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LE MEMORIE DI AQUILINA

 

La storia che vi proponiamo è quella della contessa Aquilina Alberti Cermisoni: ultimo grande personaggio della casata! (La famiglia Cermisoni e Il Feudo di Campalto) Della sua vita non abbiamo inventato nulla: solo le contraddizioni della sua interiorità, ma quelle, si sa, sono sconosciute!

 

di Paolo Tricario

 

Campalto 15 marzo 1731

 

Sono tornata da Venezia, anzitempo. Appena conosciuta la sentenza, ho voluto tornarmene a casa, nella corte antica di campagna che mi ha visto nascere. E ardere di inconsapevolezza: corte di Campalto. Corte della mia proprietà. Sono tornata prima, per prendere un po' di fiato: prima di morire! Per graffiare sulla carta un po' di memoria, per fare luce a questo sangue sordo che dentro mi manca, mi travaglia, mi consuma da anni.

 

Fossi una santa o un'eroina, dovrei incominciare col ripetere che la vita è un gran mistero, e non lo comprende che l'ora estrema ... : no, non penso che l'esistenza umana sia un rebus indecifrabile e nemmeno che in punto di morte si debba nè rinnegare nè sminuire il valore stesso del tempo: un po' di ragione ci vuole, e di chiarezza, e di lumi per i miei quasi 40 anni, per la mia malattia e per il senso della mia vita ...

 

Ieri nella capitale Serenissima, la Suprema Corte veneziana ha riconosciuto in appello l'istanza di legittima proprietà avanzata dalla sottoscritta, contessa Aquilina Alberti-Cermisoni, contro il padre mio scellerato, conte Alessandro Da Lisca e contro i rami cadetti Iimitrofi- cugini- e imbroglioni dei Cermisoni: per qualche anno i miei figli e la proprietà (e le volontà del nonno nella tomba!) saranno salvi. la mia battaglia l'ho vinta: ma so che altre sentenze, altri processi verranno e il nome e i beni finiranno per intricarsi nella palude labirintica dell'oblio, e scomparire come per acqua cupa cosa grave ...

 

Non fa niente: non si vive mica per il Futuro, ma per realizzare il Presente che ci appartiene. (Anche questo, che piano mi scivola tra le dita adesso, adesso che si fa sera, venendo su la nebbia grigia dalla fossa di Acqua Grossa ed è facile che il rimpianto confonda i significati e i ricordi e anche le rabbie: no, non sono mai stata una donna cinica e dura, abbarbicata alla proprietà come un'alga marina al suo scoglio'). All'inizio credevo di lottare per il nome della famiglia, perché durasse nel tempo qualcosa, poi ho smaniato per il sangue della mia discendenza, per i miei figli, perché non fossero defraudati: alla fine mi sono resa conto di aver combattuto per me, per me stessa: perché la vita propria è ciò che ci appartiene, e solo quello: la dignità di questa vita propria: guardarsi in faccia, nell'istante che sai ultimo, e non avere vergogna. E morire un poco meno stupida!

 

Sono nata nel 1692, nell'antica villa "dominicale" della famiglia Cermisoni di Campalto. E lì, nella corte padronale del conte Carlo, mio adoratissimo nonno, e poi nei campi verdi che declinano verso i ruscelli di Acqua Grossa o più a nord, verso le cartiere di Ca' Dell'Aglio, ho vissuto e ruzzolato i sensi incantati della mia infanzia. Mia madre era la contessa Angela Cermisoni: una donna fragile e silenziosa. Forse si portava addosso, come tutte le nature gentili, il rincrescimento di chi sopravvive: lei al fratello primogenito Bartolomeo, morto di tifo a 12 anni. Ma era fanciulla coraggiosa e intrepida, capace più di me di sopportare, e non tradì mai suo padre, né i suoi desideri. Il suo patrimonio, nel 1686, fu frutto di una tregua momentanea nella feroce e ormai cronica lotta che opponeva il feudo del Busolo, proprietà della potentissima famiglia Da Lisca, al feudo di Campo Alto, proprietà stremata da successioni e divisioni dei Cermisoni. Ma fu un'unione sciagurata: e divenne purtroppo origine di altre lotte , di altri odi. Mio padre non lo vedevo mai,

 

Mappa del Comune di San Martino B.A. - 1874 (archivio - Sergio Spiazzi)

 

Lui ... , era come se non esistesse! Abitava nel palazzo di Verona. A Campalto, in campagna, non veniva mai. Ci venne, però quando mia madre era prossima al parto: il secondo. atteso 5 anni. Il conte Alessandro, spagnolesco e avido, arrivò con gran seguito di carrozze e paggi e familiari.

