inderogabilmente al 31 marzo 2000. Nel giornale “L’Arena” del 24 novembre 1998, p. 24 si legge la conferma di quando appena riportato ed anche che il Comune di Lavagno aveva accantonato 100 milioni sempre per l’acquisto del Forte, mentre la Provincia di Verona aveva assicurato un contributo.

 

Purtroppo anche in questo caso l’operazione, che sembrava già a buon punto, non poté essere conclusa. Nella procedura di alienazione emanata dal Ministero delle Finanze mancava l’indicazione nominativa dei beni alienabili, tra cui avrebbe dovuto esserci anche l’ex forte di San Briccio. Ma l’ostacolo maggiore fu il Genio Militare con il quale si erano intrattenuti i rapporti fino ad allora: lo stesso dichiarava, infatti, di essere semplice depositario delle chiavi e, quindi, soltanto custode e gestore dell’immobile e non “proprietario”. Per questo non fu possibile, nei tempi stabiliti, individuare l’interlocutore legalmente autorizzato a formalizzare gli atti di vendita.

 

Successivamente ci furono altri scambi di corrispondenza tra il Comune di Lavagno e gli enti presumibilmente competenti alla vendita dell’immobile. Però la trattativa non andò mai a buon fine.

 

Il forte e il Centro culturale di Lavagno

Dall’abbandono del forte da parte dei militari e fino al 1998 la popolazione di San Briccio si è adoperata per il recupero, la salvaguardia e la valorizzazione del manufatto, divenuto punto di ritrovo di teppisti, spacciatori e drogati, nonché preda della vegetazione spontanea contrastata solo da depositi di detriti e immondizie.

 

Da subito, a San Briccio aveva iniziato la propria attività un’associazione di volontariato senza fini di lucro denominata Centro Culturale di Lavagno con presidente Lino Pasetto [1].  Grazie ad essa era stata realizzata un’attività di recupero ambientale e degli spazi da destinare ad iniziative culturali, ricreative, sportive. Numerosissime furono le realizzazioni, tra le quali va citata la sistemazione all’interno del forte di un interessante museo etnografico della cultura contadina, visitato annualmente da migliaia di persone e particolarmente dalle scolaresche. Contemporaneamente, sempre all’interno del forte, fu allestito anche un teatro all’aperto in cui si svolgevano manifestazioni culturali e canore a livello regionale ed interregionale. Negli altri spazi interni erano state allestite mostre itineranti ed anche la sede per il locale gruppo corale La Fonte.

 

Venne addirittura organizzata una vacanza-lavoro: i giovani potevano mangiare e dormire nelle stanze del forte per nove giorni con un modesto contributo. Lo scopo della vacanza-lavoro era duplice: attrezzare a parco verde una parte del terreno circostante il forte ed attirare l’attenzione degli enti locali sull’opportunità di avere al più presto la disponibilità definitiva del forte per utilizzarlo a fini culturali e sociali. Grazie a queste attività il forte di San Briccio era stato inserito nelle guide dei musei regionali e nazionali.

 

Eppure la vita per l’associazione non fu né facile, né a buon mercato. Una prima richiesta di concessione del forte venne avanzata dal Centro Culturale di Lavagno per un periodo di tre mesi durante i quali organizzare mostre fotografiche e culturali venne accetta. Ma, la lettera di risposta fu positiva, ma affermava anche che, per la regolarizzazione amministrativa della concessione, si doveva attendere la determinazione del relativo canone d’affitto da parte del competente Ufficio Tecnico Erariale di Verona.  Nell’attesa si poteva comunque ritenere operante la concessione.

 

Altre successive richieste di proroga della concessione o per la realizzazione di riunioni pubbliche furono respinte. Ma la determinazione e la costanza spesso vincono e alla fine il Centro Culturale di Lavagno, ottenne definitivamente la gestione temporanea dell’immobile.

