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I profeti Ezechiele e Geremia (Giovanni Battista Caliari).  Foto -  Roberto Alloro.

 

Scheda Artistica - Dott. Roberta Patrizia Alloro, Dott. Roberto Alloro

 

Il quadro, dipinto dal veronese Giovanni Battista Caliari (1802-1850) verso il 1833, è il pendant dei Profeti Daniele ed Isaia di Francesco Morone. L’impianto dei due quadri è assolutamente identico, a riprova del palese e voluto richiamo del pittore ottocentesco alla tela del maestro rinascimentale: dai due personaggi maschili a figura intera in primo piano, all’ampio  e profondo paesaggio animato da uomini, animali ed edifici sullo sfondo, agli angeli sul nimbo che reggono uno scudo iscritto, fino alle  targhe di forma classica.

 

Un legame a doppio filo che parte dall’analogia della struttura per giungere all’arricchimento e al rinnovamento del messaggio teologico. Vengono ad essere così rappresentati, in due coppie, i cosiddetti quattro profeti “maggiori” dell’Antico Testamento. La distruzione dei regni terreni e la redenzione dell’umanità, proposte nel quadro di Morone (posto a fianco dell’arco trionfale), vengono anticipate dalla dura, ma necessaria, giustizia del Signore e dalla sua misericordia presentate nel quadro di Caliari (collocato sulla controfacciata). Allo stesso modo la Natività di Dai Libri veniva preannunciata, fisicamente e cronologicamente, dalla Visitazione di Caliari.

Come avviene nella pala di Francesco Morone, in alto una coppia di angeli inginocchiati su una nuvola regge uno scudo con parole che richiamano l’attenzione sulle profezie riportate nelle epigrafi poste nel registro inferiore della tela: «Ecce / sermones / prophetarum» («Ecco gli annunci dei profeti»). 

 

Le due belle figure di Ezechiele e di Geremia, forse riprese da quadri non ancora identificati (anche in questo caso, infatti, come per la Visitazione, l’inventario del 1877 conservato presso l’archivio parrocchiale parla di copia da opere del Morone), si offrono al fedele con espressioni e posture improntate al tono generale della profezia di ciascuno. Il giovane Ezechiele, con lo sguardo rivolto al cielo e le mani che si stanno unendo in gesto di preghiera, invoca la clemenza divina: «Heu heu heu Domine Deus / ergo ne disperdes omnes / reliquias Israel effundens / furorem tuum super Jerusalem?» («Ah! Signore Dio, sterminerai tu quanto è rimasto di Israele, rovesciando il tuo furore sopra Gerusalemme?») (Ez 9,8). Il più maturo Geremia, col capo coperto dal turbante e folta barba, è raffigurato in atteggiamento di austero censore che proclama l’implacabile giustizia del Signore. Fissando lo spettatore diritto negli occhi ed indicando con la destra i cocci di un’anfora di terracotta in primo piano annuncia il volere divino: «Sic conteram populum istum et / civitatem istam sicut / conteritur vas figuli quod / non potest ultra instaurari» («Spezzerò questo popolo e questa città, così come si spezza un vaso di terracotta che non si può più riparare») (Ger 19,11). 

Ai lati delle due figure, in secondo piano, il pittore ha inserito come quinte laterali dell’impianto scenico alberi ad alto fusto, mentre nel corrispondente quadro il Morone aveva optato per uno spazio aperto.

Un tranquillo paesaggio, modellato su quelli tipici di Girolamo Dai Libri, fa da scenografia a questa bella tela. Sulla riva del placido fiume un pastore suona il flauto badando agli animali al pascolo.

 

Sull’altra sponda, sopra un poggio, si sviluppa una città fortificata, con torri e palazzi: forse l’antica Gerusalemme, forse anche – in senso traslato, come è stato scritto – la nostra Verona.

Nel monocromo soprastante, sulla destra sono rappresentati gli attributi di Geremia: ceppi (aperti) e catene per polsi e caviglie richiamano la carcerazione da cui fu liberato per intervento divino; la spada, tanto presente nelle sue profezie, simbolo della giustizia di Dio; la palma dei martiri (secondo Tertulliano egli morì lapidato). Sulla sinistra pare di intravedere una sorta di volume malconcio, possibile allusione al passo del libro del profeta Ezechiele, che si rifiutava di obbedire al Signore, in cui Dio gli comanda di ingoiare i rotoli della Legge; mangiandoli Ezechiele acquista la forza di profetizzare.

 

Il dipinto, restaurato per l’occasione, è stato esposto nella mostra incentrata sul cosiddetto paramento di don Mazza, capolavoro dell’arte serica veronese. Il cenno agli studi mazziani ci dà occasione per rimarcare come certa critica abbia da tempo ipotizzato un diretto intervento di Nicola Mazza nel concepimento della complessa iconografia di questa tela, anche in virtù del lungo sodalizio artistico col Caliari, documentato almeno dai primi anni Trenta dell’Ottocento fino alla morte prematura del pittore.

 

Se l’ipotesi è, come appare, fondata, l’intervento di don Mazza andrebbe esteso a tutti e quattro i quadri di Caliari che formano il “ciclo ottocentesco”, in ragione dell’organica inscindibilità di ciascun quadro rispetto agli altri e di tutti e quattro verso quelli che costituiscono il ciclo Morone-Dai Libri.

 

Ammesso dunque che don Nicola Mazza, legato a Marcellise per ragioni biografiche e pastorali (vi aveva trascorso la giovinezza e continuò a recarvisi settimanalmente per diversi anni come cappellano festivo), sia stato l’ispiratore del ciclo caliaresco, rimane da chiedersi quale ruolo nella vicenda ebbe – se ve ne ebbe - don Giacomo Dal Palù, che resse la parrochia di Marcellise per quasi quarant’anni, dal 1829 al 1866, e dunque per tutto il tempo in cui durò il rapporto artistico Mazza-Caliari.

 

Non possono essere trascurati, in questa prospettiva, due documenti appena posteriori alla morte di due protagonisti di questa vicenda artistica. Il primo, datato 1866, è  l’epigrafe sepolcrale di Dal Palù, in cui la fabbriceria «riconoscente» ricorda il dono del defunto alla chiesa «tutta suo amore e delizia» di  un «ricco tesoro di apparati e di pitture». Il secondo documento è la testimonianza, posteriore solo di un anno alla scomparsa di Giovanni Battista Caliari, di un amico del pittore, Enrico Bertolini, il quale attribuisce a don Giacomo Dal Palù (e non ad altri) il reperimento dei fondi necessari alla realizzazione delle tele e l’affidamento dell’incarico a Caliari.

 

Queste evidenze chiamano in causa, direttamente e senza margine di dubbio, il parroco Dal Palù nella committenza dei quadri di Caliari esistenti nella chiesa di Marcellise, ribaltando la questione.

 

L’obiettivo della nostra indagine diventa pertanto scoprire se don Mazza ebbe parte nel progetto e con quale ruolo. Il che significa capire se un’impresa concettualmente così impegnativa ed ardita è frutto, come riporta Bertolini, di un’iniziativa unilaterale di Dal Palù oppure se di Dal Palù e di Mazza insieme, arricchita magari dalle conoscenze dello stesso Caliari.

   

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