 

Era ricco lui. Ma non gli bastava mai. Venne per consacrare con la sua buffoneria la nascita del primogenito. Del maschio. Ouando gli presentarono il dolcissimo sorriso di Virginia, maledisse il sangue imbastardito di "foemina" della casa Cermisoni: e se ne tornò in città. Smise di pensarci. al maschio. A mia madre aveva già smesso, da sempre! Il nonno, il Conte, il gran feudatario Carlo Cermisoni mi dava la mano, talora. E ridendo divertito, era alto alto, imponente sotto il bianco inciprignito della parrucca, grandiosamente e intollerabilmente aristocratico, mi trascinava per prati e ruscelli e case coloniche: i contadini all'incontro si inchinavano rapidi o si scostavano straniti quando ci sorprendevano sotto l'ombra di un vecchio tiglio a declamare poesie d'amore: il nonno recitava il Cavalier Marino con l'arguzia impudente di chi tratta le parole del poeta come bucchero sfiatato del cuore: meraviglia del vaneggiare umano!

 

Se scanzonata un poco l'arte, era forse per educarmi al cuor sincero? Comunque i versi dell'Adone risuonavano gonfi e insulsi alle mie orecchie di bambina: ne rimase dentro un certo disgusto per vani stupori e gli astratti furori del linguaggio (nella vita poi fui costretta ad imparare e a dominare l'inconsulto frasario giuridico, fino a convincermi che neppure nelle leggi e nell'ampollaggine retorica dello scriba avvocato o notaio i nomi sono in effetti conseguenza delle cose. E allora? All'età di tredici anni, la sera del mio compleanno, il nonno mi portò nella penombra della chiesa, la sua chiesa fatta edificare per voto e per disperazione, da Capaneo stroncato, il giorno della morte del figlio: e nel silenzio dello sguardo, incoronandomi il dito con l'anello gemmato, mi fece giurare eterna fedeltà al sangue della Famiglia. La sua, naturalmente! Tre anni dopo, all'età di 16 anni, andai sposa al conte Angelo Maria Alberti. Non lo sapevo neanche, chi fosse! Mio padre (anche se non mi regge il cuore a chiamarlo tale!) in quegli anni era già in beghe dure con il nonno per diritti di eredità vantati sulla moglie. Avevano ripreso ad intrigare per avvocati e Azzeccagarbugli di passaggio. Ed entrambi tuonavano fuoco e fulmini. Però mio padre era anche viscido. E mi strappò dalla famiglia, dalla corte, dal Campo Alto della mia infanzia, per offrirmi merce di dote, scambio della sua cupidigia.

 

Vendendomi ad un prezzo per lui tollerabile di 4000 ducati, avrebbe poi meglio potuto mettere le mani sulla dote della moglie, con relativi diritti di successione. lo queste cose le capii dopo. lo a quel tempo ero appena un giunco secco, pronto a spezzarsi prima di aver sentito, diritto, la forza del vento e della luce.

 

Mio marito, peraltro di ottima famiglia veronese, si rivelò discreto e paziente. E paziente fu anche il mio corpo, che stagione dopo stagione si smussò, crebbe e mise su pancia: un maschio e tre femmine di seguito costellarono, comunque pietre preziose, i miei primi sei anni di matrimonio. Carlino fu il primogenito. "Carlino" in onore del nonno. In riconoscenza del patriarca Carlo Cermisoni, che ormai prossimo ai 90 anni. accolse il dono dovuto con un benigno sospiro. E sorrise!

 

Nel 1715 incominciò l'epoca delle morti. Fu in quell'estate che smisi di essere fanciulla, al capezzale di mia madre Angela. Io e mia sorella Virginia, tenendoci strette per mano, la guardavamo in silenzio. Morire come aveva vissuto: con molto pudore. Nonostante la sciagura del marito. Il quale a Campalto non si fece neppure vedere, E noi tutti quasi ci rallegrammo di questo, Potevamo piangere lei, senza sporcare le lacrime di disgusto e di rabbia contro lui. Ma lui c'era. Eccome se c'era. E tramava, il disgraziato uomo, Un mese dopo il funerale (io ero tornata a Verona, dai miei figli. da mio marito già malato) una carrozza con quattro manigoldi in livrea venne a prelevare a Campalto mia sorella Virginia e la scaricarono, vinta e tremante, prigioniera e sconvolta, dentro le mura del convento delle carmelitane di S. Cristoforo, Il signor illustrissimo e cattolicissimo conte padre Alessandro aveva ordinato: sua figlia minore doveva essere monaca!

 

Virginia aveva 18 anni: e larghi occhi ridenti. Un innamorato: Benedetto Giuliari e una promessa di matrimonio. Non ho mai capito se mio padre l'avesse deciso per matta bestialità o ancora per bifido calcolo di dote e di guadagno: so che giurai di tirar fuori mia sorella dal convento, Arrivai a mettermi in ginocchio davanti al vescovo di Verona: alla fine, in dicembre. ottenni il decreto di revoca dell'ordine paterno. Dopo sei mesi di rigida clausura Virginia fu libera di uscire: uscì dall'incubo, si sposò, partì da Verona e visse felice il resto delle sua vita.