 

Circa 30 persone, autofinanziandosi, lavorarono per anni al recupero di quanto ancora era salvabile, fecero pulizie, installarono un impianto elettrico, pensarono a progetti per valorizzare l’immobile e per svolgere un servizio sociale. Come ringraziamento per il lavoro svolto, nel 1995 ricevettero l’ingiunzione di versare all’Ufficio del Registro di Verona 23 milioni in un’unica soluzione per l’utilizzo del forte nei 12 anni di attività compresi tra il 1983 ed il 1995. A nulla valse il ricorso protrattosi per 15 anni. La somma finì sulle spalle di alcuni componenti del Centro Culturale che dovettero pagarla per non vedersi pignorare i  propri beni. Ma le richieste di pagamento non si fermarono qui.

 

I responsabili dell’associazione subirono pure delle denuncie. E furono costretti ad abbandonare il forte a se stesso quando, nella seconda metà del 1998, fu dichiarato inagibile.  Da quel momento la mancata manutenzione, le infiltrazioni d’acqua, l’umidità, i furti di materiali e oggetti antichi, le azioni vandaliche agevolate dall’assenza di custodia ne aumentarono il degrado, mentre piante e sterpaglie stanno progressivamente inglobando il manufatto quasi a divorarlo come le antiche città Maya.

 

Interno del Forte, foto di Stefano Ridolfi.

 

Anche la scuola media di Lavagno si era mossa per collaborare con il Centro culturale di Lavagno nel dar nuova vita agli spazi del forte di San Briccio “adottando” il manufatto ed il suo territorio impagabile che lo circonda. L’idea era quella di approfondirne la conoscenza storica e l’ambiente che lo circonda in modo da farli apprezzare sempre di più attirando l’attenzione su di essi. Progetti questi che non erano rimasti solo sulla carta perché in aula i ragazzi avevano cominciato davvero ad interessarsi al loro monumento “adottato” attuando anche vere e proprie uscite sul territorio in occasione di giochi ed inaugurazioni dei sentieri naturalistici capaci di far scoprire flora e fauna del luogo. Purtroppo, il decreto di inagibilità del forte mise la parola fine anche a questa interessante iniziativa che si era dimostrata capace di aprire la scuola al territorio.

 

Oggi l’Amministrazione comunale di Lavagno sta tentando di ottenere gratuitamente il possesso del forte di San Briccio. Se la richiesta verrà accettata, questo bene sarà disponibile per la popolazione locale. Ma questa sarà un’altra storia.

                                    

                                                                                          Lavagno, 16 giugno 2012

 


 


[1] Membri del  Centro Culturale di Lavagno  Cecilia Antolini, Tommaso Benini, Clara Brigantini, Raffaella Cavedini, Giorgio Chelidonio,  Paola Colombo, Antonio Negrini, Sergio Negrini, Sandro Nobis, Lino Pasetto, Piero Pasetto, Graziella, Giorgio Tricarico, Graziella Tricomi, Paolo Veronese.

 

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San Briccio e il forte: il perché di una ricerca e il suo percorso

 

  La ricerca pubblicata nel libro di Renzo Zerbato e Giuseppe Corrà, All’ombra del forte. San Briccio: fatti, storie e racconti, Comune di Lavagno, 2012, è nata da una necessità concreta: si trattava di documentare, attraverso una breve storia dell’immobile, la domanda che l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Simone Albi ha rivolto agli organismi competenti dello Stato per ottenere gratuitamente il forte di San Briccio al fine di restaurarlo e valorizzarlo, destinandolo, poi, ad attività di carattere prevalentemente pubbliche.

 

  Man mano che il lavoro procedeva, diventava, però, sempre più interessante perché venivano alla luce fatti, storie e racconti di un paese la cui vita tranquilla alla fine del 1800 fu all’improvviso movimentata da quell’evento imprevedibile: sulla sommità del colle l’Esercito italiano intendeva realizzare una grande costruzione occupando un terreno di 74.000 metri quadrati, 43.000 dei quali li espropriava alla parrocchia e i rimanenti ad altri piccoli proprietari terrieri. Una costruzione che avrebbe potuto ospitare «in caso di belligeranza fino a 290  militari tra artiglieri e fucilieri e che era armata con 8 cannoni da 149 G, 4 obici da 149, 4 mortai da 149 e 4 cannoni da 87» (dalla Perizia realizzata dagli architetti Giampiero Bellomi e Maurizio Serafini per conto del Comune di Lavagno, datata 8 aprile 2003, p. 4).

 

  La realizzazione e la presenza del forte ha interferito, nel bene e nel male, con il tranquillo fluire del tempo a San Briccio per quasi cento anni: dal 1882 (inizio delle pratiche di esproprio dei terreni) al 1979 (sigillatura del contattore dell’acqua del forte da parte dal Comune di Lavagno dopo che i militari si erano ritirati già nell’anno precedente).

 

 Per realizzare il nostro lavoro, durato un anno e mezzo, abbiamo avuto a disposizione principalmente queste fonti:

    I documenti conservati nell’archivio storico del Comune di Lavagno che contengono, oltre ad interessantissime mappe catastali, il ricco carteggio intercorso tra il municipio e il Genio militare incaricato dell’esproprio dei terreni e della realizzazione dell’opera. Su questi documenti non ci risulta che qualcuno mai avesse lavorato prima d’ora.

 

   Altrettanto importante si è dimostrato il Centone di storia, datato 4 settembre 1919, scritto da don Antonio Pighi all’età di 76 anni, su richiesta dell’allora parroco di San Briccio don Nicola Modesti. Di don Pighi, soprannominato “il Pighetto per la sua bassa statura”, nel nostro libro abbiamo tracciato anche una breve biografia servendoci  del Dizionario biografico dei Veronesi secolo XX, a cura di Giuseppe Franco Viviani, Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Verona, 2006, Vol. II, p. 649 e del testo di Dario Cervato, Tunica Christi, Preti veronesi nel Novecento, Verona, Curia Diocesana, 2010, p. 124, 125.

 

   Il Centone di storia, è stato trascritto a macchina nel 1985 da don Remo Bertolini parroco a San Bricco dal 1980 al 2001. Il suo preziosismo lavoro permette di leggere molto più agevolmente il manoscritto di don Pighi, talvolta difficilmente decifrabile ed ingarbugliato. Infatti, sempre nella trascrizione, anche don Remo ha interpretato male una data molto importante per la comunità di San Briccio: quella dell’inaugurazione dell’acquedotto comunale ed ha scritto: «19 luglio 1896». In realtà l’opera è stata inaugurata il 12 luglio 1896 come documentato dall’articolo non firmato intitolato L’inaugurazione dell’acquedotto di Lavagno apparso sul giornale diocesano Verona Fedele il 13 luglio 1896.

 

  Compiendo il proprio lavoro, don Bertolini ha ritenuto opportuno aggiornare l’elenco dei parroci di San Briccio fino all’anno 1980, includendovi il proprio nome e definendosi «il presente dattilografo».

 

   Ritornando al Centone di don Pighi dobbiamo dire che, purtroppo, non ci è stato possibile lavorare sul testo originale perché non l’abbiamo rinvenuto nell’archivio parrocchiale di San Briccio, luogo in cui avrebbe dovuto essere conservato. Ma ci siamo avvalsi di una sua riproduzione fotografica in possesso di Giuseppe Corrà. Siamo certi, però, che le fotocopie da noi usate sono autentiche perché realizzate dal dirigente scolastico Piero Pasetto sui documenti originali avuti in prestito da don Bertolini mentre ancora era parroco a San Briccio e a lui restituiti.

   In occasione della stesura del nostro libro abbiamo provveduto a rimettere nell’archivio parrocchiale una fotocopia del Centone di storia, sia nella versione originale manoscritta, che nella trascrizione di don Bertolini. E speriamo che vi rimangano a vantaggio di chi volesse indagare ancora su San Briccio e la sua storia: sono, infatti, patrimonio di tutti.