 

A me rimase l'odio e la vendetta di mio padre, Questa volta feroce nemico di me stessa. E della mia debolezza. L'anno dopo morì mio marito. Due anni dopo, nel 1718, si spense il nonno, E fui davvero una donna sola. Ma questa volta il giunco era eretto. E insieme flessibile ad ogni colpo di mala ventura. E di invidia, e di gelosia, e di rivalsa contro un legittimo testamento.

 

Sul letto di morte il conte Carlo Cermisoni (lo giuro e lo ripeto in piena facoltà di giudizio!) aveva donato a Carlo, mio figlio e suo pronipote, in cambio dell'assunzione del suo cognome accanto a quello dell'Alberti, tutte le sue proprietà di Verona, di Roverchiara e di Campalto, con relativi diritti e giurisdizioni sui lavorenti e sulla terra. Contro ogni istanza di invalidamento subito pretestuosamente avanzata da mio padre e dai cadetti dei Cermisoni di Padova e di Roverchiara, altera inorgoglivo della mia vittoria: attraverso me si perpetuava il nome e il casato dei Cermisoni.

 

Ero una donna sola, ma fiera e ricca. Potente per proteggere le mie figlie, il mio primogenito Carlino, a cui erano legate le cose e il tempo. L'anno dopo, nell'autunno del 1720, l'Amore mi scoprì. (Dopo di allora, come è stato difficile e vano tenerli aperti. questi miei occhi...!)

 

Avevo 28 anni, e un corpo non straccato dalle quattro gravidanze. Ero una donna: ma non avevo mai conosciuto né l'amore né la passione. Lo vidi per la prima volta ad un ricevimento a palazzo Maffei, a Verona. Il volto pallido e magro, dominato dai grandi occhi infossati che guardavano il mondo con attonita inquietudine, era incorniciato da una rada barbetta. La bocca, dalle labbra piene e sensuali, su cui ridevano i baffi spioventi, contrastava con il mento leggermente sfuggente, coperto da una peluria leggera e ben curata. Aveva 25 anni: era giovane e spregiudicato, libero e un po' cinico, spavaldo e tenerissimo (non so quanti nemici si fosse già fatto in quel periodo, di certo fra questi anche mio padre!). Il suo volto mi è rimasto inciso dentro: le cose le forme i ricordi a poco a poco sfumano nel mondo che passa….: ma lui no, il conte Girolamo Verità mi verrà a prendere per mano, domani, o forse tra una settimana, non ha importanza: non morirò sola!

 

Egli verrà a cercarmi, come dieci anni fa… con una assiduità e una tenacia che superavano di gran lunga tutte le esperienze fatte fino allora, con un fervore una devozione che mi commossero. Sentivo per istinto che la spontaneità della sua poetica adorazione era la sua mano più forte, perché con essa disarmava le mie resistenze intellettuali: quando, dopo qualche settimana dal primo incontro, le mie rigidità si spezzarono, egli fu nelle mie braccia come un bambino che ritrova la madre da lungo tempo perduta e rimpianta. Perché?

 

Chi pagò i sicari, che lo attesero in quel meriggio di metà marzo (dovevamo sposarci il mese dopo, Pasqua del 1721!) lungo l'argine dell'Adige, lungo il sentiero di campagna che lui faceva sempre per venire a Campalto. Vicino alla località Casino, lo aspettavano: gli spararono in fronte.

 

Il cavallo imbizzarrito trascinò il suo corpo nel canneto lungo il fiume. E io rimasi, nell'antica corte ad aspettare: come un lago senza acqua, come un fuoco senza fiamma. Perché uccisero il mio amore?

 

Non credo al Dio dell'imperscrutabile. M'illudo di un Dio ragionevole. Se la mia vita non è stata filata al fuso della chiarezza e della comprensione, io dico che intorno e davanti in questo secolo ci sarà sentore di "ragione"! Dei suoi lumi gli uomini hanno bisogno.

 

A me è rimasta una superbia punita, un vuoto, e un sangue malato che mi fa morire. E tuttavia, fuori nel mondo, non ho smesso di lottare per i miei diritti e per l'eredità dei miei figli: nessuno mi ha fatto retrocedere. Anche se ormai so che altri tempi verranno e i ricordi muteranno e l'oblio spazzerà fin le rovine delle cose e dei corpi: e di me - e del nome dei Cermisoni - resterà così niente che in verità non ricordo neppure perché ho scritto queste parole, perché ho scritto la storia della mia vita. Che è passata…