 

   Un’autentica miniera di notizie si è dimostrato  il Libro delle memorie; cioè Registro delle cose e fatti notabili spettanti la venerabile pieve di S. Brizio di Lavagno”, iniziato nel 1853 dall’allora parroco don Giustino Lonardi e continuato anche da altri sacerdoti che hanno guidato questa parrocchia fino a don Bertolini. Il manoscritto è conservato nel locale archivio parrocchiale.

 

  Anche su questo documento che, non potendolo trasportare all’esterno, abbiamo fotografato pagina per pagina e decifrato, talvolta con difficoltà, non ci risulta che qualcuno abbia mai lavorato prima d’ora.

 

    In fine, altra preziosissima fonte di informazioni sono stati il manoscritto di Celestino Chiaffoni, Memorie e date delle principali opere fatte a S. Briccio nel passato fino ad oggi, concessoci in visione dalla nipote Cristina Chiaffoni, e le testimonianze raccolte parlando con chi a San Briccio ci abita da parecchio tempo e ben ne ricorda la storia del proprio paese e, nel raccontarla, ha voluto contribuire, insieme a noi autori. a conservarne la memoria.

 

   Alla fine, il lavoro che abbiamo svolto e la pubblicazione che abbiamo realizzata, ci hanno permesso anche di far luce su alcuni eventi importanti della storia di San Briccio, primo fra tutti quello di dare forma visibile alla chiesa e alle opere parrocchiali spazzate via dalla realizzazione del forte. Di questi fabbricati siamo stati in grado di produrre la ricostruzione grafica, basandoci non sulla fantasia, ma su precise mappe catastali, sugli atti di esproprio e sulle notizie contenute nel già citato Libro delle memorie iniziato dal parroco don Giustino Lonardi nel 1853. Proprio quest’ultima fonte ci ha permesso, tra l’altro, di documentare che la vecchia chiesa sul forte e la sua erta scalinata avrebbero potuto essere conservate perché ai militari non era necessario il loro abbattimento. Ma la storia  è andata in maniera diversa (ved. sopra: L’esproprio della prebenda parrocchiale e delle strade)

 

  Ci dispiace  di non aver potuto dare soluzione all’enigma della lapide che si trova murata sulla fiancata esterna sinistra per chi entra nell’attuale chiesa di San Briccio. Il contenuto della lapide, scritta in latino, siamo riusciti a leggerlo. Ma chi sia questo Andrea de Zannoli a cui è dedicata e perché sia stata murata sulla fiancata esterna della chiesa non siamo riusciti, per ora, a spiegarlo.

 

  Il libro, in fine, ha raccolto molte testimonianze ancora vive nella memoria degli abitanti di San Briccio. Non ultime quelle legate alla furiosa tempesta che l’8 agosto del 1945 portò devastazione agli edifici e alla campagna.

  Tragiche nel loro dolore e nella loro disperazione le figure di due contadini. La prima quella di colui che, dopo aver invano bruciato i rami d’olivo benedetti in uno scaldaletto collocato davanti alla porta di casa per esorcizzare il disastro, vedendo che la furia del temporale non si arrestava, lo prese e lo scaraventò in mezzo alla corte gridando: «Tò, ciapa 'nca chesto (Prendi anche questo)».

 La seconda, quella dell’altro contadino che, alla vista del disastro causato da quel furioso temporale, corse in cucina, staccò il grande crocifisso appeso alla parete e lo trascinò con forza e violenza in mezzo alle vigne distrutte, dove ad ogni passo si impigliava nei tralci e nei tiranti spezzati. Anche questo povero uomo gridò allora la propria disperazione al Cielo e, rivolgendosi al Crocifisso, gli urlò: «No te vol mia vegnar? Ma te devi ‘edar sa t’è combinà! (Non vuoi venire? Ma devi vedere cosa hai combinato!)».

 

  Anche questi episodi fanno parte dei fatti, delle storie e dei racconti di San Briccio raccolti nel nostro volume come testimonianza e ricordo.

 

                                                   

Renzo Zerbato e Giuseppe Corrà

 

C'era una volta